CAFFE' il centro perduto del mondo

E' stato il luogo principe della socialità popolare: oggi muore, seppellendo uno stile di vita e di cultura E' stato il luogo principe della socialità popolare: oggi muore, seppellendo uno stile di vita e di cultura ' // centro perduto del mondo I II FORLÌ' / UNO dopo l'altro, senza far chiasso, stanno II s«jomparendo dalle noI stre città i caffè popolari e i circoli. Con loro se ne va un modo di vivere; si perde una culturaj La mia generazione, quella dagli Anni 50, può ancora recuperare qualche traccia di quel mcjndo; chi si inoltrerà più avanti nel nuovo millennio ignoreri perfino che esso sia mai esibito. Cosa bssero i caffè e i circoli l'ho sapito in parte per averli frequentati nella Romagna della fine digli Anni 60 e degli Anni 70, in pirte per averne sentito parlare jia mio babbo, da mio fratello.p da amici più vecchi di una decina d'anni o giù di lì. A Forlì hq frequentato prima un caffè dijperiferia chiamato «La latteria)» poi il circolo detto «Il Camerofe», affiancato, ma ben distinto, alla sezione Ho Chi Minh dé Partito Comunista. Le leggendi che ho ascoltato si riferivanc invece, per la maggior parte, a mitico caffè Adua (leggi «Adv », per la nota difficoltà dei ronagnoli a pronunciare il dittongi «ua»), posto sotto le grandi arcate dei due monumentai] palazzi mussoliniani che sellano la fine del corso principile e introducono nella grande: Piazza della Vittoria, forse ino degli esempi più straonjnari di architettura fascista.! Al sto posto c'è da tanti anni una pijzeria. Dov'era la latteria c'è urj acconciatore, o meglio «Hair ìtylist», come recita pomposammte l'insegna. Il vecchio «Canalone» è ancora lì, con le sedie sempre vuote che rimpiangilo i fasti di un tempo. Eppire sembravano eterni e immutabili, con i loro banconi, le secje, i tavoli e le persone, sempp le stesse, giorno dopo giornq Erano sempre aperti, più dile chiese. La sera, quando qièste chiudevano le loro portejil caffè e il circolo diventavano ancora più accoglienti di quanto non lo fossero durante il giorni. Po$o sbagliare, ma credo che i caffe chiudessero al massimo un gbrno o due all'anno, per Natale e per Pasqua. Nelle domenìhe più assolate e desolate d'estate, nelle sere fredde delrinvjrno, quando la noia o la tristezza si facevano davvero maligne, il caffè era lì. Male che andava si trovava sempre da fare die chiacchiere. Alla peggio, ci s; poteva sempre sedere a guardare chi passava aspettando àie qualcuno si facesse vivo. Sempre meglio che languire in casa. Non so se Vattimo ci ha mai riflettuto, ma quando fiorivano caffè e circoli, non poteva esserci crisi del soggetto, per non parlare dei laceranti problemi di identità pedonale che travagliano questi fine secolo. Nel caffè ognuno aveva il proprio posto e una firionomia ben definiti quasi senpre sanciti da un soprannome ) da un nomignolo: «il Fornao», «il Muratore», «il Moro», «ftllocchio» (era ovviamente stfibico), «Minarelli» (dal nome cel suo motorino), «Ivy» (per ilfatto di ricordare, per la straoriinaria perizia nel curvare, un leggendario campione del mdociclismo). A rafforzre ruoli e identità c'erano poi le gerarchie informali, primafra tutte quella basata sulla maestria alle carte. Tutti sapevao qual era il tavolo dei buon, quello dei meno buoni e qtello ignobile degli scarsi. Nesuno sano di mente si sarebbe mai sognato di chiedere di essere ammesso, senza possedere i dovuti requisiti, al tavolo dei buoni, Se per necessità (mancanza del quarto) qualcuno dei meno buoni veniva elevato al rango superiore, era per il prescelto un'occasione importante, ma anche una grande responsabilità. Ricordo benissimo che quando il fornaio, che era il migliore fra i più giovani, fu chiamato a sostituire «il Moro», si avvicinò al tavolo tremante e per tutta la partita il suo volto, di solito strafottente, fu di un pallore cadaverico. Il caffè ospitava un'umanità varia per età, gusti, idee politiche e fede sportiva. Anzi, viveva di quella varietà. L'anima del caffè erano le battute e le dispute con chi la vedeva in altro modo in politica o sulle grandi questioni del calcio, del ciclismo, o sulle più impensabili e bizzarre vicende della vita. L'uomo del caffè era un discutitore, o un ascoltatore attento e curioso di discussioni. Se nel suo caffè c'era troppa quiete, andava a cercare altrove l'occasione della disputa. Esemplare in proposito il caso di B., piccolo di statura, naso pronun¬ ciato, occhi vivacissimi; era un multante modello, esemplare nella diffusione del giornale, instancabile alle feste dell'Unità, implacabile nel tesseramento. Eppure, stava poco al circolo con i compagni di fede. Preferiva andare al vicino «Lino Marini», il circolo dei repubblicani, per scatenare discussioni infuocate. Quando poi era tempo di grandi avvenimenti sportivi, quab' le Olimpiadi o i campionati del mondo di calcio, si trasferiva in pianta stabile dai repubblicani per intrecciare con loro scommesse di grande significato ideale. Per le Olimpiadi, ad esempio, scommetteva che la Russia avrebbe conquistato più medaglie dell'America; che Cuba avrebbe da sola superato tutti gli altri Paesi dell'America Latina messi insieme; che i Paesi del blocco socialista, Germania Est in testa, avrebbero umiliato le nazioni europee asservite all'imperialismo. I risultati sportivi confermavano spesso le sue convinzioni sociali e politiche. Ma nel '66, campionati del mondo di calcio in Inghilterra, esagerò a scommettere, solo contro tutto il circolo, che la Corea avrebbe battuto l'Italia. Se lo fece per fede terzomondista, o per spirito di polemica, non si sa. Sta di fatto che vinse numerose casse di birra, perché i repubblicani erano uomini probi. Ma quando l'arbitro fischiò la fine, dovette allontanarsi rapidamente seguito da insulti e minacce di ogni genere. Grandi momenti a parte, la vita del caffè aveva un suo rituale, fatto di gesti o parole ricorrenti. Tutti sapevamo, ad esempio, cosa succedeva quando arrivava V.: apprendista muratore, alto, capelli lunghi, carnagione scura, gioviale. Appena finito di sorseggiare il suo caffè si rivolgeva verso l'ultraottantenne «Puntò», che sedeva ogni sera al suo posto con le mani appoggiate al manico ricurvo della zanetta, e lo apostrofava con considerazioni poco lusinghiere sulla sua declinante vigoria amatoria. Puntò lo guardava prima con occhio torvo, poi cominciava a vibrare verso l'irriverente giovinastro vigorosi fendenti con il bastone provocando un fuggi-fuggi generale. Soddisfatto, Puntò riprendeva la sua posa solenne; V. si sedeva per la partita o andava a tormentare qualcun altro, e il gestore scuoteva la testa in segno di bonaria disapprovazione. La serata poteva cominciare. Il che voleva poi dire dare inizio alle partite. I tavoli si formavano secondo un ordine mirabile governato dall'abitudine. Attorno ai tavoli dove si cimentavano i migliori si formavano cerchie più o meno ampie di spettatori con il delicato compito di commentare, approvare o disapprovare le mosse dei prodi che si cimentavano al gioco. Senza spettatori, senza commenti, senza discussioni, la partita perdeva quasi il suo significato. Il giudizio degli spettatori contava infatti più del verdetto delle carte. I punti fatti sancivano la vittoria di una coppia sull'altra, ma erano i commentatori a decidere se la vittoria era stata ottenuta per fortuna o per virtù. Caffè e circoli erano vere palestre d'eloquenza. Ma chi oggi dice che i dibattiti televisivi in cui saccenti esperti fanno a gara per interrompersi a vicenda assomigliano a discussioni da caffè, non ne ha mai visto uno. Nel caffè le dispute si vincevano con la battuta, con l'iperbole, con l'osservazione sottile, non alzando la voce. La rapidità della risposta era decisiva, ma raramente qualcuno interrompeva l'interlocutore. Una bella battuta veniva ripetuta e ricordata infinite volte, e dava a chi l'aveva inventata una fama duratura. Ma ancora più grande era la gloria che dava lo scherzo. I nomi degli autori di scherzi memorabiU vivevano perenni nella memoria del caffè. A volte passavano da un caffè all'altro ed erano celebrati in tutta la città. Quando io ero ragazzo, circolava ancora la storia dello scherzo perpetrato ai danni del «Sartaccio» (è Sartàz) al caffè Adua nei primi anni del dopoguerra. L'appresi per la prima volta da mio babbo, poi l'ascoltai, con piccole variazioni, da altri. Il «Sartaccio» era un uomo che in- cuteva terrore solo a guardarlo. Anche da vecchio, quando io ho avuto l'avventura di vederlo, ispirava soggezione: corpulento, occhi durissimi, mani che sembravano pale, avvolto in una capparella nera. Sempre burbero, quando perdeva alle carte diventava furioso. Era l'ultima persona al mondo a cui fare uno scherzo, soprattutto uno scherzo come quello che sto per raccontare. Una sera, viene ad alcuni la bella idea di inchiodare la capparella del sarto all'attaccapanni. Per rendere lo scherzo ancora più gustoso, decidono di farlo perdere a carte congegnando una partita truccata: un volontario sprezzante del pericolo doveva giocare in coppia con il «Sartaccio» e al momento opportuno fare degli errori che avrebbero portato alla sconfitta. Arriva il «Sartaccio», appende la capparella e si accinge ignaro a giocare. Attorno al tavolo si forma un grande cerchio di spettatori che impediscono al «Sartaccio» di vedere e di sentire i cospiratori intenti a inchiodargli la capparella. Dopo alterne vicende, la partita volge all'epilogo predestinato. In un silenzio carico di tensione, il compagnotraditore fa due o tre errori ìrreparabiU. Il «Sartaccio», rosso paonazzo si alza di scatto, allontana da sé il tavolino e si dirige verso l'attaccapanni per recuperare la capparella. Uno strattone, due, la capparella non viene. Il «Sartaccio» è fuori di sé. Un terzo strattone più forte degli altri e la capparella si apre in due. Si salvi chi può. Con occhi di bragia, il «Sartaccio» dà di piglio a una sedia e passa a una rappresaglia indiscriminata. In un batter d'occhio, più di quaranta (altri sostengono almeno cinquanta) persone schizzarono dalle porte del caffè come diavoli dall'inferno. Ci risero sopra per un bel pezzo, ma la paura, su questo tutte le mie fonti sono concordi, fu davvero grande. Altrettanto memorabile fu lo scherzo messo in atto dal già citato B. ai danni del democristiano Giuseppe, gestore del caffè (anch'esso scomparso) situato all'angolo fra la Via dell'Appennino, che conduce a Predappio, e la cùconvallazione che porta a Bologna o a Rimini. Erano i tempi del muro di Berlino. Ogni qualvolta B. si presentava da Giuseppe per il cappuccino (ci andava ovviamente per le stesse ragioni per cui andava dai repubblicani), doveva ascoltare accuse e attacchi. Stanco di subire, B. decide di rispondere, è il caso di dirlo, muro contro muro. Con l'aiuto di pochi fidi compagni della fornace dove lavorava, costruisce nottetempo un vero muro di fronte alla porta del caffè di Giuseppe, e vi appende un cartello con scritto: «Muro della vergogna». Quando il povero Giuseppe si ritrovò il caffè murato, narrano i testimoni, poco mancò che svenisse. Il Resto del Carlino parlò di teppismo politico. Di storie come questa se ne potrebbero raccontare tante altre, ma non per molto ancora. Quando mi sono messo all'opera per scrivere questo articolo, mi sono accorto che è diventato difficile ricostruire le narrazioni o perché i protagonisti sono morti o perché molti hanno ormai dimenticato. A voler salvare dall' oblìo qualche frammento del mondo dei caffè bisognerebbe fare un lavoro non piccolo. Chissà poi se ne vale la pena. Maurizio Viroli Ognuno possedeva il proprio posto. A rafforzare ruoli è rapporti c'erano gerarchie basate gioco delle carte su Era un potente antidoto contro noia, solitudine e lacerazioni dell'identità personale Ospitava un'umanità varia per età, idee politiche e fede sportiva, sempre pronta alla discussione MH m

Persone citate: Hair, Lino Marini, Maurizio Viroli, Minarelli, Moro, Vattimo