E CASES ABBRACCIO' IL FASCISTA JUNGER di Luigi Forte

LA POESIA LA POESIA di Gabriella Sica E9 UNA "miniera» viva e attiva la poesia di questo scorcio di secondo millennio che vene sotterranee mettono in contatto vitale con la «miniera» ricca e preziosa della poesia latina. Anche di questo e di uno scavare nella nostra archeologia privata e mitica, ci parla la poesia di Claudio Damiani con Lo |p miniera % appena uscito !fi3 presso i;:' l'editore Fazi. v Una poesia '- ìj che e molto fluida e ! 4 libera, mai costretta . metrica mente, ma sempre semplice e discorsiva; una poesia che non e astratta e fredda ma sempre morale. Tre sono le tappe di questo cammino, come tre sono i libri, di cui i primi due già pubblicati, del volume che raccoglie l'intera produzione poetica di L>r..niani, ciall"84 ad oggi. In Fralurno è il ritrovamento della natura cancellata dai moderni, un luogo di quiete dove alberi, animali e acque vivono nella loro interezza. Ne Lo mio coso gli elementi della natura sono esseri interi, sono proprio persone che pensano, soffrono e cercano, come le strade o le case. Nel terzo e nuovo libro, La miniera, l'Elba è l'isola mineraria dell'infanzia dove cercare anche Ulisse, Elena o Diana, che non sono più miti, ma persone. Ecco un bel libro di poesia che non si può non condividere se si è per una letteratura della memoria che vada contro le poetiche di oggi fondate soltano sull'urlo, la scissione e la ferita. ■ I _J FASCISTA JUNGER Pubblicata la sua «scandalosa» tesi di laurea lei su che cosa si laurea?», chiese Lavinia Mazzucchetti. Io risposi: «Su Ernst Jùnger». Al che lei aggiunse: «Ab, di questi ebrei non ne hanno ammazzati abbastanza!». Cesare Cases fa una gran risata, poi torna a raccontare con affetto e nostalgia della «rossa» Lavinia, amica di Thomas Mann, che attraverso Mondadori fece conoscere agli italiani alcuni dei più significativi scrittori tedeschi di questo secolo. Non era certo donna di mezze misure, la Mazzucchetti. Per lei l'autore di Tempeste d'acciaio era un fascista e basta. Figurarsi se l'ebreo Cases, riparato durante la guerra in Svizzera, dove aveva conosciuto Lucien Goldmaim e letto Storia e coscienza di classe di Lukacs, doveva lasciarsi abbindolare da imo come Jùnger. Ne è convinto anche lui e aggiunge: «Non era facile conciliare Lukacs con Jùnger, però allora molte cose su di lui non si sapevano. La guerra aveva interrotto le comunicazioni culturali». Tant'è che il giovane laureando aveva scelto lo scrittore di destra pensando che fosse un argomento non troppo impegnativo, avendo un gran bisogno di addottorarsi in fretta. Ma Cases a Ernst Jùnger come c'era arrivato? Forse grazie al suo docente di letteratura francese, Theophil Spoerri, che aveva anche interessi filosofico-teologici, o su indicazione del sociologo della letteratura Goldmaim? «Non direttamente grazie a loro, ma alla loro cerchia. La maggior parte dei Libri di Jùnger mi fu prestata da un'amica, Yvonne Moser, che frequentava anche Goldmaim sempre circondato da ima pleiade di fanciulle». Inviso alla sana borghesia elvetica perché da un lato confinava col nazismo e dall'altro col comunismo, Jùnger finiva per essere difficilmente accessibile. Una lacuna che Cases colmò leggendo su di lui il libro di un profugo tedesco, Erich Brock. Scientificamente aveva dunque le carte in regola, ma anche la solenne disapprovazione della focosa Lavinia. Certo quel giovane laureando milanese, classe 1920, poteva ribattere che non il tono antiumanistico di Jùnger né i suoi deliranti testi di guerra lo interessavano, ma la posizione del ribelle: cioè l'anticapitalismo romantico e la battaglia contro l'mdividualismo borghese. Anche così, è improbabile che potesse ottenere la comprensione di una come la Mazzucchetti, che aveva perso la cattecha di germanistica per essersi rifiutata di prestare giuramento a Mussolini e guardava con sospetto perfino l'antifascismo di un Heinrich Marni, perché almeno in partenza, era più nietzschiano che democratico. Chissà cosa direbbe oggi quella donna straordinaria nel vedere che la tesi su Ernst Jùnger, discussa nell'autunno del 1946 con due relatori d'eccezione come Antonio Banfi ed Enzo Paci, viene ora pubblicata a cura eli Hermaim Dorowin. Noi pensiamo che finirebbe per rallegrarsene. Perché Cases, germanista intellettuale di primo piano nella cultura del dopoguerra, ha percorso ben altre strade da quelle dell'irrazionalismo. L'abbraccio di Jùnger non fu mortale, anzi servì ad approfondire le diversità e le non poche analogie dell'anticapitalismo che destra e sinistra nutrirono nei deifficili anni weimariani. Ancora oggi Cases ricorda che proprio durante il suo soggiorno svizzero egli era venuto a contatto con il pensiero di Emanuel Mounier. E poi c'era l'interesse per Lukacs, che negli anni seguenti sarà il suo «maestro». Autori molto diversi fra loro, accomunali però dall'avversione verso la borghesia in quanto tale, indipendentemente dal contesto socio-culturale. Insomma, nell'anticapitalismo romantico, da cui proveniva lo stesso Lukacs, ci stavano in molti. Compreso lo stesso Brecht, che soleva dire: «Non mi toccate Jùnger, ammiro il suo stile». E con lui, del resto, condivideva l'ostilità verso l'hidividualismo borghese e l'interesse per il cinema come genere antisentimentale. Cases stava dunque in buona compagnia: nutriva forse nel suo sogno eh affrancamento dalla società borghese qualche eccessiva illusione, ma ciò era comune a gran parte degli intellettuali della sua epoca. Fu anzi un vantaggio: gli permise di liberare anzitempo dal tabù ideologico grandi ribelli del Novecento, da Benn a Celine (il cui Voyage resta per lui, giustamente, forse il miglior romanzo del secolo), a Pound e allo stesso Jùnger. Non al punto però di proporlo all'editore Einaudi, di cui Cases è stato uno dei consulenti storici, a partire dal 1955. Come mai? «Semplicemente perché trovavo orribili i testi jùngeriani del dopoguerra. Quando nel 1961 uscì da Longanesi Le api di vetro scrissi un articolo stroncatorio su Paese Sera». Nulla da obiettare ad una decorosa ebbrezza, dirà più tardi il critico: purché essa non sconfini, come fu negli Anni Settanta e Ottanta, in una sorta di venerazione esotericomistica degli scrittori di destra. Ora qualcuno di fronte alla sua tesi di laurea potrebbe obiettare che anche lui aveva uno scheletro nell'armadio e che le sue bordate polemiche sfeirate dai bastioni di Quaderni Piacentini, Belfayor o L'Espresso perdono credibilità per quel suo supposto errore di gioventù. Niente di più falso, perché il giovane studioso coniuga l'interesse per lo scrittore che flirto con il nazismo con una critica severa e distaccata. Nella sua tesi, che Paci consigliò di mandare a Benedetto Croce, l'acquiescenza non è di casa, e meno che mai il tono apologetico. Basta sfogliarla per capire che l'entelechia di Cases era già tutta lì; un'intelligenza distaccata e sovrana, una forte capacita dialettica, un sapere che si muove con agilità tra filosofia e letteratura, mi rigore scientifico che hanno dell'inverosimile in uno studente di quell'età. Il quale, per altro, confessa di aver scritto il lavoro hi un mese, nel bel mezzo della canicola milanese. Non c'era ancora Eco a insegnare come si fa ima tesi di laurea, ma c'era la sfolla dell'outsider, che leggeva a perdifiato e aveva avuto maestri eccellenti in quel di Zurigo. Di quei tempi nelle nostre università si sono perse le tracce ed è mi gran bene che proprio Cases non abbia cancellato le proprie, come fanno certi animali al loro passaggio. Perché questo libretto, a cui il germanista Dorowin ha aggiunto due ottimi saggi sulla ricezione di Jùnger negli ultimi quarant'anni, è ancor oggi un'utile e lucida riflessione sulla Rivoluzione Conservatrice e sulla ribellione passionale di un'intera gen razione verso la propria origine. Non è poi così strano che un ebreo si sia sentito attratto da chi, in un certo periodo, cantava fuori dal cjio: da soggetti eccentrici e diversi. Sarà del resto proprio Jùnger a prospettare nuove figure antro¬ i i pologiche, personaggi che sfuggono ad ogni topografia borghese: il vagabondo, l'avventuriero e la figuratipo del lavoratore (come suona l'omonima opera del 1932 discussa da Cases), l'uomo nuovo che rompe con la «sicurezza borghese», come scrisse Heidegger, ritrova il rappor¬ to con le forze elementari e «la capacità di vedere le Forme». Definito più tardi «un nietzschiano da strapazzo in cerca di antenati spirituali», Jùnger è qui colto nel suo momento di opposizione al «mondo copernicano»: cioè quello del borghese ipocrita e filisteo che teme l'irruenza del flusso vitale, s'irrigidisce di fronte al dolore e alla morte, esalta un'arte museale ancorata all'individuahsmo ormai travolto nel turbine di potenze distruttrici. Insomma, l'interesse per la pars destruens di Ernst Jùnger nasceva in Cases dalla forte repulsione verso quella società capitalistica che aveva mostrato, con la guerra, di avere in sé i germi stessi della catastrofe. Proprio sui testi preferiti - La mobilitazione totale, Sul dolore, Il lavoratore - il critico prendeva le distanze: nel totale rifiuto della guerra, del nazionalismo, di qualsiasi forma di barbarie che l'irrazionalismo moderno spacciava come riaffermazione della vita e delle sue forze originarie. Cases svela con chiarezza l'ambiguità che affonda anche nel linguaggio e nello stile di Jùnger, cui sono dedicate pagine di grande acutezza: la tensione fra visionarietà tutta romantica e oggettività impassibile e distaccata. E da ultio, la contraddizione di chi ha scambiato un'ideologia aberrante con la rinascita dell'uomo, che mai può essere disancorata dalla libertà e dignità della persona. Forse anche Jùnger, a suo modo, finirà per capirlo nel romanzo allegorico del 1939, Sulle scogliere di marmo, scegliendo contro la tirannide del Grande Forestaro», dittatore dei popoli della steppa, la resistenza dello spirito. Lo scrittore commuove il laureando nel proclamare la supremazia del logos umano: «Trino ed uno sono la Parola, la Libertà e lo Spirito». Mentre l'esteta Jùnger continua la ricerca dell'enigma dell'esistenza con lo sguardo di colui che vede la profondità nella superficie. Un cacciatore di epifanie, di ebbrezze. Un visionario come E. Th. Hoffmann e il vecchio amico Alfred Kubin. Ci voleva tutta la distanza critica di un giovane illuminista come Cases, il suo precoce gusto per il paradosso, per capire che tali folgorazioni estetiche potevano essere un ottimo correttivo al rigido dominio della ragione borghese. Luigi Forte

Luoghi citati: Svizzera, Zurigo