«Al processo Andreotti non è imputata la Storia»

Il giudice Caponnetto interviene sul giudizio al senatore Il giudice Caponnetto interviene sul giudizio al senatore «Al processo Andreotti non è imputata la Storia» IL CAPO DI FALCONE I BORSELLINO ANTONINO Caponnetto vive a Firenze. E' avanti con gli anni e lamenta qualche acciacco. Dopo la tragica fine dei «suoi ragazzi» Falcone e Borsellino ha speso molto di sé per portare avanti la «battaglia della memoria». Oggi si sente stanco, ma non ha abbassato la sua attenzione per gli argomenti connessi alla lotta alla mafia. Dice: «Certo che seguo tutto. Anche il processo Andreotti, naturalmente. E quello che vi ruota attorno. Certo che ho letto gli interventi di Sergio Romano e Giorgio Bocca, quelli di Lodato e Di Michele su L'Unità. Mi hanno colpito i due articoli di Romano e mi chiedo perché mai abbia deciso di trasformarsi da esperto di politica estera in opinionista anche sulla giustizia». Perché mai l'hanno colpito quei due articoli dell'ambasciatore Romano? «Per il fatto che stavolta la disinvoltura ha tradito l'ambasciatore Romano, spingendolo ad occuparsi, senza aver la minima conoscenza delle migliaia di carte processuali, di una inchiesta quanto mai complessa». Andiamo con ordine, consigliere. «L'articolista ha sostenuto che l'ipotesi di un rapporto organico tra il potere romano, alcuni magistrati corrotti, una parte del notabilato siciliano (Lima e i cugini Ignazio e Nino Salvo) e Cosa nostra di Totò Riina, farebbe cambiare natura al processo di Palermo. Andreotti in sostanza dovrebbe essere processato per cospirazione alla legalità repubblicana e non per concorso esterno ad associazione mafiosa». E allora? «Sorvolo sulle conseguenze arbitrarie che si deducono da questa premessa e mi fermo ad una prima considerazione: se Romano avesse letto le carte avrebbe facilmente scoperto che il senatore non è rinviato a giudizio per "concorso esterno". Questa ipotesi accompagnava la richiesta di autorizzazione a procedere (aprile 1993) e fu modificata con la richiesta di rinvio a giudizio (giugno 1994) alla luce delle risultanze nel frattempo emerse sulla organicità del rapporto tra l'apparato di potere andreottiano e il potere mafioso». Già, si parlò di ingegneria giudiziaria. «Queste sono solo battute. I magistrati si basarono sulla sentenza delle Sezioni Penali Unite della Cassazione n.16 del 5 ottobre 1994: sentenza che precisava la distinzione tra concorrente eventuale nell'associazione criminosa, la cui condotta è connotata dalla occasionante e dalla temporaneità dei suoi contributi, e partecipazione stabile e consapevole all'associazione. In sostanza le risultanze investigative avrebbero offerto un quadro diverso e più grave del ruolo di Andreotti: una partecipazione stabile e consapevole all'organizzazione mafiosa, un contributo permanente, quotidiano. Contributo che ha consentito a Cosa nostra di ottenere vantaggi che mai avrebbe potuto conseguire con la sua struttura semplicemente militare. Di qui la contestazione (nella richiesta di rinvio a giudizio) dei reati previsti dagli articoli 416 e 416 bis». Non è lecito, quindi, chiedersi e chiedere quali siano stati gli «atti specifici» di questa presunta collusione? «L'ambasciatore Romano si è posto una serie di interrogativi: "quanti delitti sono stati commessi per garantire il funzionamento di questo sodalizio politico-criminale?"; "quanti affari sono stati conclusi grazie al patto di ferro tra i congiurati?"; "quanto denaro è stato sottratto al fisco?", e così via. Ma tali osservazioni mi sembrano inficiate da un grave ed insanabile vizio logico: quello di non aver tenuto conto dei limiti dell'imputazione, che specifica le condotte in cui si sostanzierebbe la partecipazione all'associazione mafiosa». Può essere più chiaro? «Andreotti è accusato: di aver partecipato personalmente ad incontri con esponenti di Cosa nostra, anche latitanti; di aver intrattenuto rapporti continuativi con l'associazione mafiosa tramite Salvo Lima e i cugini Ignazio e Nino Salvo; di aver rafforzato la potenzialità dell'organizzazione criminale, deter¬ minando, soprattutto nei capi di Cosa nostra, la consapevolezza di poter contare sulla disponibilità di un importante politico; di avere così rafforzato la capacità di intimidazione di Cosa nostra. Cosa c'entrano, dunque, gli interrogativi di Romano? Semmai c'è da dire che dei comportamenti come sopra addebitati e e di quelli soltanto bisognerà fornire le prove in dibattimento». Secondo lei, ci sono? «Non entro nel merito; voglio però ricordare, per finire, quella parte della richiesta di rinvio a giudizio che esamina il rapporto AndreottiSindona, e l'attività del primo per il salvataggio della banca e degli interessi finanziari del Sindona». Non crede che la vicenda Andreotti abbia appannato l'immagine dell'Italia all'estero? «Su questo tema mi trovo in sintonia con Giorgio Bocca (La Repubblica 6 agosto) e con Saverio Lodato (L'Unità 7 agosto), ma voglio aggiungere qualcosa. Manifestando preoccupazione per il prestigio internazionale dell'Italia, l'ambasciatore Romano - col suo articolo su La Stampa - ignora o finge di ignorare che solo negli ultimi anni la comunità internazionale ha mu¬ tato atteggiamento nei confronti dell'Italia. E ciò dopo la vigorosa opera di contrasto dello Stato, che ha portato alla cattura di quasi tutti gli esponenti di spicco della mafia., e grazie allo spirito di sacrificio dei magistrati di Palermo, prima quelli delpool dell'Ufficio Istruzione di Falcone e Borsellino, poi gli altri della direzione distrettuale antimafia di Giancarlo Caselli. Se oggi possiamo vantare la migliore legislazione antimafia del mondo, ciò è dovuto - lo si ricordi - non già agli interventi del senatore Andreotti, bensì al consapevole sacrificio di uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sì, proprio "quei due cretini" di cui parlava al telefono, con un ignoto interlocutore, il dottor Corrado Carnevale, rivelatosi una pedina essenziale del gioco di potere del senatore Andreotti per quanto concerne l"aggiustamento dei processi"». t Come giudica l'eventualità, già prospettata da alcuni, di affidare al Parlamento il giudizio su Giulio Andreotti? «Ho visto, ho visto. Questa proposta è il "botto finale" dell'articolo di Sergio Romano. Sono rimasto attonito. E' stato detto, scritto, ribadito in svariate occasioni che nel processo di Palermo non si giudica un periodo più o meno lungo e vergognoso della storia d'Italia. Si giudica un uomo politico rinviato a giudizio per una specifica attività criminosa inquadrabile correttamente nello schema degli articoli 416 e 416 bis del codice di procedura penale. Negare, in queste circostanze, la competenza naturale dei magistrati sarebbe solo un modo per scippare ad essi il processo, sollevare polveroni, violare la legge e, in definitiva, fermare il corso della giustizia». Consigliere Caponnetto, c'è chi sostiene che Falcone e Borsellino questo processo non lo avrebbero mai fatto. «E' un'enorme sciocchezza e per di più detta sicuramente in malafede. Credo di aver conosciuto come nessun altro Falcone e Borsellino, i loro principi, le loro idealità. Ciò mi consente di affermare con assoluta certezza che entrambi sarebbero stati onorati di sottoscrivere la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del senatore Andreotti. Il che avrebbe rappresentato per essi il coronamento di anni di lavoro e di sacrifici». Francesco La Licata Uà Palermo non si giudica un periodo più o meno vergognoso del nostro passato ma gli atti specifici di un uomo politico ip j L'ex presidente del Consiglio è accusato di aver rafforzato la capacità di intimidazione di Cosa nostra H to 9 Agosto 1997 Il gAntonCaponA destsenatoGiulio Andre Antonino Caponnetto A destra il senatore Giulio Andreotti

Luoghi citati: Falcone, Firenze, Italia, Lima, Palermo