BUROCRATESE Il labirinto ostativo di Umberto Eco

COME CAMBI ERA' LA NOSTRA VITA. E' cominciata la guerra all' incomprensibilità di Stato : ma la vittoria è possibile? COME CAMBI ERA' LA NOSTRA VITA. E' cominciata la guerra all' incomprensibilità di Stato : ma la vittoria è possibile? BUROCRATESE // labirinto ostativo EI sa che nel corso del Millennio uscente Adriano Sofri è entrato più di una volta in gattabuia. Nella penultima occasione ne è uscito con alcune pagine, molto spiritose, sul modo in cui l'Autorità Carceraria desidera essere interpellata, ogni volta che un detenuto vuole ottenere qualcosa. Trattandosi del luogo in cui la burocrazia è una prigione non solo per metafora, ci si sarebbero aspettate espressioni mostruosamente protocollari, istanze e all'uopo, fattispecie e ostativo, postergare e diniego. No: in carcere ogni permesso speciale (per un libro, per un farmaco o, come fece Sofri, per vedere le stelle cadenti la notte del 10 agosto) lo si chiede facendo «domandina». Si esprime così il desiderio di avere una cura, o di esprimere un secondo desiderio (questa volta celeste, alle stelle cadenti). Così diminuita la domandina, si attenua l'enormità dell'umiliazione. Il capo delle carceri risponderà, fra un attimino. Il caso della galeotta domandina varrà, forse, a farci immaginare ciò che potrà succedere ai burocrati in un futuro prossimo, e prossimo ancorché miticamente collocato al di là delle fatali, soglie millenarie. In questi stessi giorni, ancora al di qua, si celebra un altro atto dell'interminabile addio al burocratese, odioso simbolo del sussiego e della volontà dello Stato di essere paventato. Il burocratese, secondo un'iperbole neanche esagerata del linguista Tullio De Mauro, rende temibili persino gli uscieri, a cui un cittadino sentendosi straniero in patria deve «far domandina» per un'informazione o un modulo. In un album memorabile, Asterix affronta la prova della Casa della Pazzia. Ci va e scopre che è un normale palazzo di uffici pubblici, da cui deve ottenere un timbro su un modulo inutile. Ne esce, pazzo: poiché contro le insidie del burocratese (inteso come lingua ma soprattutto come pensiero) nessun druido fornisce pozioni efficaci. La burocrazia è un labirinto in cui il saggio perde sé. E' allora con franco scetticismo che si accoglie l'ennesimo annuncio di sconfitta del Minotauro, l'ennesima abolizione del burocratese (la penultima era del 1995). Sarà anche un riflesso condizionato, ma viene immediatamente da pensare a quando, nel Duemila e rotti, una simmetrica commissione annuncerà l'abolizione dei prowedimenti appena introdot- Tutti i semplici domandina, parlare, rifiuto, scrivere dietro un documento lasceranno il posto a nuove trouvailles burolessicali o al ripristino degli antichi istanza, interloquire, diniego, attergare. Conoscendo un po' di storia della lotta al burocratese, questo ritorno apparirebbe impossibile e senz'altro indesiderabile. Il manifesto di questa lotta è stato il saggio di Italo Calvino sull'italiano come «antilingua» (1965): il cittadino dichiarava: «Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa...»; il brigadiere verbalizzava: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l'avviamento dell'impianto termico...». In questo esercizio c'era la polemica contro tale antilingua come «strumento inservibile», che ha paura delle cose che dovrebbe nominare. Ma la polemica non rovinava la degustazione dei piaceri perversi dell'antilingua, che accomuna a Calvino tutti gli altri grandi pastìcheurs italiani: il Manzoni e il Belli, e poi Dossi e Gadda («Resosi defunto anche Gabriele d'Annunzio...»), Giorgio Manganelli, Augusto Frassineti e la Ministerialità come forza trascendente; Umberto Eco (che ancora di recente si è esercitato ad analizzare i verbi redarre, transare, intimidare) e la fantaburocrazia militare intergalattica che ha immaginato in «Stelle e stellette». Fra questi, Alberto Savinio ha precorso le analisi della commissione linguistica per l'abolizione del burocratése: infatti ha raccontato che la sua domestica Lina Presotto (un nome che pare un rebus) parlando al telefono non diceva (come invece a voce) aspettare ma attendere, non piedi ma. estremità; non molto diversamente ancor oggi i burocrati non dicono pelle ma epidermide, e così via. Ma la riforma del burocratese è solo un problema di chiarezza? La chiarezza, anche la propria, è un tema frequentato dai nostri scrittori: in quegli stessi periodi Primo Levi polemizzava con Giorgio Manganelli (che difendeva le ragioni dello scrivere oscuro); e a Franco Fortini che diceva che la chiarezza è come la verginità (bisogna perderla per trovarla), Edoardo Sanguineri rispondeva che casomai è molto meglio perderle che trovarle, entrambe. Intanto, imperterrito, il burocratese torceva sillabe coniando altri archeoneologismi. Ogni tanto veniva insediata una commissione, per tradurre in italiano il modulo 740. In un caso fu convocato Luciano De Crescenzo, come campione di popolarità verbale: gli esiti furono sempre impercettibili. Tutte le intelligenze naziona¬ li, dalle migliori alle altre, sembrano insomma concordi sull'esigenza di migliorare l'eloquio dei burocrati (e delle Presotto) del Duemila. Ma una lingua non si abolisce, e il burocratese una lingua lo è. Questa commissione, l'unica che abbia almeno visto il ragno nel buco, ha lavorato per cinque anni, con congressi, premesse, promesse, presentazioni successive, incominciando con Ciampi a Palazzo Chigi, sopravvivendo a Berlusconi, e a Dini, fino a oggi, con Prodi. In rima: larghe intese sul burocratese. L'impresa di riformarlo non è né di destra né di sinistra: ciononostante, è una questione ideologica. La politica intera oggi è dominata dall'ideologia del semplice, totalitaria e totalmente ipocrita. E' un'ideologia che si nutre di se stessa, perché è semplice convincere delle virtù della semplicità (il rendere semplice è tanto gradito che fa sembrare gradevole a molte orecchie persino il verbo semplificare, sequenza sillabica assai burocratica, complicata e antipatica, in confronto per esempio al bel complicare). Ma neppure i sempliciotti sfuggono alle più complicate leggi freudiane, per esempio a quelle che sorvegliano il meccanismo della denegazione. E se a parlare tanto di sesso sono soprattutto i frustrati, chi parlerà di chiarezza cosa sarà? Con soddisfazione quasi amena le Ferrovie, le care Ferrovie dello Stato, annunciano di avere obliterato il verbo obliterare dai loro minuziosi regolamenti. Ma solo pochi anni fa nei regolamenti non c'era l'obliterazione né come parola né, soprattutto, come cosa. Introdotto assai recentemente l'obbligo di datare il biglietto, che costa multe inesplicabili ai viaggiatori e antipatiche partacce ai controllori, ora vogliono sentirsi ringraziare per aver cambiato il verbo obliterare. Ma essere multati per non avere obliterato, convalidato o timbrato il biglietto costerà lo stesso? Oppure aDo sgravio semantico ne corrisponderà uno monetario? Parlare chiaro ed essere chiari non è proprio uguale. Alla fine del Lungo addio di Raymond Chandler (per chi non l'ha letto, faremo solo un'allusione velata) non si sa se la persona salutata era già stata salutata definitivamente, o se ha diritto a un ultimo cerimoniale di amicizia. Aveva solo cambiato il nome o era proprio un'altra persona? Il melanconico dubbio marlowiano potrebbe porsi, magari con un pathos più agro che agrodolce, anche per l'obliterazione, il postergare, i nubendi, i fidefacenti e tutti gli altri minotauri linguistici che i recenti provvedimenti vogliono scalzare. No¬ mina nuda tenemus? Sono le cose stesse, che cambieranno, o solo i loro nomi, sostituiti da altri nomi improvvisamente ritenuti più adeguati? Sarà peggio dover attergare o doverlo dire? Ci vorrebbe un Wittgenstein che, almeno questo è chiaro, non c'è. Se poi controlliamo non solo sul tabellone delle parole in partenza, ma anche su quello delle parole in arrivo, ci accorgiamo che i casi sono molto diversi fra loro. L'mtenzione di rendere più comprensibili le comunicazioni ufficiali è ovviamente lo scopo principale, e in questo senso le statistiche del professor De Mauro avranno mostrato a dovere quanti cittadini capiscono il termine differimento e quanti capiscono il termine rinvio, quanti epidermide e quanti pelle. Viva il rinvio, e viva la pelle. Ci sono però altri casi in cui la sostituzione è solo apparentemente chiara: impossidenza è ostrogoto, ma è un ostrogoto sostantivo. Lodevole l'intenzione di sostituirlo con una parola italiana, ma viene proposto non possedere: non una ma due parole, e nessuna delle due è un sostantivo. Una frase come: «Mi trovo in un momentaneo stato di impossidenza» è triste. Una frase come «mi trovo in un momentaneo stato di non possedere» non lascia scampo. Se poi il fantasioso disdettare verrà disciolto in dare disdetta, pur essendoci nei dintorni un umile disdire, allora abbiamo il diritto di sospettare che la prossima riforma della burocrazia imporrà a tutti noi di dare una disdettata, aggiungendo sillabe alle sillabe, come una dannazione. Qui il record è costituito dal de cuius, vecchio latinorum notarile, che dovrebbe lasciare il posto a la persona che lascia un'eredità, dodici sillabe e l'agilità di un autoarticolato. Il vecchio burocratese era proprio vecchio e ormai inservibile (lo resta: non è affatto morto). Ma questi nuovi termini autorevolmente raccomandati so¬ no il burocratese nuovo (e non un'altra cosa), Di diverso dall'apparato gergale da sostituire ha intenzioni e velleità. Quello voleva essere autoritario, temuto e poco accessibile ai paria. Questo vuole mostrarsi trasparente, semplice, vicino alla gente comune (esattamente lo stesso cambio di prospettiva che è stato tentato dalla politica). Ma è in buona fede questa negazione della propria opacità? Alberto Savinio era un genio, e lo sappiamo proprio perché non faceva l'impiegato in un ufficio postale. Nella dialettica gogoliana fra Alberto Savinio e la sua colf, se la colf non avesse detto estremità ma piedi forse avrebbe scritto la Nuova Enciclopedia, invece di pulire i pavimenti all'autore effettivo (per la cronaca, di quei pavimenti la Presotto si stancò: racconta Savinio che ben presto intraprese la carriera di soubrette). Ma se pensiamo che gli impiegati postali debbano avere il linguaggio di Savinio, c'è qualcosa che non quadra. Perché fra le funzioni svolte (male) dal vecchio burocratese c'era anche quella di marcare se stesso: l'onestà paradossale di dichiarare la burocrazia oggetto lunare, infatti provvisto di un linguaggio selenita. Togliergli i recare per fargli dire andare significa farlo capire meglio (e questo è certo un bene) ma significa anche lasciar pensare che la sua logica sia improvvisamente diventata umana. Non è ancora vero, come non è una vera riforma della scuola chiamare non promossi i respinti. La riforma sarebbe inventarsi una scuola e una burocrazia che non respingano, ma quella sarebbe una faccenda seria. Non saremo certo noi a negare importanza alle parole, ma ecco che agli orizzonti della politica si profila l'ombra delle cose. Non i Rebus che sic stantibus e in cui est modus. Non la Cosa uno, due e tre delle filastrocche politichesi. Ma proprio: le macchinette gialle delle Ferrovie, le estremità e gli impedimenti, le disdette e le stelle. Come catturarle? Chiamatela domandina e sarà ancora un'istanza: per sempre, nell'eterno volgere dei millenni. Stefano Bartezzaghi Domandine, dinieghi, istanze, obliterazioni: sono gli odiosi simboli della volontà del potere di essere paventato, di rendere temibili anche gli uscieri Tra promesse, premesse e congressi si celebra il lungo addio alle formule astruse. Però resta un dubbio: forse, come ogni lingua, non potranno mai essere abolite Sostituire i «recare» con «andare» non serve: la vera riforma del Duemila sarebbe inventarsi un apparato pubblico con regole, macchinette, funzionari che non respingano il cittadino ■BtXJtfjiif (laop «••:> oatsri!) •Hji Ih il(-jiJ pi nbjwi sbw-:j ($-ìkmM ttjfi TM :3Kt il ■irtre OC ... Jim ifirt.'oXìi' Olii tai sisdaiàpae ,!oS i-jfc RHofeeatii «I wav'tì itian 02 ooousii) lui siosas •■iisJBÉv 8 iSojii iu« i'sii»} Ot'v: iab s«tb« snoisiias* .ii'icl! flit; t?.)i?I .'»!; ;■«'•(! 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Sarà anche un riflesso condizionato, ma viene immediatamente da pensare a quando, nel Duemila e rotti, una simmetrica commissione annuncerà l'abolizione dei prowedimenti appena introdot- Tutti i semplici domandina, parlare, rifiuto, scrivere dietro sua domestica Lina Presotto (un nome che pare un rebus) parlando al telefono non diceva (come invece a voce) aspettare ma attendere, non piedi ma. estremità; non molto diversamente ancor assai burocratica, complicata e antipatica, in confronto per esempio al bel complicare). Ma neppure i sempliciotti sfuggono alle più complicate leggi freudiane, per esempio a quelle che sorvegliano il mente, o se ha diritto a un ultimo cerimoniale di amicizia. Aveva solo cambiato il nome o era proprio un'altra persona? Il melanconico dubbio marlowiano potrebbe porsi, magari con un pathos più agro che agrodolce, anche per l'obliterazione, il postergare, i nubendi, i fidefacenti e tutti gli altri minotauri linguistici che i recenti provvedimenti vogliono scalzare. No¬ alle sillabe, come una dannazione. Qui il record è costituito dal de cuius, vecchio latinorum notarile, che dovrebbe lasciare il posto a la persona che lascia un'eredità, dodici sillabe e l'agilità di un autoarticolato. Il vecchio burocratese era proprio vecchio e ormai inservibile (lo resta: non è affatto morto). Ma questi nuovi termini autorevolmente raccomandati so¬ Stefano Bartezzaghi Alberto Savinio Umberto Eco pppli dbbi li l h li