Paul Bowles lo schiavo di Tangeri

21 La musica, i viaggi. l'Africa, la letteratura: intervista con l'ottantaseienne scrittore americano, mito di una generazione Paul Bowles, lo schiavo di Tangeri «Questa terra mi ha reso felice» ristata difficile la scelta / tra la musica e la letteratura? «No. A quattro anni scrive- I vo già. Avevo l'abitudine di scrivere racconti, puerili ovviamente. Ho continuato per tutta l'infanzia a scrivere, anche quando ho cominciato a studiare musica. Non ci trovavo nessuna difficoltà, perché non era questione di scegliere. Ho continuato gli studi musicali per tutta l'adolescenza, ma senza avere l'intenzione di diventare compositore. Né scrittore, peraltro. Né niente. A sedici anni, scrissi alcune poesie ispirate dal movimento surrealista. Abitavo a New York, ma avevo una grande voglia di andare a Parigi: di conoscere il centro del mondo. Ero allora studente e mandai le poesie alla rivista Transition, che era in inglese, ma veniva pubblicata a Parigi. Quando accettarono le mie poesie, il mio desiderio di andare a Parigi aumentò ancora. Non avevo neanche finito il primo anno di università, quando fuggii, senza avvertire la mia famiglia, né nessun altro. Andai a Parigi. Immaginavo che sarebbe stato facile diventare un "poeta a Parigi". Era ridicolo, perché non incontrai nessuno. Ero troppo... qual è la parola giusta?». Timido. «Sì, è così, timido. Andai fino alla redazione di quella rivista, Transition. Ma rimasi là, davanti alla porta non osai bussare. Rientrai a New York e ripresi i corsi all'università. Due anni dopo, ebbi uno scambio di lettere con Gertrude Stein, che viveva a Parigi. Tornai dunque a Parigi, a casa sua. L'indomani stesso del mio arrivo, invitò un suo amico, Bernard Fay. Grazie a lui, incontrai ogni sorta di artisti e musicisti. Avevo più o meno deciso di diventare scrittore». Aveva l'impressione di abbandonare la musica? «Non abbandonavo niente: non avevo composto niente di interessante. Gertrude Stein mi interrogò sulle mie intenzioni. Pensavo di andare a Villefranche. Mi scoraggiò. Dove allora? A Tangeri, mi disse. Non sapevo neanche dove si trovasse Tangeri. Mi accompagnava Aaron Copland, andammo insieme a Marsiglia. Comprammo biglietti della linea Paquet. Due o tre ore dopo aver lasciato la baia, il capitano ci annunciò che la nave aveva un'altra destinazione: Ceuta. Una volta arrivati, prendemmo un trenino per Tétouan. E di là, an- dammo in corriera a Tangeri. Composi una sonata per oboe e clarinetto, che è stata registrata solo di recente, l'anno scorso. Sono stato molto innamorato del Marocco». Credette di trovarlo qui a Tangeri, il centro del mondo? «Tangeri, il centro del mondo? Ma no! L'avevo cercato a Parigi, e basta. Ma avevo capito che non avrei potuto vivere a Parigi. Qui invece... in campagna... potevo vivere. E ho vissuto molto febee. Senza smettere di viaggiare. Nel dicembre del 1931, la mia sonata venne eseguita a Londra. Mi consideravo un compositore. Prendevo la cosa davvero sul serio». Il Marocco ha influenzato la sua musica? «No. Il Marocco ha influenzato for¬ se le mie decisioni, non direttamente la musica. In ogni modo, ho sempre evitato il Kitsch che poteva suscitare questo genere di influenza musicale. Ero molto entusiasta. L'entusiasmo favorisce sempre la creazione. A quell'epoca, però, non era più questione per me di scrivere altro che musica. Quando tornai a New York, mi guadagnai da vivere componendo musica di scena per Broadway. Ma ne ebbi presto abbastanza di New York, del teatro». Era il sistema di Broadway che non le piaceva, o il teatro in sé? «Era soprattutto la vita che bisognava fare a New York se si voleva scrivere musica per il teatro. Non si dorme mai. Decisi di tornare in Europa. Ma prima andai a vivere in Messico con Jane, che avevo appena sposato. La musica messicana, quella sì, mi ha influenzato profondamente. Fu solo nel 1947 che decisi di vivere a Tangeri. Per prima cosa, comprai una piccola casa nella medina. Fu allora che cominciai a scrivere. A scrivere parole. Continuando a comporre. Ma non sceglievo. Facevo entrambe le cose. Il mio primo libro, Il tè nel deserto, ottenne un grande successo negli Stati Uniti. E' stato l'unico». Perché presentava un mondo sconosciuto? «No. Il mondo americano non si interessava molto al mondo musulmano. La sola cosa che appassiona i lettori americani sono i libri sul loro Paese. Annunciai pubblicamente che non mi piacevano gli Stati Uniti e che non avevo più intenzione di viverci. Non me l'hanno mai perdonato. Era un insulto, un crimine di "leso-Paese"...». Lei è stato un vero e proprio mito per un'intera generazione, alla fine degli Anni Sessanta. Sono venuti a trovarla qui? «Non so se sono venuti a trovarmi. Non credo. Parla dei beat? Era un caso. Era il loro idolo, Burroughs, che venivano a trovare. Non me. Dopo, sì. Sono venuti per fumare il kif. Io ho scritto molto in favore dell'hashish e contro l'alcol. Tutto andava bene. Sino a che mia moglie ebbe un'emorragia cerebrale. Rimase malata per sedici anni. Divenne cieca, muta, paralizzata e alla fine morì nel 1973. Durante la sua malattia, non potevo più scrivere. Traducevo dall'arabo marocchini bravi a raccontare storie e ricordi. Mi bastava». Lei non era solo un traduttore. Quasi un interprete. «Interprete fa pensare a un intervento in qualità di "editore". No, io ero solo un traduttore. Mrabet non è mai diventato scrittore. E' ancora analfabeta. Era la cosa che mi interessava di più. Non aveva punti di riferimento. Noi compariamo, noi misuriamo, noi valutiamo. Lui, invece, andava direttamente al fondo della memoria, della storia, dell'immaginazione». Potrebbe parlare della sua collaborazione con Visconti? «Non era molto profondo. Andai a Roma per scrivere i dialoghi del film che aveva deciso di realizzare da Senso. Andai tutti i giorni a casa di Visconti. Ma trovava le scene d'amore troppo fredde. Mi domandò: "Potrebbe scaldarle un po'?". Io gli dissi: "No, non posso scrivere quello che non sento". Visconti allora propose a Tennessee Williams d'intervenire. Tennessee Williams sapeva quello che sarebbe piaciuto a Visconti. Tennessee era molto professionale. Era un grande amico. Ho scritto la musica per quattro dei suoi testi teatrali. Ma poco alla volta si è rovinato. Ha avuto troppo successo. In America, successo significa denaro. Credeva che sperperandolo sarebbe stato felice. Non andò così, ovviamente. Morì infelice». Il suo fatalismo è musulmano. «E' l'idea del "mektoub". E' scritto, succederà così». C'è, questo, nei suoi libri. E' la loro forza, forse: l'idea che i suoi personaggi siano portati da qualcos'altro che da loro stessi. «Non ne sono consapevole. Se lei mi chiede se io personalmente sono fatalista, sono tentato spontaneamente di rispondere di no. Ma in fondo è possibile. Mi sono lasciato trascinare. Non credo che si abbia una volontà. Si dice: "Ho fatto questo perché ho voluto farlo". Ma perché lo si è voluto? Non lo si può spiegare. Significa allora che si è stati manipolati da una forza. Se questo vuol dire essere fatalista, allora sì, sono fatalista». René de Ceccatty Copyright «Le Monde» e per l'Italia "La Stampa» Risconti? Era un superficiale. L'America?Dissi che non mi piaceva e non me l'hanno inai perdonato» TANGERI. Paul Bowles, 86 anni, musicista e scrittore dalla vita avventurosa, è ormai un mito per più d'una generazione. L'autore del Tè nel deserto (in Italia ha collaborato con Visconti ai dialoghi di Senso) non ama la mondanità e non concede interviste. Ma lo «schiavo innamorato» di Tangeri, ha fatto un'eccezione per l'inviato di Le Monde, che ha ricevuto nella sua «tana», circondato di fiale, dischi, libri e lettere. In alto a sinistra una scena del film «Il tè nel deserto» che Bernardo Bertolucci ha tratto dal romanzo di Bowles. Qui accanto lo scrittore, al centro un'immagine di Tangeri