L'ANGELO celtico sulla scogliera

L'ANGELO celtico il mistero dietro L'angolo. Tra il mare e la roccia delle Aran, l'enigmatico incontro di un poeta in un castello irlandese L'ANGELO celtico sulla scogliera IMPERIA DAL NOSTRO INVIATO Accade tutto in una giornata di pioggia a scrosci, in una sorta di «Micene nebbiosa, scurita, inumidita dai lunghi pianti del vento e dai lunghi voli dalle nuvole», come Giuseppe Conte descrive il castello di Dun Aengus nei Viaggi del mito pubblicato sei anni fa da Mondadori. Era l'agosto dell'81, nel Nord-Ovest dell'Irlanda. Il castello, antichissimo, di incerta datazione, è una sorta di altare di pietra, una piana semicircolare sferzata dal vento sull'oceano, cinto da tozze mura sul picco più alto delle isole Aran, e la tradizione vuole che sia stato la sede e la fortezza di Mac Oc, il giovane dio della mitologia celto-irlandese, innamorato di una ragazza cigno, figlio del dio della Terra, protettore dei valorosi e dei bardi. Nell'81 l'Irlanda non era ancora una «tigre» economica e in parte somigliava al Paese descritto da Heinrich Boll negli Anni 50, una terra di povertà dignitosa e sognante, allegra e metafisica. Soprattutto, non era ancora un itinerario turistico d'obbligo. Giuseppe Conte andava là a cercare U mito celtico, quello che sarebbe affiorato nella raccolta di poesia L'Oceano e il ragazzo, pubblicata due anni dopo direttamente in edizione tascabile, nella Bur Rizzoli, e da allora sempre ristampata. «E là accadde davvero qualcosa che non mi sono mai spiegato - ci racconta o che non ho mai desiderato spiegare, portare a una compiuta razionalizzazione», anche se lo narrò, con qualche pudore e forse persino con qualche piccola omissione, nel libro mondadoriano. Un incontro. Ma con chi? «Poteva essere un professore, sui cinquantanni, appena canuto, che parlava inglese con accento nordico e vestiva un incredibile impermeabile grigio». Si avvicinò allo scrittore e alla moglie in una casa dove i due avevano trovato rifugio da un fortissimo temporale. Erano appena arrivati sulla maggiore delle isole Aran, nel porto di Inishmore, dopo una difficile traversata da Galway. Il traghetto battuto dalle onde, passeggeri irlandesi che incuranti del beccheggio davano ai loro bambini aranciate e altre bibite «corrette» con qualche goccia di superalcolico. «Ma u porto era solo un molo, senza nulla intorno. E l'unico mezzo per muoversi erano i carretti irlandesi a cavalli», che se il tempo è bello assicurano un viaggio piacevolissimo, se piove e tira vento garantiscono solo un bagno fuori programma. Ora a Inishmore ci sono alcune automobili e un esercito di biciclette, ma i carretti sono ancora là. La differenza è che si può scegliere. Sedici anni fa c'era solo un capanno che offriva minestra calda, con i passeggeri intirizziti in coda, ciascuno con un bicchiere di latta in mano. I Conte, sbattacchiati dal vento e dalle folate di pioggia, coperti con un telo, vennero portati a prendere quella minestra in una casa dove qualcuno asciugò loro gli abiti inzuppati, e lì incontrarono il misterioso viaggiatore che, senza preambob, spiegò come ci fosse in tutta l'isola una sola automobile pubblica, l'unica possibilità per andare a Dun Aengus con quel tempo, e dunque non restava che dividerla. «Non ci trovai niente di strano - racconta Conte -, anche perché non era certo difficile immaginare quale fosse la nostra meta». Intanto la pioggia stava rallentando, squarci d'azzurro si aprivano nel cielo. Quando il taxi lasciò il terzetto in uno spiazzo ai piedi del colle su cui sorge il castello, fu possibile iniziare la salita a piedi. «Lui avanti e noi che¬ tro, su un lungo pendio brullo e deserto. La natura come all'inizio del tempo». Poi, in lontananza, i primi segni degli' uomini: una cinta semicircolare di pietre nere, porose, lavorate da secoli di acqua e vento del mare, una seconda cinta più interna, infine la terza, con un'apertura verso il vero e proprio «castello», uno spiazzo sospeso su un baratro altissimo, tagliato come da un coltello, da una mano divina. «Sentivamo le onde che si infrangevano sulla scogliera, come martelli sulla roccia nuda, prima ancora di vederle». E il distinto signore che parla inglese con uno strano accento e ha un buffo . cappello da marinaio in testa comincia a spiegare: la struttura del castello, le informazioni storiche, il contorno mitologico, le storie degli uomini e degli dèi, dei sacerdoti druidi che avevano misteriosi poteri e sapevano che le anime trasmigrano da un corpo all'altro. «Conosceva esattamente quel che stavamo cercando». Un'arpa vivente per le stagioni Ma chi era? «Io ero alla ricerca degli eroi del mito celtico, e lui senza che gli chiedessi nulla prese a raccontarmi la figura di Aengus, figlio del Dagda», il dio irlandese che aveva un'arpa vivente e suonandola faceva sì che scorressero le stagioni, ma era anche ingenuo, buono e straordinariamente goloso di porridge. In un antico testo epico si narra che per sconfiggere le sue schiere in battaglia l'esercito avversario gli apprestò, a titolo di trappola, un intero calderone della sua ghiottoneria preferita. Lui perse un po' di tempo a divorarselo, ma alla fine riuscì a recuperare il ritardo e, incidentalmente, fare anche strage di nemici. Aengus, detto anche Mac Oc, è solo uno dei suoi figli, ma è anche una delle più affascinanti creazioni della mitologia irlandese: è una sorta di Eros celtico, eternamente giovane, eternamente votato all'amore e alla bellezza, e come il padre possiede un'arpa, non di quercia ma d'oro, il cui suono può incantare e sedurre. I suoi baci si trasfor¬ mano in uccelli che volano invisibili sopra i giovani e le giovani d'Irlanda, bisbigliando pensieri d'amore alle orecchie. Per contro il «castello» che gli viene attribuito dalla tradizione è quanto di più cupo e terribile si possa immaginare, anche se non è la sua sola sede. Non si sa a che cosa fosse destinato, storicamente, l'edificio. Certo l'impressione è di un luogo sacro: costellato di moltissimi cerchi magici nascosti dalla brughiera, i «cromlech» di nove pietre che il compagno di viaggio senza nome scovava un po' dovunque, fra le tre cinte di mura, come se sapesse dove cercarli. «Mi colpì il suo sapere, che mi intimidiva: da un lato una sintonia quasi magica con noi, dall'altro una pedanteria filologica». Dalla cima si affacciarono sul mare, e il «pedante» sembrò camminare leggero fino al punto estremo del precipizio, quasi sospeso sul bordo, sorridendo. «A quel punto, mentre il cielo si rasserenava, tirò fuori le sigarette, me ne offrì una, ne accese una per sé e sorridendo disse: ce le siamo meritate». Poi fu quasi corsa a perdifiato, lungo il pendio verso l'auto, mentre il misterioso personaggio pareva scivolare di pietra in pietra indicando col braccio i cerchi magici, come rapito, eccitato, entusiasta. «Non mi ha detto nulla di sé: e pur pensando se non fosse per caso solo un millantatore che mi raccontava favole, mentre in questa strana corsa sotto un vento caldo si aprivano nell'erba fiori gialli, decisi che avevo incontrato una "guida" enigmatica e inquietante». In breve, il terzetto è in vista dell'auto. Il loro compagno si arresta, consegna allo scrittore la somma di denaro corrispondente alla sua quota per il taxi, e dice di non aspettarlo, tornerà a piedi. «Quando ripetei quelle parole al taxista, quello mi guardò un po' stupito, quasi beffardo, chiedendomi "chi" mai non avremmo dovuto aspettare, posto che lui aveva portato lì due passeggeri e altrettanti ne stava riconducendo al porto». Humour irlandese? Forse. «La sera mi parve di rivederlo con mezza birra davanti, in un pub, ma ci salu- tammo appena. E forse non era nemmeno lui». Ma chi era? «Uno spirito guida, qualcuno che ha avuto a che fare con quel luogo, l'antico guardiano delle onde. Magari l'accento nordico che sentivo nel suo inglese era solo "antico"» Ne è sicuro? «Niente affatto, ma è una possibilità». Che cosa le dette quel viaggio in Irlanda? «Molto. Per esempio l'idea di un collegamento tra l'Irlanda mitica e quella attuale». Lei fu molto attratto dalla figura di Bobby Sands, il militante indipendentista del Nord che si lasciò morire in carcere facendo lo sciopero deUa fame e dando inizio a una terribila catena di altri estremi auto-sacrifici. E ne fece pubblicare il diario in Italia. «Ci sentivo una potenza, un'energia poetica assolutamente lontana dagli altri linguaggi europei, anche quelli dell'estremismo politico». La politica di Alce Nero Nel suo ultimo libro, Dialogo d'Oriente e d'Occidente, appena uscito per Mondadori, lei torna a Bobby Sands, con una poesia, Il canto irlandese, a lui dedicata, quasi riallacciandosi al mondo celtico che emergeva prepotente nell'Oceano e il ragazzo. Fra tante mitologie inseguite in giro per il mondo, sembra essere questa la cultura che le è più cara. «Come diceva Joseph Campbell, al loro fondo tutte le religioni sono vere. Così al loro fondo tutti i miti sono veri e affasci nanti. Ma nel cuore, sì, c'è quel lo celtico». Perché? «Altri h' ho trovati già pronti culturalmente, questo che pure è molto vicino alle mie radici liguri, alla mia stessa origine, era totalmente cancellato, messo da parte. Per qualunque europeo anche non colto Apollo e Venere significano qualcosa, ma Lug, dio del sole, e Manannan Mac Lir, dio del mare, non significano nulla. Nel mondo celtico ho trovato un'idea magica del mondo, un brivido magico della natura dove dèi e uomini tendono a coincidere». L'uso politico - o folcloristico che si fa oggi del «celtismo» non dovrebbe lasciarla indifferente, nel bene o nel male. «Io ritengo che le comunità celtiche, nella storia, abbiano contribuito alla libertà e alla democrazia. Il mito della tavola rotonda di Artù contiene un elemento "egualitario" proprio nell'idea di tavola rotonda. E la prima repubblica della nostra storia è quella fondata dagli Armoricani, i bretoni che nel 410 cacciarono i funzionari romani corrotti e si difesero da soli contro i sassoni». Conte, sembra di sentire in filigrana un tema caro alla Lega... «Beh, nella Lega o meglio in ciò che rappresenta vedo una giusta esigenza di ribellarsi ai giochi della vecchia politica. Temo comunque che non si possa applicare ideologicamente un mito alla politica. E' un errore, un'operazione autoritaria che non potrei mai condividere. E poi i miti non si contrappongono, ma si integrano. Alce Nero diceva che al centro del mondo c'erano le sue montagne sacre, ma poi allungando la mano verso i punti cardinali aggiungeva: e anche là, anche là, il centro del mondo è anche là». A proposito di miti e politica. Abbiamo parlato dell'Oceano e il ragazzo, la raccolta di poesia che prende nome da una ballata dove viene rivissuto un mito celtico, quello del ragazzo muto che si getta nel mare per cercare tutte le voci del mondo, e ne esce trasformato in poeta. Un libro fortemente voluto da Piero Citati, uno dei critici più attenti alla poesia di Giuseppe Conte. Ma solo a quella, a giudicare dalla recensione entusiastica che ha dedicato, su Repubblica, ai Can ti di Oriente e d'Occidente: l'en tusiasmo è infatti ben circoscrit¬ to alla sola opera poetica. Conte viene paragonato all'albatros di Baudelaire: «re dell'azzurro» e «principe delle nubi» quando vola nel cielo della poesia, goffo e umiliato se viene catturato dai marinai e allarga le sue ali sui ponti delle navi, insomma quando si cimenta con la prosa. «Se occupa Santa Croce - scrive Citati -, non seguitelo. Se scrive intorno a Cioran e preferisce Pasolini e Sanguineti a grandi poeti come Caproni e Bertolucci, non ascoltatelo...». Un'atipica eulogia, in una società letteraria abituata a parlare bene di ciò che si ama e tacere sul resto. Che effetto le ha fatto? «E' vero che la poesia è il motore di tutta la mia attività, ed è vero che il poeta è sempre una persona emarginata e ferita, come l'albatros cantato da Baudelaire. Ma io ho pensato di ribellarmi a un'idea della poesia che piange sulla sua emarginazione, in favore invece di una poesia che affronti il mondo e voglia avere di nuovo influenza spirituale sulla realtà. Una risposta a Citati «Ma per far questo deve sporcarsi le mani col mondo, non può stare solo nei libri, non può essere solo "bella pagina"». Ragion per cui continuerà a contraddire Citati, con un altro romanzo. La Longanesi ha annunciato per ottobre II ragazzo che parlava col sole. C'è sempre un ragazzo nei suoi libri. «Perché c'è sempre una visione di ricominciamento. Il ragazzo è chi va in cerca del suo destino. In questo romanzo il protagonista attraversa molte avventure in cerca della propria verità, della propria origine, come un giovane eroe solare». Come Aengus, il giovane dio d'Irlanda? «E in fondo come me. Mi identifico in tutti i ragazzi dei miei libri, anche se ho appena compiuto cinquantanni. Vedremo se il destino che cerco sarà quello dell'albatros di Baudelaire o forse quello di scrivere finalmente un grande romanzo poetico, alla Victor Hugo». Mario Baudino La storia di Dun Aengus, giovane Dio votato all'amore e goloso di porridge che abitava in quel luogo «In quella Micene nebbiosa, inumidita dai lunghi pianti del vento e dai lunghi voli delle nuvole, comparve un uomo sulla cinquantina, che vestiva un incredibile impermeabile grigio» «Zo seguimmo su un pendio brullo e deserto, la natura come all'inizio del tempo, fino a un forte sospeso su un baratro altissimo. Sentivamo le onde infrangersi sugli scogli» liiwp noi mimb ,cc»o}*.Bii> Ho.lt! 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Luoghi citati: Imperia, Irlanda, Italia, Mondadori