Un barattolo di vetro

Un barattolo di vetro Un barattolo di vetro VI è mai capitato di stringere tra le mani un barattolo di vetro? Quasi sicuramente sì. Ma in questa città esiste un barattolo di vetro che senz'altro pochi tra voi si saranno ritrovati a stringere tra le mani. Per la verità, credo che si tratti di uno di quei barattoli di vetro che nessuno desidererebbe stringere tra le mani, mai. Ma se proprio ci tenete, posso dirvi dove cercarlo. In via Giolitti c'è un palazzo. E' lì dal 1680. 0 meglio, la prima pietra della costruzione venne posata in quell'anno, il 5 di agosto, alla presenza della Reggente Giovanna Battista. Potremmo definirlo con tranquillità un severo palazzo. I lavori terminarono in un primo tempo nel 1698. Altri ne seguirono tra il 1720 e il 1727. Dietro la facciata del severo palazzo trovarono posto infermerie destinate a ospitare malati curabili e incurabili, una farmacia, alcuni servizi igienici, e anche dei letti chirurgici. La facciata, come spesso accade imponente, è disegnata da un regolare mosaico di mattoni rossi. Tre file di altissime finestre sono schierate ai lati del portone di entrata e sopra di esso, in corrispondenza dei tre piani di cui si compone quell'ala dell'edificio. Una volta varcato l'ingresso monumentale e perciò irto di busti e statue e putti e colonne e ca- LUGLIÓ brilla nell'aria. Né l'acido delle piogge né il piombo dello smog ingialliscono Torino in questa domenica pomeriggio così tiepida, - né troppo calda né troppo fresca e allora perché ammorbarsi di noia cincischiando per casa, quando si vive nella città verde per antonomasia? Un paio di telefonate, un lqok adeguato (coda di cavallo fuseau t-shirt da battaglia) e il pomeriggio si preannuncia invitante: una bella pattinata sulla pista della Pellerina, in compagnia di qualche amica. Pattini in spalla e via, verso nuovi orizzonti... orizzonti che, quasi subito, risultano lontani, molto lontani, in termini più temporali che spaziati - il tempo di trovare un parcheggio non in corso Appio Claudio, all'ingresso del parco (chi osa pretendere tanto), ma almeno nei dintorni... mezz'ora e mezzo serbatoio più tardi, lasciamo la macchina infernale ad alcuni chilometri dalla Pellerina e ci immergiamo nell'onda di deportati domenicali. Luglio brilla per tutti, no?, o meglio: per tutti i torinesi che non detengono case al mare o ai monti né amici ospitanti e/o ospitali, dotati delle suddette. Il vialone di ingresso pullula di varia umanità. Extracomunitari che espongono cassette strettamente non originali del peggio della musica e del cinema. Tuz tuz, batte lo stereo audiocontundente di un chiosco. Comunitari assortiti: una famigliola, personificazione dell'incubo ricorrente di ogni mens giovane e sana: lei con gli occhi appannati di noia, lui con la ra- pitelli -, vi troverete in un atrio che conduce ad un'ampia scala di pietra. Ignorate gli occhi senza dubbio indagatori che vi osserveranno dalla portineria e prendete decisi le scale, come se sapeste dove state andando. Salite la prima rampa, effettuate il periplo del pianerottolo, e affrontate la seconda. Durante l'ascensione siete pregati di notare i particolari della volta sopra la vostra testa, possibilmente evitando di inciampare. Se inciampate, non importa: certi fregi e soprattutto la successione dei pilastri e della crociere ne valgono la pena. Arrivati al secondo pianerottolo, anziché fermarvi proseguite. Lanciatevi su per la terza rampa, al termine della quale sarete sul terzo pianerottolo. Resistete alla tentazione di sedervi sulla dura pietra e immolatevi lungo la quarta rampa. Una volta raggiunto il quarto pianerottolo, vi troverete di fronte a una porta a vetri di legno scuro. Se è aperta, o meglio se non è sprangata, apritela. Se è chiusa, tornate indietro: sarà per un'altra occasione. Nel caso fosse aperta, attraversate con circospezione la stanza che vi si para dinanzi oltre la soglia; date un'occhiata allo splendido soffitto a cassettoni, attenti a non incastrarvi nella selva di sedie di plastica poste di fronte ad un'ampia, lignea scrivania, e puntate verso la porticina scura che, abbassando gli occhi, è possibile scorgere nell'angolo opposto a quello dal quale siete entrati. Arrivati alla porticina, apritela con cautela (sempre che non sia chiusa a doppia mandata come avrebbe potuto essere la precedente, nel qual caso però non sareste lì). Se non si apre, tornate indietro; a questo punto sarebbe un peccato, lo so, ma non posso mica suggerirvi di sfondarla a calci, vi pare? A ogni modo: nel caso fosse aperta, non spaventatevi. Davanti a voi si materializzerà una scena alla quale mai avreste immaginato di poter assistere. Una lugubre parata di animali impagliati occupa gran parte di un immenso salone polveroso, semibuio, dalle altissime pareti. Serpenti, leoni, lupi, giaguari, cani, tigri, alci, gazzelle, iene, leopardi; tutti morti, immobili, ma con gli occhi spalancati, che vi guardano come se fossero ancora vivi e stessero per spiccare un salto, balzandovi addosso e sbranandovi, in modo da vendicarsi per essere stati uccisi, impagliati, esposti a chissà quale pubblico e infine rinchiusi in quell'antro dimenticato Se riuscite a ignorare l'impulso che a quel punto vi suggerirebbe di andarvene, inoltratevi tra gli animali, fingendo di non capire che quella strana, enorme membrana appesa alla vostra destra è stata un tempo l'intestino di un elefante; giungerete così al fondo dello stanzone, e vi accorgerete che ai due lati di esso vi aspettano altri due ambienti, altrettanto giganteschi. H primo è sbarrato dalle assi di quello che avrebbe quasi l'aria di un cantiere. Sbirciando oltre le assi, distinguerete nel buio numerosi, lunghissimi scaffali, zeppi di volatili a loro volta impagliati: gufi, aquile, civette, falchi, fagiani. Anch'essi con gli

Persone citate: Giovanna Battista

Luoghi citati: Torino