Fernanda tre in italiano

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Umberto Piersanti E9 un Mussapi diverso quello che si incontra in Racconto di Natale (Guanda, 1995). La narrazione e corposa, intrisa di fatti e cose. L'istanza religiosa permane, ma si concretizza in un amore per la vita qui. su qualche parte di questa terra e in un tempo preciso: Scrooge viene visitato dai fantasmi di Natale non a causa del rimorso come succedeva nell'opera di Dickens. E' la mancanza d'amore, la consapevolezza di tutto l'amore non dato e non ricevuto che angustia l'avaro. La conversione è alla gioia. Fuori i grand: notturni londinesi, la nebbia e la neve: dentro le candele, i vetri appannati. Poi esplode la gioia dell'esserci, del vivere, del mangiare. Ed è il cibo ad assumere un aspetto epico in un pranzo di Natale pantagruelico, ma non consumistico, intriso di spirito e bellezza: -<Vi erano tacchini, oche, cacciagione, / pollame, grandi pezzi di carne e salumi». E l'elenco continua. Papà respiro addio è l'antologia di se stesso curata da Ginsberg ancora pochi giorni prima di morire, un'antologia «di autore» che è anche estremo testamento e che nel titolo italiano riprende un verso di «Papà Morte Blues» dell'8 luglio 1976, esattamente ventun anni fa. E' triste, ma è giusto così: la vita, del resto, era per lui un ricambio continuo di energia. Come lo è sempre stato per «la Nanda», la quale dedica la sua ultima raccolta di scritti a qualcosa che non si spegne mai: «Questo libro è per un compleanno: Hallo, my lite». Due modi diversi, ma non troppo, di vivere e di ricordare; due strade, anzi, per remember to remember, per «ricordarsi di ricordare», come scriveva anni fa Henry Miller, che dei beatniks e degli hippies era stato anticipatore e maestro e che per Fernanda Pivano è uno dei tanti «amici scrittori»; come quel Julian Beck che continua a vivere nel Living Theatre, il «teatro vivo» da lui fondato con Judith Malina. Leggere Papà respiro addio e Altri amici, altri scrittori ci riporta insomma a climi e a comportamenti che non si sono mai cristallizzati né mai hanno vo¬ luto chiudersi in se stessi o imporsi gratificanti e consolatori punti fermi. Ci fa rivivere gli anni nei quali una generazione «battuta» andava in cerca di una nuova «beatitudine»; lottando contro quell'«incubo ad aria condizionata» (per citare il titolo di un altro volume di Miller) che era un'America tutta proiettata verso un deprecato consumismo e un ambiguo ottimismo tecnologico. Ma anche un mondo traumatizzato dalla Seconda Guerra Mondiale e minacciato dalla tenace sopravvivenza dei poveri; un mondo che, nel giro di pochi anni, doveva misurarsi con la guerra in Vietnam, la contestazione studentesca, le rivolte dei ghetti negri. In Italia, tutto ciò giunse (grazie soprattutto alla Pivano e a pochi altri, come Claudio Gorlier) con un'imprevedibile rapidità, in un contesto che si muoveva a grandi passi verso il Sessantotto. Feltrinelli pubblicò i Tropici di Miller in un'anonima veste editoriale che resistesse agli attacchi del codice penai» (Nabokov, del resto, aveva dovuto pubblicare Lolita nelle edizioni della «pornografica» Olympia Press; e la Penguin aveva "VIAGGIO AMERICANO " Fernanda, tre in italiano 1500 articoli pubblicati soltanto su quotidiani e riviste dal 1945 a oggi e tutti dedicati alla cultura americana: niente male per una scrittrice e saggista che nel 1937, presso l'allora mitico Liceo d'Azeglio di Torino, aveva condiviso con Primo Levi la traumatica esperienza di essere rimandata in tutte le materie alla vigilia dell'esame di maturità con un implacabile tre d'italiano. E' la stessa Fernanda Pivano a raccontare in Viaggio americano (Bompiani, pp. 397, L. 33.000) questa storia curiosa perché associata anche a Cesare Pavese, allora suo professore d'italiano e poi suo amico e collaboratore, con il quale condivise fin dai primi Anni Quaranta l'amore e lo studio della letteratura d'Oltreoceano. A cominciare da Moby Dick, tradotto per la prima volta dal suo maestro. Ricordi che affiorano in Viaggio americano, cui proprio la figura di Pavese sembra far da cornice: ancora con Pavese, ad esempio, la Pivano scovò in un negozietto le opere in inglese di Francis Scott Fitzgerald, uno dei suoi primi grandi amori, assieme naturalmente a Hemingway. Un Viaggio frastornante che sonda tutte le frontiere letterarie del nuovo mondo in ogni settore, dal giallo d'alta fattura (Patricia Highsmith) alla fantascienza più estrema (Philip K. Dick, William Gibson), dai nuovi bestse//ers (Tom Robbins, Paul Auster) ai più recenti «nativi» (Sherman Alexie), da American Psycho di Bret Easton Ellis al cyberpunk di Mark Leyner, dagli hippies agli yuppies. [ru. bi.] // fascino e il ricordo di una generazione «battuta», ma in cerca di «beatitudine» affrontato un clamoroso processo per aver ristampato L'amante di Lady Chatterley di D. H. Lawrence). Claudio Gorlier lanciò un altro guru scandaloso, William Burroughs. Fernanda Pivano, innamorata della cultura d'Oltreoceano e dei suoi protagonisti, a cominciare da Hemingway e da Fitzgerald, infiammava i giovani ribelli di allora con Jukebox all'idrogeno; e con lo stesso Ginsberg fondava negli scantinati della Hellas, libreria di punta nella Torino di quegli anni, Pianeta fresco, splendida rivista underground, ormai prezioso pezzo di moder¬ nariato. Oggi Alien Ginsberg è un classico e Raitre, nel suo palinsesto notturno, ripropone i suoi grandi amici, a cominciare da quel Gregory Corso cui Papà respiro addio è dedicato e da quel Lawrence Ferlinghetti che fu il suo primo editore, come maestri indiscussi della nuova poesia americana. Talmente classico, oggi, Alien Ginsberg, da essere sottratto a Fernanda Pivano e da essere oggetto di ritraduzione. Una scelta editoriale forse legittima, che lascia tuttavia l'amaro in bocca. Senza nulla togliere al nuovo traduttore Luca Fontana, preciso e accuratissimo, l'incipit di Howl, «Urlo», resterà per tutti noi quello letto in Jukebox all'idrogeno. Come anche per me, che pure l'ho ritradotto, l'incipit di Moby-Dick resta quello di Cesare Pavese. La memoria resiste ma i tempi cambiano. Una new wave senz'altro più agguerrita sul piano filologico ma senz'altro meno ardente è subentrata a una «vecchia» (ma spiritualmente sempre giovane) generazione per la quale dietro le parole dei libri c'era la carpe degli uomini. Quella di Ginsberg, dei suoi amici beat e dei suoi mae- CANOBBIO: PADRI DEI PADRI AL PONTE DEI SANTI L titolo del romanzo di Andrea Canobbio è un poco illusivo ed elusivo in Padri di padri, effettivamente, ci sono vari padri e nonni, ma ci sono anche tanti altri personaggi che con la paternità dei personaggi principali poco hanno a che fare, e, inoltre, i problemi che li affliggono o coinvolgono non sono soltanto quelli parentali, per quanto questi occupino molto spazio nei loro pensieri e dettino molti dei loro comportamenti. Il primo punto a favore di Canobbio è di aver collocato la descrizione dei rapporti fra figli e padri all'interno di vicende ariose, intricate quanto basta per tenere vigile l'interesse, ma anche per PADRI DI PADRI Andrea Canobbio Einaudi pp 407 L 32 000 PADRI DI PADRI Andrea Canobbio Einaudi pp 407 L 32 000 permettere colpi di scena bizzarri e inquietanti al tempo stesso, grotteschi spesso, ma con un fondo di segreta drammaticità. I padri certo, ci sono: i due «vecchi», l'autervole Chenal, grande uomo d'affari che si è pentito del troppo denaro accumulato e cerca di disfarsene, naturalmente impedito da chi gli sta ùitorno; e il padre Meis, professore di matematica in pensione, che sta cercando un sistema per fermare il tempo; i due «giovani», Andrea Chenal, fin dall'infanzia in violento conflitto col padre autoritario e severo fino alla spietatezza, con una vita a lungo condotta con espedienti anche disonesti fino al furto, poi unitosi con Alice, da cui ha un figlio poco più che neonato; Claudio Meis, che organizza corsi per insegnare a fare i venditori di prodotti di ogni genere, ha sposato una sorella, Adriana, di Andrea, con la quale, delusa ricercatrice universitaria, i rapporti sono abbastanza freddi, ha un figlio, Luigi, che parla in un modo strano per un undicenne, cioè di sé in terza persona, molto preoccupato il padre, che scopre tale comportamento linguistico il giorno che lo va a prendere a scuola per portarlo dal nonno per il lungo «ponte» dell'inizio di novembre. Il romanzo, pur con abbastanza frequenti ritomi all'indietro, che riguardano soprattutto Andrea Chenal, ha una compatta unità di tempo, appunto quel ponte, nella varietà di luoghi, che Canobbio indica con abbastanza trasparenti nomi di santi, ma senza troppo proccuparsi di verosimiglianza fedele nella descrizione e, soprattutto, nell'indicazione deUe reciproche distanze. Claudio Meis è il personaggio che più sta in scena. A lui capitano gli eventi più sconvolgenti. Deve dare un passaggio al cognato, che incontra a un certo punto del viaggio con Luigi verso il padre, perché Andrea gli dice di avere l'auto guasta; lo picchia duramente, quando questi, in autostrada, davanti alle sue esitazioni a portarlo dove vuole, gli spegne il motore rischiando un incidente; si pente; dal padre ha mi moto di insofferenza di fronte agli eccessi di affetto per il nipote, e gli dà uno schiaffo; finisce nella casa di riposo diretta da Andrea, e qui incontra una ragazza, Arlette, che gli racconta di essere forse la figlia naturale del vecchio Chenal, ha effettivamente ima certa rassomiglianza con Adriana, e se ne innamora. Va con lei nell'isola dove vive il padre Chenal, praticamente prigioniero. Parla col suocero della possibile figlia naturale in modo acrobatico, tenendosi alla ringhieia del terrazzo dove il vecchio, ormai rimbambito, va a scrivere foglietti che poi butta in mare avvolti in un sasso; è coinvolto in un nubifragio con conseguente frana che seppellisce i ragazzi di un campeggio; ritorna con Arlette verso la sua città, dopo avere assicurato il figlio del proprio affetto, qualunque cosa accada, anche se se ne andrà di casa. Claudio è protagonista di avventure anche comiche, sempre nei guai, fondamentalmente inetto a capire quello che gli accade intorno, impulsivo quanto disarmato di fronte al rimorso che gli prende dopo ogni azione. Ma, alla fine, è, con Arlette e Luigi, il personaggio che si salva dal marcio del mondo. E' stato complice involontario di Andrea nel losco tentativo, che va a buon fine, di portare via al vecchio Che- Andrea Canobbio nal il libro con tutte le prove della corruzione di personaggi potenti (ed è questo il risvolto «giallo» del romanzo, a dimostrazione delle molte frecce che Canobbio ha al suo arco); ha preso per vecchio autentico il sedicente ingegnere Parapini, che è, invece, il sicario incaricato di compiere il furto, abilissimo e agilissimo e per nulla vecchio. Ma, davanti, ha un umano futuro, mentre Andrea non ha che il livore da scaricare sul cognato, che ha identificato, il suo odio, come su un nuovo padre. Il romanzo, nell'unità di tempo, è molto minuzioso, in apparenza lento, in realtà pieno di fatti, di sorprese, di storie. E' condotto con alacre abilità e con la suprema grazia della divina ironia. Canobbio è un originale e intelligente narratore. Padri di padri è un eccellente romanzo dei pochissimi che resteranno al di là di tante effimere fortune. stri, ma anche quella di Ray Bradbury o di Norman Mailer, di Julian Beck o di Joe Chaikin, di Joseph Heller o di Joyce Carol Oates. E di infiniti altri, con tutte le loro debolezze e le loro idiosincrasie, magari tra i fumi della marijuana e i vapori dell'alcol, come Hemingway o Mailer. Lo dimostra, nel caso di Ginsberg, una poesia di Mind Breath Ali Over the Place («Respiri della mente dappertutto»), Vomit Express, l'«Espresso del Vomito». Giusto forse tradurne la quartina iniziale «Me ne vo a Porto Rico/ Sì ci vo con l'aeroplan/ E ci vo con il Vomit Express/ Del dolor la valigia in man». Ma pensando a quanto fosse serio e attento al linguaggio Ginsberg anche quando scherzava o canticchiava raga, mantra e folksongs, non credo proprio che avrebbe mai potuto concepire versi simili. Già un'ottantina di anni fa, William Butler Yeats, il grande poeta irlandese, presentando Ezra Pound a un concorso di poesia, scriveva: «E' meglio un errore vigoroso, che non un'ortodossia poco ispirata». Ruggero Bianchi Giorgio Bàrberi Squarotti LA SCANDALOSA SIGNORA BENTICK LA SIGNORA BENTICK, 0 DELL' INCOMPATIBILITÀ' DI CARATTERE Hella S. Haasse Rizzoli bp. 410 L 28.000 LA SIGNORA BENTICK, 0 DELL' INCOMPATIBILITÀ' DI CARATTERE Hella S. Haasse Rizzoli bp. 410 L 28.000 N esotismo di segno inverso sembra percorrere i libri della scrittrice Hella S. Haasse, giavanese di nascita (1908), olandese di famiglia. Inverso, per intenderci, a quello che caratterizza l'opera della Duras, permeata di mal d'Indocina. Inesausta invece appare, nella Haasse, la nostalgia per il tempo perduto delle civiltà europee, dal Quattrocento aU'IUurninismo, dalla Francia all'Olanda, cioè dal suo primo romanzo storico, Vagando per una selva oscura (1949, reperibile nella Bur, tanto fortunato da aggiudicarle il titolo di massima autrice olandese contemporanea), a quest'ultimo, La signora Bentick, o dell'incompatibilità di carattere. L'originalità del quale è in buona parte dovuta alla quasi totale sostituzione della narrazione con il montaggio di documenti d'archivio (lettere, contratti, autoritratti dalla maniacale precisione della pittura olandese d'epoca), lasciando riapparire la forma di romanzo solo a guisa di collante. Ci troviamo di fronte a ima finzione antiquaria, non dissimile da quella dei cosiddetti «pittori anacronisti», proiettati nel passato con la precisa intenzione, non di copiare, ma di rifare la pittura neoclassica, con risultati suggestivi, anche se un po' kitsch. La signora Bentick è una nobile infante, Carlotta Sofia von Altenburg, di ascendenze mezzo olandesi e mezzo tedesche, cresciuta e viziata dai genitori nei loro molteplici possedimenti, in particolare nel castello di Varel in Vestfalia. Sullo sfondo dell'Europa belligerante di Voltaire e di Federico il Grande, in un'Olanda che oscilla tra repubblica e assolutismo, e nel contempo prospera grazie a fiorenti commerci, Carlotta Sofia vive la sua storia d'amore. Essa è, da un lato, scanda¬ losa e però prova della modernità dei «diritti», sia pure del cuore, acquisiti dalla donna, che incomincia a ribellarsi. Il suo apparente capriccio di tredicenne per il bel conte Alberto Wolfango più anziano di lei, al quale chiede di aspettarla per sette anni, è gesto coraggioso di una saggezza matura. Egli ne sposerà la cugina, figura non secondaria di un trio dalle molteplici complicità. Carlotta Sofìa lo amerà per tutta la vita, di lui breve, e lo rimpiangerà fino alla fine della propria, assai più lunga, non per semplice volontà del caso, ma perché vissuta con accanimento. Nel frattempo gli eventi, e le ragioni d'interesse, la portano ad accettare un marito non amato, Guglielmo Bentick. Quella che, fin dall'inizio, si presentava come una decisa avversione, è destinata a configurarsi sempre di più, malgrado gli sforzi di lui, come un'irreversibile «incompatibilità di carattere» (impossibile non avvertire l'opposta assonanza con «le affinità elettive»), che

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