Chiude il Popolo l'ex quotidiano dc di Filippo Ceccarelli

POPOLO Fondato prima dell'ultima guerra, è travolto dai debiti: è stato la palestra di Andreotti Chiude il Popolo, l'ex quotidiano de EROMA allora, come si dice in questi casi - talvolta con qualche ipocrisia: addio Popolo... E' sempre malinconica la scomparsa di un giornale. Nel caso in questione - il Popolo che forse scompare, o per ora scompare, chissà - è malinconica anche se era ormai la pauida ombra di un giornale, memoria editoriale rinsecchita, tentativo patetico di restare in vita. Pur con tutto il rispetto che si deve a un pezzo di storia, quindi, varrà la pena di risparmiarsi, per questo ultimo Popolo, frasi fatte tipo «se ne sentirà la mancanza». L'epitaffio è un genere che richiede un minimo di sincerità. Bene, per quanta rispettabile passione potessero costare ogni sera, la mattina dopo quei pochi fogli scritti a tabloid se li poteva portare via il vento. Inoltre costava davvero una barca di quattrini. Da tempo non si capiva bene chi lo comprava, e ancora meno chi lo leggeva. Detto questo, i giornali valgono anche per quello che sono stati. Con tale affettuosa premessa il quotidiano non solo era brevemente sopravvissuto alla de, ma con estremo imbarazzo ne aveva perfino cercato di descrivere gli spasmi, la paralisi e poi la fine, sotto forma di diaspora terminale. Nella causa di separazione tra ppi e edu, era stato tristemente scambiato con il simbolo dello scudo crociato. Ai popolari di Bianco il Popolo, dunque, e a Buttiglione - di cui peraltro proprio ieri veniva trionfalmente richiamata in prima pagina la sconfitta interna - toccava lo stemma. E tuttavia il mesto baratto non impediva ricordi migliori. La sede del Popolo, ad esempio, era situata in uno dei più bei posti di Roma, piazza delle Cinque Lune, a ridosso di Piazza Navona, cui era collegata da una curiosa galleria. Gli interni della redazione erano grigiastri, re- si vagamente sudamericani da un mobilio pesante, quasi coloniale; ma all'uscita, per strada, sul marciapiedi di fronte al bar, al negozietto dei frati trappisti e dell'imbalsamatore Bertoni, Roma sembrava venirti addosso. I giornalisti della de vivevano la capitale e tutto sommato la politica con placido, aristocratico disincanto. A parte il periodo della clandestinità, quando al Popolo cominciò a lavorare tra gli altri un promettente giovanotto che si chiamava Giulio Andreotti, il quotidiano della de non richiedeva impegni pregiudizialmente eroici. La varietà umana era assicurata, ai due estremi, da Ettore Bernabei e Franco Evangelisti. Divisi tra stanziali e «di passaggio» - questi ultimi destinati a far carriera nel partito, nelle istituzioni, negli enti - finché stavano lì, i giornalisti del Popolo avevano il compito di restituire all'esterno la voce ufficiale del partito. H che era relativamente facile all'inizio, ma divenne un'operazione sempre più acrobatica con l'arrivo delle correnti. Lontanissima, prima della guerra, era la gloria della testata, fondata da Donati. Fanfani volle rilanciarla, invano, ai tempi delle segreterie (Anni Cinquanta e Settanta) prima di un interminabile declino. Tra gli ultimi direttori, per forza d'incarico scelti nella seconda fila del potere de, molto sommariamente si ricorda lo svagatissimo Galloni, che con un fondo dal titolo «Pasqua di riconciliazione» nel 1986 fu sul punto di scatenare una crisi di governo. Poi il sottile Cabras, pseudonimo Yorik, e infine il sanguigno Sandro Fontana, che si firmava Bertoldo, ed ebbe la triste incombenza di pubblicare la lettera di addio di Cossiga alla de, indiscutibile presagio di un'epoca al tramonto. Filippo Ceccarelli |*^*«»J ^^^^^ POPOLO Un

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