L'illusione delle vette mansuete

I/illusione delle vette mansuete I/illusione delle vette mansuete Tante vittime, ma su vie non estreme COURMAYEUR. Una lama di sole scintilla sul rosso granito protogino del Pilastro del Freney, poco sotto la cupoletta di panna del Monte Bianco. I villeggianti guardano verso il massiccio e pensano che lassù si muore di nuovo. Come una volta. Con i quattro alpinisti caduti nella notte fra martedì e mercoledì e le due salme recuperate ieri, sono già diciassette le vittime della grande montagna in questa stagione. Non si parla d'altro. Ghiacci e rocce del Monte Bianco sembrano tornati di colpo inaccessibili. Come quando, nel 1961, il Freney è teatro d'una storica tragedia, con le due cordate di Walter Bonatti (con Oggioni e Gallieni) e di Pierre Mazeaud (con Guillaume, Kohlman e Vieille) sorprese dal maltempo sull'ultimo tratto, la Chandelle del pilastro: inchiodate dalla bufera, per tre giorni e tre notti, in una gelida lotta con vento e tormenta, Kohlman impazzito (devono legarlo), Oggioni stroncato, si salvano soltanto Bonatti, Gallieni e, per miracolo, Mazeaud, poi ministro francese dello Sport. Queste tragedie appartengono al passato. Non accade più. La montagna è cambiata e anche la morte ha perso il suo alone eroico. Nessuna epopea. L'alpinismo ha smarrito il carattere di competizione all'interno d'una élite: è un fatto di massa, anch'esso. Sulla salita del Tacul, in marcia per il Bianco, si vedono balenare, nelle notti buone, le lampade frontali di duecento alpinisti. Come se la grande av- ventura avesse esorcizzato il rischio. Ma ecco la neve marcia tradire la presa dei ramponi. Allora ritornano i fantasmi della montagna, dietro il burocratico elenco delle vittime. E i vecchi ricordano Henry e Vincendon, bloccati dalla tormenta durante una invernale sullo sperone della Brenva. E' il Natale del 1956. Incrociato Bonatti che, con un cliente, riesce a raggiungere la Vallot, scendono esausti sul versante francese, bivaccano a 3950 metri in attesa di soccorsi, ma si ribalta l'elicottero mandato a salvarli, le squadre non salgono, muoiono assiderati ai primi di gennaio. Quarantanni dopo, sul Bianco si continua a morire, soltanto che la morte è meno spettacolare. Non fa più parte della grande sfida. E la gente si domanda: perché muoiono? Come se morire sul Monte Bianco dovesse essere una cosa strana. Perché non cadono, queste vittime così normali, sulle grandi scalate, ma su vie classiche, su terreni tradizionali. Ci si meraviglia come se le punte di migliaia di ramponi, le becche di migliaia di piccozze dovessero avere ammansito la montagna, una volta per tutte. In realtà uno scenario come quello del Monte Bianco è diventato più sicuro e accessibile là dove sembrava più ostile, cioè sulle pareli di roccia che si ergono dal mare dei ghiacci (grazie ai progressi nei materiali e nella preparazione). Il granito è percorso da file di spit (chiodi a pressione) lungo i quali si vedono i climbers arrampicare in calzoncini. Lo svizzero Michel Pio- la ha aperto sul Monte Bianco decine di itinerari in cui trasferire ad alta quota il passaggio da palestra. Ma i terreni classici dell'alpinismo, ghiaccio, neve e misto, sono rimasti insidiosi, per le mutevoli condizioni ambientali. Soprattutto su neve, il terreno più facile, è difficile garantire sicurezza. La neve non offre solidi punti per gli ancoraggi di una cordata. Procedere legati, senza ancoraggi, può significare, se il primo scivola, morire in due o tre invece che uno solo. Però se un ponte di neve cede e si cade in un crepaccio senza essere appesi a una corda, sarà difficile venirne fuori. Com'è morto, d'altra parte, Renato Casarotto, l'ultimo alpinista della generazione eroica, nell'estate del 1986? Scendendo di corsa la normale del K2, a causa del cedimento di un ponte di neve. La stessa cosa può capitare sul Monte Bianco (ed è capitata l'anno scorso a una cordata che faceva ritorno al rifugio Gonella). Com'è morto Giancarlo Grassi, grande ghiacciatore, pioniere della piolettraction? Dopo l'uscita da una cascata di ghiaccio, nelle Marche, 1991, per il cedimento di una facile cornice di neve. «Le condizioni ambientali cambiano continuamente - dice la guida Lorenzino Cosson, da nove anni responsabile dei soccorsi in Valle d'Aosta -, prendi la Nord della Tour Ronde: l'anno scorso la facevano gli incoscienti, quest'anno è una via sicura, purché la neve sia gelata e si scendi3 entro mezzogiorno. Non si può eliminare il rischio, si può tornare indietro. Come hanno fatto le guide salite ieri al Torino vedendo che non aveva gelato. Il rischio dipende dalla tua capacità di valutare le condizioni». Diciassette vittime: esattamente come l'anno scorso. Non si muore di più, ma come sempre. Però tutte in una sola settimana, quando è scoppiato il beitempo, dopo i guasti del maltempo. Tra esse anche la guida francese Régis Michoux, scendendo lunedì dall'Aiguille Verte per un canale nevoso: la neve tradisce senza distinzioni, l'insidia è reale, la montagna mansueta è un'illusione postmoderna. Solo che abbiamo bandito la retorica. Perciò queste morti pesano: sembrano all'improvviso senza spiegazione. Alberto Papuzzi L'alpinismo ha perso il carattere di sfida ed è diventato un fatto di massa, ma non per questo ha esorcizzato il pericolo Una guida: «Le situazioni ambientali cambiano continuamente e non si può eliminare il rischio. Tutto dipende dalla capacità di valutare le condizioni» LaguidaLorenzino Cosson

Luoghi citati: Courmayeur, Marche, Valle D'aosta