La resa dell'ultimo avventuriero di Fabio Galvano

L'esploratore e scrittore inglese: «Nel mondo del Duemila non c'è più spazio per le mie imprese» L'esploratore e scrittore inglese: «Nel mondo del Duemila non c'è più spazio per le mie imprese» La resa dell'ultimo avventuriero Sir Wilfred Thesiger, 87 anni: vado in ospizio UNA VITA PER I VIAGGI LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE E' l'unica esperienza che ancora gli manca. Ma quando l'età non consente più di attraversare a piedi nudi le sabbie saudite, o inseguire in Africa il corso di fiumi che comunque i satelliti hanno tracciato con precisione millimetrica, o vivere improvvisandosi medico-stregone fra le genti delle paludi nel basso Iraq, l'ospizio appare d'improvviso la soluzione più acconcia, se non addirittura la più gradevole. Ormai lo sogna: «Ci andrò quest'inverno, a novembre o dicembre. Mi manca la compagnia, la conversazione. Con tanta gente attorno sarà come tornare ragazzo all'università di Oxford, o in un accampamento beduino, o fra i Samburu del mio Kenya». Guarda il Tamigi dalla finestra del quarto piano, l'appartamento che gli ha lasciato la madre e in cui abita da tre anni, in un'elegante casa di mattoni rossi in una silenziosa via di Chelsea: «Qui è tranquillo, ma sono solo: non vedo l'ora di entrare a Charterhouse». L'uomo che ha deciso di «chiudere così la vecchiaia», come dice con malcelata civetteria per non ammettere a se stesso che la notte si avvicina, è Sir Wilfred Thesiger: una leggenda vivente, per chi ha letto i libri delle sue avventure. E' l'ultimo grande esploratore nella tradizione del passato: l'ultimo cronista di un mondo perduto, quando esistevano ancora regioni inesplorate, genti sconosciute, terre vergini al turismo di massa. Gli occhi grigi penetranti sotto le fitte sopracciglia spioventi, il naso adunco e storto dal suo giovanile pugilato, le rughe che lacerano quel volto battuto dalla sabbia e dal sole, mascherano in qualche modo i suoi 87 anni. Par di vederlo, a dorso di cammello, in una gara nel deserto con Lawrence d'Arabia; e invece eccolo con la sua giacchetta di tweed che gli pende dalle spalle ormai ricurve, le scarpe di Lobb's che hanno visto stagioni migliori e che - lucidate a specchio - si è portato in giro per il mondo quasi a ricordargli un'intramontabile inglesità, il bastone per ancorarsi ai tappeti afghani, e un lampo negli occhi quando parla di Charterhouse, quell'ospizio vecchio di cinque secoli, nella City, dove lo aspettano «persone distinte», nobili figure provate come lui dall'età. Perché tanto, aggiunge, «nel mondo del 2000 non c'è più spazio per l'avventura». E di avventura lui s'intende. Nato ad Addis Abeba - suo padre era resposabile della legazione britannica - vide da barobino il trionfale ritorno di Ras Tafari, il futuro imperatore Hailé Selassié, dalla vittoriosa battaglia di Sagale contro Lij Yasu: «Marciavano al ritmo dei tamburi e allo squillo delle trombe, fra lance insanguinate e insegne sventolanti. Pochi europei hanno mai visto uno spettacolo così barbaro e splendido». Fu l'esperienza che lo segnò; e all'Abissinia del negus è legata la prima fase della sua vita di esploratore. Aveva 20 anni, nel 1930, quando Hailé Selassié lo invitò ad Addis Abeba, in memoria del padre, per la propria incoronazione. A lui, studente di Oxford, non parve vero di tornare in Abissinia. Anche perché c'era la questione del fiume Awash, che nessuno sapeva dove finisse. La Dancalia inesplorata lo aspettava, con i guerrieri Alar ai quali nessun europeo era mai sfuggito, che eviravano le vittime e dei loro testicoli facevano collane. «Vi penetrai - racconta con il permesso del sultano di Aussa: per scoprire, in una spedizione durata sei mesi, che il fiume Awash va a sfociare in un grande lago salato che non ha emissari, perché evapora al sole equatoriale». Oggi dice di non pentirsi delle scelte fatte a quei tempi. Ma non dovette essere facile lasciare il mondo privilegiato da cui veniva per abbracciare quella vita vagabonda. Finì in Sudan, assistente commissario distrettuale a Khartoum. Il lavoro lo portava a dorso di cammello, nel deserto; e lì conobbe le popolazioni nomadi, di cui s'innamorò, incarnazione di un codice eroico che coincideva con un suo sfocato e forse anacronistico ideale cavalleresco. S'innamorò anche di Idris, il primo dei tre «ragazzi» - ma sostiene che il suo era un amore platonico, idealizzato, e per buona misura precisa che «nulla è più sgradevole della sodomia» - che hanno segnato la sua vita. Me ne mostra la foto: l'ha ricevuta pochi giorni fa. Idris è ormai un uomo con i capelli bianchi, ma da Thesiger continua a ricevere, in cambio delle lettere e delle foto, un assegno mensile che ne fa, al suo Paese, quasi un nababbo. Compra cammelli, continua a vivere nel deserto, rifiuta le cose della vita moderna; e a Thesiger questo basta. «Lo salvai da chissà quale fine», ricorda: «Aveva ucciso un altro ragazzo, una coltellata dopo una lite per un cavallo. Lo presi con me e non mi avrebbe più abbandonato». Gli altri due «ragazzi» si chiamavano Lawi e Laputa, entrambi «adottati» in Kenya dove Thesiger approdò nel 1960 e rimase fino a tre anni fa. Mi mostra l'album dei ricordi. Le foto di Lawi ragazzo e poi uomo, educato in Inghilterra a spese del suo benefattore e diventato sindaco del suo villaggio, dove Thesiger gli aveva anche fatto costruire una baracca e poi ima vera casa. Anche Laputa prosperò con la sua famiglia grazie a quel1'«inglese matto». Se Thesiger è oggi a Londra, dopo avere detto e scritto che gli sarebbe piaciuto chiudere i suoi giorni in Kenya, è perché entrambi sono morti. «La struttura della mia vita ne è stata scardinata». E' troppo vecchio per tornare nel deserto con Idris, perché - ammette - «i sogni possono anche essere scomodi». Così pensa all'ospizio; e ricorda quello che l'amore dei viaggi e dei suoi «ragazzi» gli è costato, anche in termini materiali: «Su quella parete - mi indica dove ora c'è un suo ritratto - era appeso una volta un dipinto di Tiepolo. E su quell'altra c'era un suo bellissimo disegno». Venduti. Fra il Sudan e il Kenya è stato un rincorrersi di avventure. Tornò in Abissinia, nell'ultima guerra, per combattere gli italiani, con un corpo di spedizione di 5 mila uomini formato in Sudan. Si guadagnò l'amicizia eterna di Hailé Selassié; ma anche il grado di maggiore, maturato combattendo in Siria contro il governo francese di Vichy e poi dietro le linee nelle Sas (le «teste di cuoio» di allora). Dopo la guerra si offrì volontario per scoprire le migrazioni delle locuste: ne risultarono cinque anni fra i beduini del deserto arabo di Rub' al Khali, fra lo Yemen e il Golfo, che gli inglesi chiamano «Empty Quarter» (il quartiere vuoto) e le popolazioni locali Al Rimai, le sabbie. Di ognuna di queste avventure avrebbe scritto, a partire dal 1959, un libro di successo («Ma non ho mai fatto un viaggio - protesta - per scrivere un libro o un articolo»); e il più celebre resta proprio, dell'avventura nel deserto, «Arabian Sands». E poi via, un'avventura dopo l'altra. Per otto anni nella paludi dell'Iraq, fra le popolazioni che Saddam Hussein ha tentato di distruggere. E infine, non senza cinque spedizioni nell'Himalaya e nel Karakorum, attraverso l'Afghanistan e l'Hindu Kush, ecco il Kenya dove, dice, «si assiste alla fine della società tribale». I giovani, spiega, non vogliono più faticare nei campi o con le mandrie. «Vogliono lavorare in un ufficio di Nairobi con aria condizionata o negli hotel italiani. I Masai e i Samburu attendono ai bordi della strada avvolti nei loro mantelli, solo per toglierseli e farsi fotografare seminudi dai turisti. La vita tribale scompare: se n'è già andata per i Kikuyu, ora Masai e Samburu sono condannati». In definitiva, spiega, «l'istruzione ha rovinato la società». Thesiger è un uomo dalle opinioni forti. La stessa sicurezza spavalda gli aveva fatto abbandonare una vita agiata dell'aristocrazia britannica (suo nonno Lord Chelmsford sconfisse gli zulù e suo zio, anche lui Lord Chelmsford, fu viceré delle Indie) e dimenticare le stimmate di Eton e di Oxford per cercare - dice - «un rapporto con esseri umani temprati dalle avversità della loro vita dura». Nel futuro dell'esplorazione, dice, «c'è forse spazio per quella sottomarina, che però non ho mai tentato perché stare sott'acqua mi rende claustrofobico». Ma lo spazio lo ripugna: «Fu un pescatore del Kenya a dirmi che l'uomo era sbarcato sulla Luna, perché io allora non avevo né radio né giornali. Provai un senso di dissacrazione della dea Luna, di disperazione per l'ingegno tecnico dell'uomo moderno. Di questo passo roviniamo la Terra e forse anche quel poco di Universo alla nostra portata. Non vedo speranze per l'umanità, fra 100 anni l'uomo sarà estinto». Riprende fiato, riordina le idee: «La più grande disgrazia nella storia è stata l'invenzione del motore a combustione interna. Ho sempre odiato l'auto e l'unica volta che ne ho avuta una, quando prima della guerra ero commissario distrettuale in Sudan, ho scoperto di essere un pessimo guidatore. Odio le macchine, non voglio neppure toccare un computer. Il mio mondo ideale è uno in cui la cosa più veloce è un cavallo in corsa». Mi guarda, cercando un consenso che non riceve: «Grazie a Dio sono vissuto appena in tempo. In Dancalia, nel Tibesti, nell'Empty Quarter dell'Arabia, nelle paludi del Kurdistan, nell'Himalaya, sempre a piedi o a dorso di cammello. Se oggi qualcuno lo facesse, passerebbe per eccentrico». Lui, per non sembrara un inglese eccentrico, si mimetizzava. Salvo poi tirar fuori le scarpe di Lobb's nella baracca di legno e di fango che si era costruito in Kenya, dove ha trascorso 34 anni della sua vita, con i suoi «ragazzi» e poi con le famiglie dei suoi ragazzi. Ma le scarpe sono un piccolo peccato veniale, si difende, al confronto della «colonizzazione americana»: «Mi sono visto offrire del Kentucky Fried Chicken persino dai Dayak. E due anni dopo la mia partenza dall'Empty Quarter sono arrivate nel deserto le compagnie petrolifere e ora i beduini hanno l'auto e le tasche piene di soldi, hanno lasciato le tende e vivono in città. Si sono adattati, perché quello è il loro modo di vivere: ma non è la stessa cosa perché non c'è più il dolore della fame che produceva le figure più belle fra quegli uomini tutti d'un pezzo». Sorride dopo quella tirata: «Eppure mi piace la Coca Cola». Guarda il Tamigi, stanco. Ormai parla con affanno, balbetta qualcosa sui beduini che non lo hanno mai tradito, sugli zulù che gli hanno appena regalato uno scudo e una lancia quasi a volerlo perdonare della disfatta che suo nonno inflisse loro nella battaglia di Ulundi, sull'essere stato uno dei pochi europei - alla faccia dell'odierna correttezza politica - a uccidere più di 80 leoni quand'era in Sudan, sulla felicità che si prova quando si è isolati dal mondo esterno e dalle notizie («A che co sa serve la tv che dopo poche ore mi mostra le immagini di un mas sacro in Ruanda?»), sul concetto del «nobile selvaggio» generoso e onesto che ha sempre giustificato la sua sete di conoscere «non i luoghi ma le persone». E indica verso Est, oltre i tetti di Chelsea e del West End, di questa Londra che pullula di vita ma in cui si sente più solo che nell'«Empty Quarter»: «Laggiù c'è Charter house. Sarà la mia oasi». Fabio Galvano Dall'Etiopia al Kenya, dal Sudan alla Siria, dallo Yemen all'Iraq fino all'Himalaya, attraverso l'Afghanistan e l'Hindu Kush una vita trascorsa tra beduini tribù sconosciute e luoghi inospitali: «Ho anche adottato 3 "selvaggi". Rifarei tutto» Sir Wilfred Thesiger nel deserto arabo di Rub' al Khali e con un guerriero della tribù Samburu Sir Wilfred Thesiger nel deserto arabo di Rub' al Khali e con un guerriero della tribù Samburu «Mi concedevo un unico lusso nella savana. Un paio di scarpe Lobb's, sempre tirate a lucido» ' L'imperatore d'Etiopia Hailé Selassié e sotto un'invasione di locuste sulla costa del Dubai