UNO SCHOPENHAUER CURIOSO DELL'AMORE

L'ESTETICA L'ESTETICA Cézanne di Marco Vozza PARE incredibile, ma si è dovuto attendere più di due secoli per veder pubblicata la traduzione italiana dei Discorsi sull'arte di Sir Joshua Reynolds, il maggior ritrattista inglese del XVIII secolo (ed. Nike, pp. 274, L. 36.000.a cura di Andrea Gatti). E' un testo basilare per Cézanne comprendere l'estetica del Settecento, che si sviluppa nell'interregno tra classicismo e romanticismo, elaborando concetti chiave come immaginazione, genio, sublime e gusto, che riceveranno poi adeguata teorizzazione nella Critica del giudizio kantiana. Il pensiero di Reynolds è di matrice fondamentalmente neoplatonica (idealità e universalità del bello) ma rivela anche sorprendenti affinità con l'empirismo di Hume (è l'esperienza che decreta la regola del gusto). Ma ciò che più seduce è la doppia navigazione della sua estetica: dapprima la riduzione dell'invenzione a memoria delle opere dei predecessori; poi l'invito complementare ad uscire dal museo per tornare ad osservare una natura «raffinata, sottile e infinitamente varia, al di là del potere di ritenzione della memoria». Come dirà Cézanne: rifare Poussin secondo natura. SCHOPENHAUER scrisse che la vita di un uomo di genio è sempre tragica, anche se, vista dall'esterno, può sembrare tranquilla. E se ne capisce facilmente il motivo: più si è intelligenti e più si soffre. La stessa cosa dice Giordano Bruno, sia pure con parole diverse: «Chi acquista sapienza acquista dolore». Felici sono solo gli ubriachi o i capiscarichi. Non si creda però, come vorrebbe un rancido cliché, che Schopenhauer fosse uno spirito straziato e che guardasse il mondo da un cantuccio ritirato, senza mai tendere la mano per cogliere i frutti della vita, dolci o amari non importa. Ebbe molti amori, anche in Italia, e piacevano più le donne a lui che i fichi secchi alle faine. Ancora nel 1859, quando aveva superato la settantina, il suo cuore tremò per la giovanissima scultrice Elisabeth Ney, una pronipote del maresciallo napoleonico, la quale gli piombò in casa per fargli il busto. Insomma la tremenda Metafisica dell'amore sessuale, dove la più tirannica delle passioni umane viene scandagliata in tutti i suoi recessi, non è una elaborazione astratta, ma frutto di esperienza diretta. Si conosce solo ciò che si è: come un magliaro o un cialtrone non potrebbero mai scrivere un trattato di etica, così una lasagna fredda non potrebbe mai scriverne uno sulla forza demoniaca dell'amore. Anche se non dice niente di nuovo, Rùdiger Safranski tratteggia bene la figura di Schopenhauer e sa far rivivere l'ambiente in cui visse. Particolarmente mossi e vivaci sono i primi capitoli, fino alla nascita del Mondo come volontà e rappresentazione. Trovo invece piuttosto stucchevoli le tirate di carattere storico e le esposizioni del pensiero di Schopenhauer, il quale sa farsi capire benissimo da solo e non ha alcun bisogno di interpreti, di mediatori o di sensali letterari. Qui abbiamo a che fare con un filosofo che scrive in maniera così chiara ed essenziale, che il volerlo filtrare sarebbe come voler ridistillare la grappa. Egli, come Platone, è nello stesso tempo un grande pensatore e un grande stilista; e nessuno potrebbe esporre il suo pensiero meglio di come lo abbia esposto lui stesso. Anche i cincischiamenti psicologici, cui Safranski si abbandona spesso, mi sembrano fuori luogo. Sappiamo benissimo che il giovane Schopenhauer ebbe le sue grandi amarezze. Tra l'altro gli toccò, come a Byron, l'umiliazione di dover odiare la madre, che appena rimasta vedova lo piantò da solo ad Amburgo e si trasferì a Weimar, dove dette pieno sfogo a tutte le sue fregole, compresa quella del corpo. Ecco come ce la descrive un testimone: «La signora consigliera Schopenhauer, ricca vedova, tiene qui cattedra di bollo spirito. Parla bene e molto. Di spirito, fin che se ne vuole, ma niente cuore. E' molto coquette e sorride a se stessa dalla mattina alla sera. Dio ci liberi dalle donne così spiritose!». E' difficile che una donna sacrifichi il figlio all'amante, ma la nostra vedova allegra lo fece. Tutto questo, però, non ha nulla da spartire con la filosofia di Schopenhauer, la quale scaturì dal suo genio e non dalle sue vicissitudini personali. Una volta gli fu chiesto se da ragazzo avesse sofferto molto e se il suo pessimismo fosse da ricollegarsi agli anni giovanili. Ed egli rispose: «Assolutamente no!». Il vero filosofo trascende non solo la realtà quotidiana, ma anche la Due gscimper la nobile fiorentina. Se mancò poco che egli nascesse in Inghilterra, dove soggiornava la madre incinta, altrettanto poco mancò che si stabilisse in Italia. E come ci conosceva bene: «Il tratte principale, nel carattere nazionale degli italiani, è un'impudenza assoluta. Questa dipende dal fatto che essi da un lato non si sentono inferiori a nulla, sono quindi presuntuosi e sfacciati, dall'altro non si ritengono buoni a nulla e sono quindi vili. «Chi ha pudore, invece, è per certe cose troppo timido, per altro troppo fiero. L'italiano non è né l'una cosa né l'altra, ma, a seconda delle circostanze, è tutt'al più pusillanime o borioso». Ma possiamo consolarci, perché degli altri popoli disse ancora peggio. Sui

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