La guerra dei professori

La guerra dei professori La guerra dei professori Basta con le distinzioni accademiche l'importante è la libertà di pensiero UELLAtra filosofia analitica e continentale è una distinzione accademica. Negli Anni 40 e 50, un gruppo di esuli centro-europei più o meno strettamente legati al circolo di Vienna (Carnap, Godei, Tarski, Reichenbach e via dicendo) si insediarono in alcune delle università più prestigiose d'America (Princeton, Berkeley, Chicago, Ucla) spazzando via con grande facilità il pragmatismo indigeno (che ora sta tentando di risorgere con pallide sembianze rortyane). A questi influssi si unirono negli stessi anni quelli provenienti dalla filosofia del linguaggio ordinario inglese (fondamentali furono le lezioni di Austin a Harvard nel 1955); ne venne fuori mia corrente filosofica attenta agli sviluppi della scienza, ostile alla metafisica e alla storia, puntigliosa nell'esplicitare la logica delle sue argomentazioni. Ma quella corrente fu vittima insieme del suo fallimento e del suo successo: fallimento perché l'idea di una scienza unitaria e cumulativa e di una filosofia che funga da sua metodologia tramontò in fretta e successo perché, svaniti i programmi ambiziosi, rimase uno «stile» (non a caso molto popolare) capace di coprire con una parvenza di rigore anche i concetti più scalcinati e fumosi. Questo stile è l'unico collante della cosiddetta filosofia analitica: purché lo si rispetti, ci si può occupare di Nietzsche o Heidegger tanto quanto di insiemi transfiniti o liberazione animale. Negli ultimi vent'anni è arrivata in America una nuova invasione, questa volta dalla Francia, ma stavolta gli indigeni non si sono fatti cogliere di sorpresa. Hanno resistito gagliardamente e, per quanto vaghe siano le loro relazioni intellettuali, hanno ritrovato un robusto senso di identità opponendosi a «continentali» come Foucault, Deleuze e Derrida: all'assunzione dei loro studenti, all'insegnamento delle loro dottrine, se possibile anche alla pubblicazione dei loro testi. I continentali si sono dunque arroccati nei dipartimenti di letteratura, e ne sono seguite le solite squallide polemiche e diatribe che caratterizzano la vita universitaria sotto qualsiasi clima, con un contenuto in vertiginosa diminuzione (anche fra i continentali, ormai, si fa tutto e il contrario di tutto) e un livello di aggressività pesantemente accresciuto dall'endemica crisi che affligge le discipline umanistiche. A testimonianza che l'imperialismo culturale segue sempre a ruota quello politico, queste stesse tristi polemiche vengono ora esportate per l'universo mondo, accompagnate dalla solita perversa immagine di benevolenza: filosofi analitici e continentali sono dipinti come sempre più «interessati» a quel che accade «dall'altra parte». (Forse che Russell non aveva studiato Hegel? Forse che Carnap non conosceva Heidegger? E viceversa? Si criticavano acerbamente, certo, e magari non si capivano, ma non si può negare che fossero «interessati». Sono solo gli accademici in quanto tali che, una volta arrivati in cattedra, e spesso anche prima, smettono di interessarsi di quel che capita fuori dal loro orticello). Finora il discorso è stato di carattere storico (o continentale?), ma c'è anche un risvolto più teorico (analitico?). I professori universitari devono pur «professare» qualcosa, ossia essere esperti in una qualche disciplina, e da questo punto di vista la filosofia rappresenta un problema perché si svolge ai margini di ogni professionalità, contestandone il carattere professionale ed eventualmente creando le basi di una professionalità futura (che la filosofia procederà quindi ugualmente a contestare). Dunque i professori dovranno dimostrare la loro competenza facendo dell'altro: diventando profondi conoscitori di certi testi, per esempio, o abili manipolatori di paradossi e dimostrazioni. Tutte cose lodevoli, intendiamoci, e spesso utili all'attività filosofica, ma tali anche da essere condizioni né necessarie né sufficienti perché ci si possa dire filosofi. L'idea che esistano precise distinzioni di ambiti tra discipline, che fisica, chimica e psicologia, un tempo parte della «filosofia naturale», siano oggi indipendenti e dunque la filosofia debba cercare un proprio ambito specifico nel «senso dell'essere» o nella logica dei nostri termini è un semplice riflesso della distinzione tra facoltà e dipartimenti, e delle accuse e sospetti reciproci che fatalmente emergono in ogni guerra tra poveri. Per fortuna, la filosofia non ha nulla che fare con tutto questo. Quando una persona, quale che sia la sua «professione», si interroga sul mistero del concetto di misura nella meccanica quantistica, o mette in dubbio l'assunto di universale egoismo su cui è fondata tanta sociologia «sperimentale», o tenta di elaborare una nuova utopia politica all'indomani del crollo di muri e cortine, quella persona sta facendo filosofia. E chiaramente la farà meglio insieme ad altri, e meglio ancora se questi altri si chiamano Platone, Aristotele e Kant. Un modo radicale e provocatorio per riassumere quel che ho detto potrebbe essere questo: filosofia analitica e continentale non esistono, i termini «filosofia analitica» e «filosofia continentale» sono ossimori, perché la filosofia è libertà di pensiero, dunque c'è tanta filosofia in un autore quanto c'è in lui (o lei) libertà da qualsiasi scuola e metodologia «professionale». Il che non vuol dire che questi termini insignificanti sul piano concettuale non servano ardente: sono anzi preziosi, come abbiamo visto, per raccontare certe lotte di potere e per chiarire come a molta gente si riesca con successo a impedire di pensare. Ermanno Bencivenga

Luoghi citati: America, Austin, Francia, Vienna