NERUDA Una prua sul Pacifico di Ferdinando Camon

LA STAMPA Pellegrino a Isla Negra, nell'eden privato del poeta cileno: un Vittoriale sudamericano NERIM Una prua ISLA NEGRA HI in letteratura rappresenti il proprio Paese, non è un problema ita liano, è mondiale. Adesso qualcuno rispolvera Pascoli come poeta della nostra sinistra. Ma non era soppiantato da Pasolini? Il romanziere della nostra borghesia è sempre Moravia? 0 era scavalcato, già in vita, da Volponi? E per estendere il discorso al mondo: le parole del vecchio Amado sono ancora le parole del Brasile? Il Brasile è davvero come lo descrive lui, vitalità, sesso, avventura, felicità di essere quel che è? O questo è un puro sogno? Borges è Buenos Aires, è l'Argentina? E Neruda è il Cile? Sono appena tornato da Argentina-Cile-Brasile, e niente di quel che ho visto mi ricordava la loro grande letteratura contemporanea. La sensazione più tormentosa (a livello razionale, prima che sentimentale), è che il progresso che inseguono (da loro il Mercosul è più importante che da noi l'Unione Europea) esclude programmaticamente una parte cospicua della popolazione: danno per scontato che una parte del popolo, quella che non ha lavoro, non ce la farà mai, tanto vale considerarla perduta. E' impressionante l'ampiezza delle favelas, attorno a Rio, attorno a Santiago. Sono inferni collocati nei paradisi. Da loro le zone residenziali, con le ville dei ricchi, stanno in basso, nelle vallate, e i pendii delle conine sono abbandonati ai poveri. L'esatto contrario che da noi. Le favelas di Santiago sono visibilmente più miserabili: sembrano agglomerati di canni; ma quelle di Rio sono più pericolose: è pericoloso non solo entrarci, ma anche girarci intorno. Nessun europeo può immaginare che a Rio, arrivando in taxi o in pullman nel cuore della città, verso le 5-6 di sera, e girando intorno alla cattedrale, che sorge tra i principali ministeri, chi ti accompagna ti raccomanda: «Faccia foto da qui dentro, se esce dalla vettura non rispondo di lei». Fai un metro, e sei perduto. I ragazzi di strada, che vedi lì in agguato, ti s'avventano come un branco di iene. Hanno fame, son malati, son randagi, sono semi-pazzi di solitudine, violenza, abbandono, ti sgraffiano da dosso tutto quello che possono. Non sono registrati all'anagrafe. Lo Stato li ignora quando nascono, li ignora quando muoiono. E' questa esclusione dallo Stato di una parte della popolazione il dato traumatico di quelle società. Chi interpreta questo dato, Amado, Neruda, Borges? Il più vicino al popolo è Neruda. Borges non sente il popolo, sente la cultura, la biblioteca, l'aristocrazia, il re, il capo; se sente Dio, è un Dio della filosofia. La casa natale di Borges sta nella centrale via Tucuman di Buenos Aires, che è una zona popolare: ma quella casa, solo quella, è mconfonelibilmente aristocratica. La noteresti anche se non sapessi chi vi è nato. Tra il popolo argentino e il popolo cileno c'è un salto antropologico. L'Argentina è un pezzo d'Europa, il Cile ha una forte prevalenza di indigeni. Girando per Santiago ti vien voglia davvero di un contatto con Neruda. Con quel che resta di lui, i libri, i tavoli, le penne, gli attrezzi, i manoscritti. E allora non ti resta che andare alla sua casa. A una delle sue case, la più famosa, che sta sul Pacifico, a Isla Negra. In una posizione tra le più belle del pianeta. Un eden privato. Ci vado, con un tassista che uscendo da Santiago per la via principale, e passando davanti al Palazzo della Moneda, mi indica una finestra e dice: «Là dietro c'era Allende». «E' stato ucciso lì?», domando. Risponde: «Non l'abbiamo ucciso noi, s'è ucciso da sé». «Come - dico -, che vuol dire non l'abbiamo ucciso noi, lei fa parte di quelli che lo assaltavano?». «Ero un poliziotto - risponde -, sono entrato per primo: s'era sparato da sotto in su, gli schizzi di sangue erano finiti al soffitto». Un poliziotto. Mal pagato. Adesso fa l'autista, perché guadagna di più. Tu pensi che la storia la facciano le idee. Invece sono interessi, e a volte il semplice interesse di sbarcare il lunario. Metà santuario e metà museo Filiamo verso Isla Negra (che dista da Santiago un 120-140 chilometri) per una specie di autostrada, sormontata da viadotti, sui quali leggo continuamente: «Fernandez è vivo, Rodriguez è vivo». Sono tutti morti, naturalmente. Tupamaros? No, risponde, poliziotti. Sono le vittime dei Tupamaros. La polizia passa per le strade, e scrive i loro nomi sui pilastri e sui pon- ti, per darsi coraggio. I Tupamaros peruviani qui hanno molti simpatizzanti, specie fra gli studenti. Ho già detto che la popolazione è in gran parte composta di indigeni: passeggiando per Santiago, quelli che incontri ti sembrano tutti Zamorano, con la stessa faccia lunga e tetra, ascetica-tragica. La casa di Neruda appare di colpo, a sinistra, tra i primi scintillii dell'Oceano. E' qualcosa di mezzo tra il museo e il santuario. Prima di entrare nella casa vera e propria, sosti in un cortile dove troneggia un trattore. Un vecchio trattore, con le quattro ruote tutte della stessa ampiezza, cioè tutte enormi, e una quinta ruota alta su un fianco: è quella che serviva per la puleggia che faceva girare la trebbia. E' così grande, che sembra una locomotiva. Hai l'impressione che, se lo metti sui binari, parte sbuffando, e trascina con sé dieci-venti vagoni. La casa ha una pianta «in progress», si allarga per continue aggiunte e non finisce mai. Neruda l'ha collocata su un litorale di sabbia grossa e di scogli. Così s'è ritagliato una fetta di spiaggia per sé. Tutta la casa è concepita per il benessere. Il pavimento è pensato per il massaggio della pianta dei piedi: è una gettata di cemento nella quale son conficcate delle conchiglie. Solo che le conchiglie stanno a 10 centimetri una dall'altra, e invece di massaggiarti ti fanno inciampare. Il salotto sta alla casa del poeta come il mégaron stava alla reggia omerica. E' il centro della vita. Neruda lo trovavi lì. Lì pranzava, parlava, riceveva. Lì ti fa vedere chi è. E la visione non è perfettamente gradevole. Cammino, giro, osservo, e mi viene in mente il Vittoriale di D'Annunzio. Stesso sovraccarico di ornamenti, di simboli, di potenza. Di decadenza. Sul tavolo da pranzo si sporge dalla parete una statua della Medusa, che era il rostro di una nave. Su un altro lato del tavolo pende la statua di una donna giovane, in legno opaco, con gli occhi di maiolica: gli occhi lucidi danno la sensazione di un pianto silenzioso. E' la statua della Favorita di Neruda. Neruda cambiava spesso donna, e a volte ne aveva più d'ima contemporaneamente. E' stato console in Birmania, e dalla Birmania s'è portato statue di Shiva e Brama. Penso per un attimo di star mangiando lì, con lui, stringendomi per non essere toccato da questa paccottiglia incombente, e di osservarlo, con la sua faccia larga e solcata, sotto le lacrime della Favorita. E' più dannunziano del Vittoriale. Più kitsch. La tavola da pranzo ha nove posti. Neruda stava a capotavola. Diceva che quello era il posto del capitano, e che la sua casa era una nave all'ancora, in porto. Neruda abitò qui con la terza moglie. Il letto matrimoniale è disposto in modo da avere il mare ai piedi, visibile attraverso due pareti tutte vetri. Il mare è blu in lontananza, verde verso la riva, bianco di schiuma sugli scogli. Un intero armadio è riservato ai frac, e su una tavola stanno allineati 18 cappelli. Complessivamente, nelle stanze e nei corridoi, sono esposte 283 bottiglie, in gran parte a forma di donne: Neruda le disponeva sulle finestre, a rotazione, per vedere il mare attraverso corpi femminili. Una saletta, più piccola, è attrezzata a bar: lì Neruda serviva agli amici drink a base di cannella, tiglio, riso tritato. In alto, sulle travi, aveva scritto a intaglio i nomi degli amici: Garda Lorca, Paul Eluard, Carlos Fuentes, Sepùlveda. In un angolo, un macinacaffè alto un metro e mezzo e largo un metro, a manovella, con due enormi volani. Dopo il bar, uno studiolo segreto, per i momenti di quella che si continua a chiamare ispirazione. Il tavolo porta la foto di Baudelaire. E' un tavolo piccolo, lungo sei spanne e largo quattro. Ha la stessa ampiezza della finestra alla quale sta addossato. La luce è abbagliante, e frontale. Fa male agli occhi. Il tavolo, così piccolo, è anche scomodo: sotto il ripiano scorre un'asse che lo attraversa da destra a sinistra, e che scende fino a 20 centimetri dal suolo. Sicché le ginocchia la urtano, bisogna piegarle. La sedia è bassissima. La scrittura diventa una penitenza. Alle spalle, sul muro, sta incorniciato L'infinito del Leopardi. Oltre questa stanza c'è un camerino, con le pareti in tronchi d'albero e il tetto in lamiera: Neruda si trasferiva qui quando pioveva, per sentire rimbombare i goccioloni. «E il pino / ha un suono, e il mirto / altro suono», e la lamiera altro ancora: è proprio la prosecuzione della dannunziana Pioggia nel pineto. In questa camera sonora c'è un tavolo grezzo, grosso, mal tagliato, storto, con sulla superficie un incavo ampio, tanto da poter contenere una mano. E lì ci andava la mano, infatti. E' un legno che Neruda vide arrivare dal mare: «Ecco il tavolo dove scriverò», disse, ma quando lo ebbe in casa si accorse che era la porta di una cambusa, con l'incavo per la maniglia. Lo usò ugualmente. Alle 6 suonava le campane Da lì puoi uscire sul cortile interno. Dal lato che dà sul mare, il cortile ospita una costruzione ad alberi incrociati che reggono due campane: Neruda le suonava alle 6 di sera, perché, dice la guida, «a quell'ora si sentiva bene». Amava due suoni: il mare e le campane. L'intenzione era di informare il popolo che a quell'ora il poeta era febee. Il Re Sole faceva così. Neanche il Re Sole era vicinissimo al popolo. Più avanti ancora, verso il mare, la tomba di Neruda, a forma di una prua. Neruda non è morto qui, è morto a Santiago. Ma fu porta¬ to qui in obbedienza a un suo desiderio, e qui fu sepolto insieme con l'ultima moglie. Sicché la tomba è in realtà un letto matrimoniale. Anzi, visto che è posta in pendenza, per slittare in mare, una zattera matrimoniale. Guardandola dalle spalle, ti dà l'impressione di essere già in acqua, e di prendere il largo. La tomba è fiorita di fiori grassi rossi. Lui sta a destra, lei a sinistra. Sopra la tomba-nave si alza un albero a forma di croce. Il popolo è continuamente in visita, a scolaresche, a famiglie. Prima di cominciare il giro, si ferma in un salottino e si sorbisce un filmato in bianco e nero: un documentario che sta a Neruda come un santino sta al Santo. Lo ascolto fino alla fine, e ne ricevo l'impressione che Neruda sia così amato non perché cammina tra il popolo, ma perché vola alto sul popolo: non è amore, è venerazione. Chi ha letto le poesie di Neruda lo crede vicino, viene qui lo sente altissimo e irraggiungibile. Il Dio che può ha toccato lui e nessun altro. La stupenda casa del poeta, che richiama il popolo, lo separa dal popolo ogni giorno di più. Ferdinando Camon Una testa di Medusa, una donna in legno con gli occhi di porcellana: nel grande salotto, centro della vita, sovraccarico di paccottiglia Lo studiolo segreto, per i momenti dell'ispirazione; sul tavolo una foto di Baudelaire; dalla finestra la luce abbagliante dell'oceano NERIUn In alto Pablo Neruda; a destra la sua casa; a sinistra Ferdinando Camon