COFFERATI Scommessa sul melodramma

domanda c'è, non solo d'estate: attrezziamoci per andarle incontro. Bisogna puntare di più sui giovani, anche rischiando I concerti dei tre tenori? Ne sono infastidito» come cambi era' la nostra vita. La sfida con il rock è già segnata a svantaggio della lirica? Parla il sindacalista melomane COFFERATI Scommessa sul melodramma 7*1 ROMA I ' HE è 'sti dischi?». «Nozze di I LRparo». «Allora so' per ca1 i po, giusto? Quarto piano». -MJ Da quando er capo è lui, i corridoi e gU uffici del palazzone romano della Cgil sono immersi da mattino a sera nel suono di Vivaldi e Mozart, di Verdi soprattutto. «Ci deve essere un aspetto perverso in questa mia passione per la forma più elitaria di spettacolo. Si ama sempre ciò che è diverso da sé», ammette Sergio Cofferati, che sul tavolo del suo ufficio ha ordinato, accanto alle ultime relazioni dell'ufficio studi della Confindustria, una vecchia radio funzionante, una colorata oggettistica postmoderna, una copia dell'Arte del vivere di Seneca, Tex Willer. Quale sarà il pubblico dell'opera in futuro? Ancora elitario, come è diventato da tempo, o saprà recuperare una dimensione più vasta, più rappresentativa? La lirica resterà fertile di emozioni e significati, o verrà sommersa da sapori e interessi più forti, perdendo sul mercato e nei mezzi di comunicazione il confronto con la musica pop e rock? «Brace Springsteen, gli U2, Clapton cerco ancora di non perderli, quando arrivano - confida il segretario generale del principale sindacato italiano - . Mi piaceva Frank Zappa, musicista rock che deve molto alla musica colta contemporanea. Le sue registrazioni con Boulez, i debiti espliciti verso Stockhausen, Varese soprattutto». Che potenza il rock negli Anni 70, un linguaggio ricco e immediato... «Oggi si è molto involuto, ha perduto la capacità inventiva, evocativa di quel tempo, sul piano musicale e della comunicazione di messaggi sociali. La conversione pop degli U2 mi lascia perplesso. Straordinari creatori di musica dal vivo, un tempo». Le piace il modo in cui si ascolta un concerto rock? «Il rock ha bisogno di dimensioni precise: lo stare assieme e il volume ben sostenuto. Lo puoi sentire all'aperto, invece la musica classica all'aperto crea solo problemi. Ma la cosa più bella, alla quale sono rimasto legato fin da quando ero bimbo, è il melodramma». Lei è nato in campagna, a Sesto ed Uniti, in provincia di Cremona. Anche quell'Italia si è smarrita... «Un piccolo paese dal nome altiso nante. Sono nato in un mulino. Mi prendono certe incazzature quan do vedo la pubblicità del Mulino Bianco. Nel mulino si lavorava con i piedi nell'acqua, la polvere del macinato entrava nei polmoni». La Pianura Padana tra Lom bar dia, Emilia, Romagna: il triangolo d'oro del melodramma, diceva Bruno Boriili... «Sì, e spesso per tradizione famigliare: il nonno di mia moglie diri geva la banda del paese. Mio suocero, mio padre, gli zii suonavano tutti in banda, la musica è sempre stata presente in famiglia. Mio padre lavorava a Milano, faceva il pendolare, ottanta chilometri: bici eletta fino al treno, due cambi, un viaggio. Primi Anni 50, ero piccoli no, stavo con lui sabato pomeriggio e domenica, d'estate mi caricava sulla canna della bicicletta, andavamo in giro verso il Po in queste lunghe lunghe gite in bicicletta, poi a piedi, parlava, mi raccontava, sa peva farlo, e i racconti che mi affa schiavano di più erano le trame delle opere». La prima musica che ricorda? «Rigoletto, il quartetto del terzo atto. Era d'estate, la finestra aperta, appena tornati dall'osteria di mio nonno, la radio accesa che la domenica sera trasmetteva l'opera. "Bella figlia dell'amore", la passione è nata lì. Il Duca di Mantova è un signore che poteva materializzarsi nei nostri boschi intorno al fiume» Passione coltivata anche cantando? «Ho una voce terribile, anche se tutti cantano. Facendo questo me stiere, che non ho scelto, e che mi costringe a parlare in pubblico, ho un problema evidente: una voce monocorde, di pochissima estensione. Quando durante un comizio supero la soglia dei 25 minuti, resto senza voce. E' un grande vantaggio per chi mi sta a sentire, è garantito che finirò presto». Cosa le piaceva delle passioni del melodramma? «Le storie dell'opera erano per me molto più vicine alle condizioni della vita degli uomini di quanto non lo fossero le favole. Verosimili, descrivevano passioni forti, violente. Pensi a Rigoletto: il padre deforme che ha solo quella figlia, il duca padrone che la insidia, che umuia prima Monterone, poi il buffone. L'idea della maledizione è annunciata già dal preludio. Ma tutto questo lo capisci dopo, all'inizio c'è solo la musica». Verdi, sempre attento alle perversioni del potere. «Affascinato da Jago! La dimensione politica di Verdi non la trovi in nessun altro operista italiano. Vive il suo tempo, da Nabucco a Otello, in rapporto con la storia, e non solo rispetto al Risorgimento... E quel Bossi, che confonde il Nabucco con i Lombardi alla prima crociataì... Nell'idea di nazione di Verdi sono già radicate le dimensioni attuali dell'unità nazionale. In politica era un conservatore, ma con uno spirito forte d'identità nazionale. La "patria oppressa" - quell'idea della patria guardata qualche volta con sospetto a sinistra - da liberare. E poi l'idea della dignità e della libertà della persona: pensi all'emozione che "Va' pensiero" eseguito da Muti e dalla Scala ha scatenato a Sarajevo. H melodramma rimane una forma che, oggi, ha un carattere elitario per la fruizione e l'accesso limitatissimi, ma continua a esercitare uno straordinario fascino interclassista, con una radice popolare impressionante. Ho visto la Turandot allo Stadio Olimpico: diecimila persone per quattro sere di seguito, con un atteggiamento di grandissimo rispetto verso la musica, al contrario di quello che succede nei teatri d'opera, dove la metà del pubblico va per convenzione, per obbligo sociale, ma poco gli importa di quello che ascolta». Nei nostri teatri lirici non c'è una forte capacità di catturare il pubblico nuovo. «I teatri sono strumenti importantissimi nelle mani di chi gestisce le città. Se gli amministratori tentassero di creare le condizioni per rendere la produzione musicale più accessibile, farebbero un'operazione culturale straordinaria». Costi troppo alti o fantasia che manca? «Manca la fantasia, l'abitudine, la cultura per considerare queste istituzioni uno strumento per produrre. Bisogna entrare nell'ordine di idee che quella "cosa" per una società è importante. Il teatro d'opera è quello che poi ti porta a sviluppare il resto della musica classica. Non c'è automatismo, ma se crei l'abitudine scopri che la domanda esiste. Penso alla Scuola di musica di Fiesole, alle migliaia di persone che ha introdotto alla musica. Merito di un uomo straordinario come Piero Farulli: quella Scuola è un bene nostro, di tutta la nazione e va salvata». Recentemente si è affermata una diversa tendenza. Anche se dallo Stato ricevono sovvenzioni per produrre opere e concerti, i teatri lirici, i festival invitano i cantautori. Una strada che porta a smarrire l'identità? «Se a Santa Cecilia suona Keith Jarrett è cosa diversa dalla vocazione e dal compito che ha Santa Cecilia, ma è una contaminazione possibile, un filo che unisce, anche stimolante. Ma ho la sensazione che sia cominciato un processo senza una matrice culturale precisa: se Bagliori va alla Scala, che cos'è?». I concerti dei tre tenori sono una grande impresa commerciale. Il futuro della romanza è lì, negli stadi e nelle arene? Lei fi ascolta? «Ne sono molto infastidito. Hanno un effetto negativo e nessuna funzione propedeutica, inducono a un ascolto molto superficiale, isolano le romanze fuori del loro ruolo, le fanno diventare canzonette, usa e getta. Caso tipico "Nessun dorma"». GU enti urici sono aziende che spendono il 90% dei finanziamenti per autosostenersi. Fabbriche decotte? Da salvare? «Una strada che porta allo schianto. La trasformazione in Fondazioni può essere un'occasione, se però viene accompagnata da scelte precise dalle quali nessuna azienda può prescindere, produca beni materiali o cultura. Bisogna ridurre i costi pensando a una collaborazione stabile fra più teatri; i cachet sono troppo alti, non esiste mercato e quando ci si condanna a lavorare solo con una fascia di artisti si favorisce la loro lievitazione. Bisogna puntare di più sui giovani, anche rischiando. Negli enti lirici ci sono stati periodi lunghi di devastazione e i prezzi li paghiamo ancora. Ora c'è un'inversione di tendenza, un ritorno alla professionalità, ma bisogna puntare all'ampliamento del pubblico, attrezzarsi per rispondere a una domanda che c'è, non solo d'estate». Dopo quel «Rigoletto» alla radio? «Sono arrivato a Milano dal mio paese nei 1958, per restarci vent'anni. Lavoravo alla Pirelli, la Bicocca, quando c'erano 13 mila persone. La città aveva fermenti culturali meravigliosi, nel periodo in cui mi stavo formando e avevo bisogno di stimoli. Il Piccolo Teatro, la Scala di Grassi, gli anni di Abbado e Strehler, la riscoperta di Verdi, Simon Boccanegra con la sua vela, il Ballo in maschera, il Macbeth, i Masnadieri diretti dal giovanissimo Chailly, Falstaff in una cascina padana, El nost Milan con Tino Carrara, la Lazzarini e Graziosi, la produzione brechtiana». Solo ricordi lontani? ((Anche recentissimi. Otello di Abbado e Olmi a Torino, finalmente con due giovani, belli, belli come José Cura e Barbara Frittoli: Otello e Desdemona come li volevano Shakespeare e Boito. Il teatro è finzione, e tutti ancora ammiriamo Kraus che a settant'anni canta Werther, che ne ha 23. Ma se ce ne fosse uno un po' più giovane, e quante Mimi e Butterfly non proprio quindicenni...». Quali altri personaggi ama dell'opera? «Mi diverte Dulcamara nell'Elisir d'amore di Donizetti. Di gente sempre pronta a venderti patacche ce n'è ancora tanta, in politica e nella vita sociale». La società cambia rapidissima. La musica, oggi, sembra invece più statica. «C'è una pigrizia culturale visibile. I ragazzi di oggi sono condannati a sognare di meno, l'orizzonte piatto offre meno stimoli, meno contraddizioni e questo si ripercuote sul modo in cui costruiscono il loro rapporto con la cultura, con la musica. Anche la tecnologia appiattisce: la riproduzione sonora è diventata molto sofisticata, ma molto banale. La tedino fa riascoltare a ritmi ossessivi il battito del cuore, la prima pulsione vitale, ma lì si ferma. Che impressione il mega-raduno dei giovani a Berlino! Nella forma somigliava a Woodstock, al Parco Lambro, ma allora si ascoltavano Bob Dylan, i Who, Joe Cocker, musiche diverse; qui si ascolta un'unica cosa». E il «messaggio» si ascolta ancora? «Il messaggio, la parola della canzone, mi sembra scomparso: pensi alla cultura beat, c'era tanta musica e tanta poesia. Ora ci ripropongono i primordi dell'uomo, quando vivendo da solo non aveva ancora la capacità di parlare, di ascoltare la sua voce. Però quei ragazzi non sono soli, stanno insieme e non riescono a comunicare fra di loro! Quando comincerà un nuovo ciclo?». Sandro Cappelletto «Il teatro d'opera mantiene il suo carattere elitario, ma continua a esercitare uno straordinario fascino interclassista, con una radice popolare impressionante» domanda c'è, non solo d'estate: attrezziamoci per andarle incontro. Bisogna puntare di più sui giovani, anche rischiando I concerti dei tre tenori? Ne sono infastidito» totip mio okis'ù) M (liillfi li) utili} WS!) ibaiffllM •e?.?, ^icisv leti olJ5iJ au ,?cS «b iiHdissaJis jìI svmi)l .iteaq 06 oootJiiib in; Moosi! on&sntv li liOÙÌ IIIS iIKUq 00f Ì3b s.libio' «SCisiiivJiS iiM .ìj'k-1 lllti iti-fi :»b :•«'«! !KKbN<) liS .CUOI»? tiiSi B!t^!R!ltói •ih ic-H i'jb ittiifeeiias jlbb okhhkb li1 ornali)*:):»!!! li «bmìmatoa jf&ptn swbtm ib i'i ovJteiefo'J .imifcjijpffc •iifch jqm»! ìé^ì;*;\t|>.ììc{!>(ì Sai) fo'j.ni KJiitólfcfclDiiAiioisiq r.! «baso _ "Jw^ogfcmJ iqqr.-i.tf eibii8.tivo _T*yflti!<-.ni ,oioic;?i;s".J .olOTBilbiSM um la ;;•)!(/;;% ìvxij;:; S>%r;tj- ini? !; sdii il/ tiT:..in.;,ì umlaOT a\hn,\; ...r.y.:i «i! «iiitiiiK .wimt | c*)si» V! BiicUni'J isap ptóbuab i*. ,s3j!>« i ót«nàaHi0Ss(|J8i)«oìno!sl9iiO?t? !!•:>&■! ;:-ij'>i^n(g>a ; tedi •iiyii oiq at;fit^':i i-ic-te H'iii'l? nwiS i(l ili:- .(■•J't:% .usisi iJeìUJj) Stilli phiì; sd' ìksxxvìì cijixyt i. gì? olite! Ili VJKÌ.:> P; Rtf.rÙlfiii :jJ8 S'jb :.f<;>'; ai Sili.?'! i aoO ftjidlO: 8) IlianO .:s7S!fl3ÌJPi 6 é utq tTOij ;> uftàh 6 ;? iitoiwJ isae l -sfii'l ,' 008*8jitu':ji «nii!i«;qolisi» «1 Vie; 'i!J';:*OKi ì!ìi:::::iblJ':t;Ob:j:l.:' »UK>S :.i .SKiii .S'IO OÙ* HM .1)1118 Dilli 'il;j;?ij< eliso CwOqtv! f>ifo ììIbìvium i> i. iiiifiliP !yirTili!Miìi)iiiiiilì)iìiìi'ìiiliiii Qui sopra Sergio Cofferati. In alto, da sinistra, Barbara Frittoli e José Cura nell'«Otello» andato in scena al Regio di Torino la scorsa primavera, e i tre tenori: Placido Domingo, José Carreras e Luciano Pavarotti f Un bozzetto per «Rigoletto». Sopra Giuseppe Verdi f Qui sopra Sergio Cofferati. In alto, da sinistra, Barbara Frittoli e José Cura nell'«Otello» andato in scena al Regio di Torino la scorsa primavera, e i tre tenori: Placido Domingo, José Carreras e Luciano Pavarotti Un bozzetto per «Rigoletto». Sopra Giuseppe Verdi