IL RISORGIMENTO IN CASA D'AZEGLIO di Angelo D'orsi

BIBLIOFILIA BIBLIOFILIA di Rolando Jotti Itempi ci sembrano più che mai opportuni per proporre, come argomento, il Risorgimento nazionale e l'Unità d'Italia. Ha colto l'occasione, mettendo insieme un buon numero di testi, saggi e opuscoli, la Libreria antiquaria Palatina di Firenze (via Stracciatella 13 r., tel. 055 -218.135) che dedica al tema l'intero catalogo d'autunno. Stimiamo di qualche rilievo due volumetti del vercellese Carlo Pellion conte di Persano, l'ammiraglio messo a capo delle squadre italiane che affrontavano le navi austriache comandate da Tegetthoff e che, a Lissa, subirono una disastrosa sconfitta il 20 luglio 1866. Processato dal Senato, riunito in | Alta corte di giustizia, per codardia e inettitudine, venne riconosciuto colpevole soltanto di inettitudine, e degradato. Ancora oggi l'accusa e la condanna di Persano sono oggetto di dibattito, al pari della impegnativa (e disgraziata) battaglia dell'adora neonata Regia Marina italiana. Il primo libriccino è del 1866 ed è una dolorosa autodifesa dell 'ap pena destituito ammiraglio, sobriamente intitolata f fatti di Lissa (Ed. Utet, Torino, in 8°, pag. 35, L. 20 mila). Il secondo è il Diario privatopolitico-militare della campagna navale degliannì I860e 1861 (prima parte), edito a Firenze da Civelli nel 1869 (in 16°, pag. 102, L. 30.000). La II, III e IV parte uscirono, l'anno dopo, da altro editore. lanzichenecchi furono probabilmente la peggiore marmaglia che sia mai scesa in Italia. Per trovare qualche cosa di simile bisogna risalire ai visigoti, agli unni e ai longobardi. Il sacco di Roma del 1527, durante il quale i lanzichenecchi massacrarono più di diecimila persone e misero a ferro e a fuoco l'Urbe, rimarrà per sempre una delle pagine più nere della storia umana. Ma chi erano, da dove venivano e come vivevano? A queste domande risponde Reinhard Baumann, il cui libro è ben pensato, ben scritto e anche ben tradotto. All'inizio, leggendo parole come «fenomeno storico-sociologico», mi sono spaventato e ho creduto che si trattasse di qualche bazzoffia accademica, ma poi ho cambiato subito idea. L'autore ha molte cose da dire e conosce anche l'arte di farsi leggere. Non si sa quale sia la vera etimologia di Landsknecht, ossia di lanzichenecco; e lo stesso Baumann scrive che il significato di questo nome «rimane oscuro e va¬ go». Di certo sappiamo che i lanzichenecchi sorsero, sull'esempio dei famosi mercenari svizzeri, al tempo di Massimiliano I e che provenivano dalla Germania meridionale. La loro storia ebbe inizio intorno al 1480 e durò un secolo e mezzo. Che tra di loro ci fossero anche dei nobili non deve far meraviglia, perché è noto all'universo che molti nobili discendono da briganti e grassatori. Come cambiano i tempi! Nel 1500 gli svizzeri, per non morir di fame, diventavano mercenari e vendevano la pelle al miglior offerente. Lo dice anche l'Ariosto: «S'il dubbio di morir ne le tue tane, / sviazer, di fame> in Lombardia ti guida / e tra noi cerchi o chi ti dia del pane, / o per uscir d'inopia chi t'uccida». Ma gli svizzeri erano delle pellacce e a farne le spese furono proprio i lanzichenecchi, che nel 1499 subirono una tremenda sconfitta. Ci volle molto tempo prima che gli allievi superassero i loro maestri. E intanto si scambiavano ingiurie volgarissime e sanguinose. Scegliamo qualcuna delle più garbate. I lanzichenecchi accusavano gli svizzeri di essere dei rozzi mangiacapre e di sodomizzare il loro bestiame. Gli svizzeri rispondevano per bocca di un loro poeta, che evidentemente era eloquente solo dalla porta di servizio: «Lanzichenecco, ti caco una merda sul naso e te la giro nella barba». Tra i mercenari svizzeri e quelli tedeschi c'era un odio mortale, dovuto anche al fatto che i primi, considerati invincibili, venivano pagati meglio da chi li assoldava. Ma dopo la battaglia di Pavia del 1525 i lanzichenecchi passarono al primo posto. Arruolandosi; essi-vendevano letteralmente la pelle, il corpo e la vita. Già solo il loro aspetto selvaggio incuteva terrore, come avvenne per esempio nella piazza del mercato di Gibilterra: vedendoli, la folla fu presa dal panico e scappò via. Avevano barbacce cespugliose e portavano dei copricapo grandi come un ombrello. Per potare tutto quel pelo ci volevano non già i barbieri, bensì i giardinieri. Basta guardare le xilografie di Esercito ai mercenari, assassini spietati e famelici, con un solo fine: vendere la pelle per un ricco bottino Albrecht Altdorfer per capirlo. Da bravacci quali erano avevano il culto del fallo, che costituiva il loro vero point d'honneur: «Un pezzo particolarmente vistoso dell'abbigliamento dei lanzichenecchi, emergente nel vero senso della parola, è il sacchetto dei genitali». Ma siccome nei disegni il sacchetto ha proporzioni mostruose, se ne deve dedurre che chi lo portava avesse l'acciarino, se mi si passa il termine, grande come quello di un asino o di un bardotto. Quanto all'appetito, quella gente sarebbe stata capace di digerire anche una marmotta cruda. Senza esagerazione, si può dire che la razione giornaliera di un lanzichenecco, tra pane, carne, formaggio, burro, speck eccetera, basterebbe a sfamare per una settimana un comune mortale. Ciò spiega perché l'esercito dei combattenti era seguito da un altro, forse ancora più numeroso, di addetti ai rifornimenti. Si trattava prevalentemente di puttane, che sfamavano nello stesso tempo lo stomaco e la ciaramel- IL RISORGIMENTO IN CASA D'AZEGLIO ON un salotto come quello milanese della contessa Clara Maffei (su cui Daniela Pizzagalli ha appena pubblicato da Mondadori un volume divulgativo intitolato L'amica). E nemmeno un santuario di virtù come quello torinese della marchesa Giulia di Barolo. Ma l'osservatorio umanissimo e discreto di una casa illustre e proba come quella degli Azeglio o, stando alla pronuncia dialettale, degli Zei. Viene da lì, da un'aristocratica dimora torinese, linda ma non sontuosa, sita nell'allora contrada d'Angennes (oggi via Principe Amedeo, 34), dove già ebbe i natali Ludovico di Breme, uno dei più begli epistolari del nostro LETTERE AL FIGLIO (1829-1862) Costanza d'Azeglio Ist. per la storia del Risorgimento 2 voli. pp. 1985 L 200.000 LETTERE AL FIGLIO (1829-1862) Costanza d'Azeglio Ist. per la storia del Risorgimento 2 voli. pp. 1985 L 200.000 Massimo D'Azeglio Risorgimento. Lei - la mittente - era andata sposa a Roberto d'Azeglio, fratello maggiore del maggiore o più conosciuto Massimo, e ne ebbe due figli: una femmina, Melania, che morirà di tisi, e un maschio, Emanuele - il destinatario -, che avendo intrapreso la carriera diplomatica eserciterà per una vita le sue funzioni a Monaco, a Vienna, a La Haye, a Bruxelles, a Pietroburgo, a Londra. dl li ò gLa lontananza dal figlio creò l'occasione, seicentoundici lettere spesso lunghissime oggi finalmente trascritte e integralmente annotate da Daniela Maldini Chiarito per conto dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano. Costanza d'Azeglio, nata Alfieri, è un donna intelligente e sensibile, che sa osservare gli uomini e le cose senza mai perdere la bussola di un punto di vista ben fondato, naturalmente ligio al trono e all'altare, naturalmente moderato e concreto, naturalmente virtuoso e ben educato, ma anche passabilmente vivace, vivacemente occhiuto, certamente capace di muovere le sue scene in quadri espressivi. Trentatré anni cruciali (dal 1829 al '62) che tagliano la fetta più consistente della storia risorgimentale, e un osservatorio quello torinese - a cui non è ancora stato sottratto il suo primato. Basterebbe pensare al cosiddetto «decennio di preparazione», ossia agli anni dal '49 al '59 in cui Torino diventa la Mecca dei rifugiati d'ogni angolo d'Italia. «Il nous arrive des fratelli de tous les points de l'Italie», registra la marchesa Costanza in una lettera del 15 ottobre 1849. La semplicissima frase è già la spia di un sentimento rivelatore. Dentro il corpo di un francese pulito e domestico, com'è da sempre nelle consuetudini di un'aristocrazia di frontiera, che al massimo mescola con il piemontese (come anche nelle lettere accade spesso e volentieri), s'incunea il termine italiano più diffuso del momento. In quel «fratelli» c'è già tutta l'eco di una virtus indigena che saranno i Sacchetti, i Faldella, i De Amicis a propagare postunitariamente come il cardine provvidenziale o il collante celebrativo del Risorgimento più promiscuo. E' così che un epistolario privato come quello di Costanza d'Azeglio al figlio lontano può diventare - proprio grazie al figlio che si metterà a commentarlo, scegliendone le parti più «storiche» o storicizzabili - un vero e proprio monumento di propaganda civile. Pubblicato nel 1884 con il titolo Souvenirs historiques, esso serviva soprattutto a sottolineare gli aspetti civili dei testi, riletti in chiave patriottica ed educativa. Ma oggi abbiamo altre esigenze. E l'epistolario della marchesa di contrada d'Angennes, attenta ai dettagli di una vita che è anche o soprattutto fatta di quotidianità e di cose, ci arriva finalmente intero per intrigarci in percorsi di lettura più liberi e diversi: la vita delle donne, i costumi familiari, il linguaggio educativo, i rapporti di coppia, gli scarti di generazione, e soprattutto l'abbandono al flusso di una lingua che scorre salda nell'alveo della sua disciplina. Persino il molto dolore che vi trapela passa sempre attraverso il senso di una dignità che non può mancare, nemmeno nel peggiore dei momenti. •I: rfa^' VÌE la. Una di loro è passata anche nella letteratura, grazie a Grimmelshausen prima e a Brecht poi: la famosa Madre Coraggio. Pericolosi in guerra, i lanzichenecchi lo erano ancora di più quando non avevano niente da fare. In mancanza di bottini bellici, infatti, essi si davano al brigantaggio, saccheggiando tutti e tutto, senza risparmiare neppure le abbazie. Nel 1546, ben quindici Stati si misero d'accordo per procedere insieme contro i lanzichenecchi disoccupati. Il punto estremo fu raggiunto in Baviera nel 1570 e nel 1608, con decreti che dichiaravano fuori legge i mercenari disoccupati. Se si riusciva ad acciuffarli, «dovevano essere uccisi o appesi all'albero più vicino, ovunque li si fosse catturati». Lo scrittore Sebastian Franck, ugualmente critico con i cattolici e con i protestanti, con il papa e con Lutero, attaccò aspramente i lanzichenecchi, i quali non facevano altro che «sgozzare, depredare e incendiare», insomma «compiere ogni genere di assassinio, violentare vergini e catturare feriti». In una parola, i lanzichenecchi erano l'«ordine degli assassini». La loro paga mensile era di quattro fiorini, il doppio di quanto guadagnasse un lavoratore agricolo e molto di più della paga di un garzone artigiano. Ma il vero miraggio era il bottino, che faceva parte, come dice Baumann, «dei presupposti ovvi del combattente medioevale, nobile e non nobile». Diciamo la verità: in tutte le guerre, anche in quelle che si dicono ispirate da motivi ideali, non si tratta, in fondo, che di rubare. Poi magari i lanzichenecchi dilapidavano tutto, paga e bottino, in ribotte, sbornie e puttanerie. Così tornavano ad essere poveri e disprezzati; e non c'è bisogno di dire che agli occhi del mondo la povertà macchia ancor più del delitto. Eppure sui lanzichenecchi sorse un alone di leggenda e perfino di romanticismo. Una loro lontana propaggine, almeno nella foggia del vestire, sono gli attuali Schutzerrtirolesi e altoatesini. Anch'essi hanno il culto del Blut und Boden (sangue e terra). Se poi abbiano anche quello della «ciaramella», non lo so e non m'interessa. Un'ultima osservazione. L'autore vede i lanzichenecchi più dal punto di vista antropologico che militare, e proprio questo rende così interessante il suo libro. Anacleto Verrecchia Giovanni Tesio IL PATRIOTTISMO LIBERAL DI ORIANI IL PROBLEMA ORIANI Il pensiero storico-politico Vincenzo Pesante Franco Angeli pp. 384 L. 55.000 IL PROBLEMA ORIANI Il pensiero storico-politico Vincenzo Pesante Franco Angeli pp. 384 L. 55.000 RIANI: chi era costui? - potrebbe chiedersi più d'uno dei nostri lettori. Eppure v'è stato un tempo, non troppo lontano, in cui in Italia questo gentiluomo di campagna romagnolo (nato nel 1852 e morto nel 1909), fu assai popolare, venendo imposto, in tutte le salse, nella cultura e nella politica nazionale. Ciò accadeva per volontà di un altro romagnolo allora al potere, Benito Mussolini, il quale per il «solitario di Casola Valsenio» nutrì una interessata venerazione, attribuendogli una sorta di postuma tessera fascista ad honorem. Con un simile avallo (si pensi che Mussolini stesso patrocinò Alfredo Oriani l'Opera Omnia edita da Cappelli, firmando la Prefazione al più celebre dei testi politici di Oriani, La rivolta ideale), si capisce facilmente come questo scrittore sia stato studiatissimo negli anni del regime, quando si vide in lui uno dei massimi «precursori» dell'uomo nuovo, un profeta della nuova grandezza imperiale di Roma, un padre spirituale della «rinascita» d'Italia che il fascismo dichiarava di perseguire. Altrettanto spiegabile l'oblio in cui Oriani cadde nel dopoguerra, oblio da cui pochi studiosi l'hanno di tanto in tanto ricuperato, per lo più accogliendo, da sponde democratiche, l'interpretazione paranazionalistica. E' uscito finalmente un lavoro - opera prima di un giovane ricercatore - che vorrebbe rendere giustizia della leggenda nera, per così dire, che grava su questo scrittore prolifico: romanziere, novellatore, storico, filosofo e poligrafo. (Sempre per il lettore curioso segnaliamo che alcuni dei titoli dei suoi drammoni non privi di efficacia, come Gelosia e Vortice, so¬ no tuttora in commercio). Il risultato è notevole - in una dimensione che è, con i suoi meriti e con le sue classiche pecche, squisitamente accademica - specie per la mole del lavoro svolto dall'autore, che ci dà la più completa monografia su Oriani, corredata di un'amplissima bibliografia, pressoché esaustiva. Peccato che manchi un profilo biografico, che, specie per il lettore meno informato, avrebbe avuto una sua indubbia utilità. Attento all'analisi sia del pensiero orianesco, sia delle sue letture in sede storiografica, l'autore non rinuncia a una propria interpretazione, che anzi appare fin troppo fortemente connotata. Il limite di questa eccellente indagine sta proprio nella volontà del suo autore di sconnettere Oriani dal pensiero antidemocratico e di collegarlo alla più autentica tradizione liberale e risorgimentale: ne conseguono affermazioni piuttosto drastiche, non sempre accettabili sulla base della lettura di testi dello stesso Oriani, i quali invece, pur con tutti gli opportuni distinguo e le necessarie contestualizzazioni, ci mostrano un teorico di una linea politica che se non conduce necessariamente al fascismo, certo contribuisce notevolmente a prepararlo. Il «revisionismo» (parola di cui qualcuno, improvvidamente, ha proposto di recente l'abolizione...), sacrosanta necessità di ogni storico, che lo aiuta a non accettare verità preconfezionate, può anche portare a risultati paradossali, ove non sia adeguatamente sorretto dalla prudenza del ricercatore e dal rispetto dei fatti - e dei testi accertati. Revisionando revisionando, dopo il Mussolini «rivoluzionario» di Renzo De Felice, abbiamo assistito a Gramsci pensatore «organico e totalitario» (pronto ad essere fagocitato, come puntualmente è avvenuto, dalla «nuova destra»), a Gaetano Mosca scrittore sociaUsta, e via seguitando. Adesso abbiamo questo Oriani genuino democratico, davanti al quale la cautela s'impone. Non è opponendo alla «leggenda nera» una «leggenda rosa» che si arriva alla verità storica. Angelo d'Orsi