A Salisburgo c'è un soprano tutto nudo di Marco Vallora

BURT La fantasia sfrenata del regista Sellars per «Le Grand Macabre» di Ligeti A Salisburgo c'è un soprano tutto nudo Commenti sulla cellulite più che sulla musica SALISBURGO. Mescalina, Nekrotzar, Venus-Gepopo, Astradamors: al posto degli originali ed ancor più espliciti Spennando e Clitoria: sono questi i rablesiani, maccheronici personaggi dell'opera «Le Grand Macabre», accolta l'altra sera con enorme successo al Grosses Festspielhaus, trascinando sul palcoscenico tra il tripudio di interpreti e pubblico il compositore transilvano Gyòrgy Ligeti, che ha appositamente rivisto la sua partitura del '77 per questa edizione di Salisburgo. Una partitura molto astuta, sapientemente teatrale e ruffiana, e inevitabilmente datata, con tutto quel ricorso a onomatopee, schiamazzi di clacson, intonarumori post-futuristi, sussurri, sibili e schiocchi, e vocalizzi dentro maschere a gas, di cui i compositori più giovani (Berio e Corghi in testa) han tratto sin troppo profitto, rischiando di rendere assai prevedibili e stanchi questi effetti «speciali», compresi i pastiches meta-musicali, tra l'Eroica e Orfeo all'Inferno. La novità di quest'anno consiste nell'aver abbandonato quest'opera, già di per sé sovversiva e plurilinguistica, alle braccia provvidenziali ma provocatorie del regista Peter Sellars, che ha trasformato alcuni cantanti in prodi acrobati sessuali (per le loro performance di «galopades» già previste dal libretto), ha generosamente offerto al pubblico il nudo prestante e integrale di un giovane, disinvolto soprano (per cui i prevedibili commenti vertevano più sul tasso di cellulite offerto alle luci inclementi, piuttosto che non la grana degli acuti, ottimo comunque il cast) e soprattutto ha trasformato la Bruegelandia fiamminga del libretto, ispirato a De Ghelderodes, in una sorta di desolata terra post-atomica, popolata di eccitabili valvole elettriche (completamente cancellando quell'allure alla Bosch in cui tanto aveva pescato il Topor di una scenografia bolognese). Davvero splendide le scene di George Tsypin, che ha lavorato su soli bianchi polari com l'Altman di Quintett, in questa sorta di mare arenato di gigantesche lampadine fiammeggianti, incrostate entro colonne di marmo: effetto magnifico, come d'un Caspar Friedrich del Moderno, dove i personaggi si aggirano spaesati. Con sapienti riferimenti al mondo biomorfo della O'Keeffy, alle sculture mollicce di Tony Cragg o ai mostri domestici di Louise Bourgeoise: per esempio quelle larve apparentemente petrose e lunari, alla Melotti, che invece nascondono irrequieti coristi, travestiti da sacco a pelo, da comprimari della spedizione di Amundsen. Ed è davvero spettacolare, in questa sorta di albeggiante-nevoso Tanguy elettromeccanico, quel sopraggiungere improvviso di un Cavallo di Troia che sembra partorito dalla fantasia mescalinica di Bellmer, con tutte quelle zampette rivestite di calzini alla Lolita e quella calotta di specchio che riflette l'animazione del golfo mistico, così allegramente dissacrato, dove Esa-Pekka Salonen conduce magnificamente in porto la peri- gliosa partitura. Mentre paiono esplodere anche le porte della grande sala, che si schiudono a luci polari ed a urli meccanici, ed ecco che irrompe pirandeUianamente in sala il coro travestito da laticlavio romano, con tutte le mossette perfidamente imitate dei salamelecchi orientaleggianti, alla Bob Wilson. Ed è irresistibile il duetto in cui una sorta di Mrs. Thatcher con borsetta infligge le sue lezioni di vizio inglese al partner annidato dentro la tenda polare. Marco Vallora Gyòrgy Ligeti

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