Nuovi strumenti per aiutare il lavoro di Tito Boeri

Prodi a caccia di entrate per «salvare» le pensioni F INTERVENTO =1 Nuovi strumenti per aiutare il lavoro LE riforme del mercato del lavoro, si sa, si fanno più nella pratica della contrattazione collettiva e coi regolamenti attuativi che con le leggi. Parallelamente al negoziato sul Welfare - su cui oggi le parti sono impegnate a trarre un primo bilancio - si procede in questi gioni alla stesura dei regolamenti attuativi del «pacchetto Treu». Sono due banchi di prova importanti e dagli esiti fortemente intrecciati. E' auspicabile che le circolari attuative del «pacchetto Treu» offrano un'interpretazione il meno possibile restrittiva dei molti punti lasciati in sospeso dalla legge. Questa ha introdotto misure di liberalizzazione del mercato del lavoro, a dir poco, parziali. L'aspetto forse più innovativo, la liberalizzazione del lavoro interinale, risulta svilito da forti barriere all'entrata delle agenzie che dovrebbero gestire il «lavoro in affitto», il cui operato viene inoltre circoscritto a lavoratori con qualifiche medio-alte, quelli che corrono meno rischi di trovarsi senza lavoro. Perché la liberalizzazione del mercato del lavoro procede da noi più a rilento che in Paesi non meno sindacalizzati del nostro? Il fatto è che ci si muove entro margini ancor più ristretti che altrove. Due recenti inchieste condotte a livello internazionale dall'International Institute for Management Development e dall'International Survey Research, ne sono testimonianza. L'Italia è il Paese europeo in cui una quota più elevata e crescente di (grandi) imprenditori lamenta forti ostacoli ai licenziamenti e - al tempo stesso - si ha la più forte crescita della percentuale di lavoratori che ritiene che il proprio posto di lavoro sia in pericolo. Chi ha ragione: le grandi imprese o i lavoratori? Probabilmente entrambi. Da una parte, la rigidità dei nostri regimi di protezione dell'impiego e una giurisprudenza tradizionalmente ostile all'interruzione dei rapporti di lavoro, non possono più essere elusi scaricando i costi dei licenziamenti sulle casse dello Stato (mediante schemi-ponte che prima o poi sfociano nella «madre di tutti gli esuberi», i prepensionamenti) dato che ora i cordoni della borsa sono tirati. D'altro canto, le imprese possono oggi, a differenza che in passato, attuare licenziamenti collettivi (ma, senza l'assenso del sindacato, questi sono molto onerosi) e sembra esserci un certo ammorbidimento delle posizioni dei giudici del lavoro, ora più favorevoli che in passato ai datori di lavoro in caso di licenziamenti individuali. Di qui il paradosso: crescenti difficoltà a licenziare e crescenti timori circa la sicurezza del proprio posto di lavoro. Una miscela esplosiva che certo non favorisce quell'accordo fra le parti sociali che altrove (come in Olanda) è stata la premessa indiI spensabile delle riforme. Come impedire che la cruna dell'ago entro cui deve passare il tenue filo della liberalizzazione diventi ancora più stretta? I forti ostacoli ai licenziamenti sono l'altra faccia della medaglia di un sistema che non tutela la maggioranza di chi perde il posto di lavoro. Tutela che non può che essere di due tipi: trasferimenti di reddito che permettano a chi perde il lavoro di mettersi fin da subito a cercare un nuovo impiego e servizi che minimizzino il tempo di questa ricerca. Sono funzioni svolte altrove da istituti da noi pressoché inesistenti: sussidi di disoccupazione che coprano tutti coloro che perdono il posto di lavoro e collocamento. E' perciò auspicabile che dal negoziato sul Welfare scaturisca un'intesa sui contenuti di una improrogabile riforma degli ammortizzatori sociali e del collocamento. Il nostro sistema di ammortizzatori sociali è talmente iniquo che è possibile finanziare sussidi non simbolici per tutti i disoccupati in senso stretto riducendo gli oneri sociali obbligatori gravanti su imprese e lavoratori. Certo, per una minoranza, i sussidi non saranno altrettanto generosi che gli attuali trattamenti di Cassa Integrazione o schemi di «mobilità lunga». Tuttavia le parti sociali potranno dotarsi di assicurazioni integrative. Quanto al collocamento, la nostra rete di uffici costa quanto i più estesi servizi pubblici dell'impiego dei Paesi Ocse, ma è di gran lunga meno efficiente di questi. Si può oggi, a differenza che in passato, avere una gestione del personale nelle amministrazioni pubbliche. Ma nessuno è incentivato a farlo. Stimoli ad un miglioramento della qualità del servizio possono venire dalla competizione con servizi di collocamento privati, dal decentramento delle politiche attive e dalla razionalizzazione dei servizi periferici del lavoro. Al centro dovrebbe rimanere poco più della base informativa, il monitoraggio delle politiche attive nonché la promozione e regolazione della competizione fra collocamento pubblico e privato. Se la liberalizzazione del lavoro interinale rompe di fatto il monopolio pubblico del collocamento, siamo infatti ben lontani dall'avere servizi privati di «placement» che possano competere e cooperare con l'operatore pubblico come negli altri Paesi. Senza la riforma del collocamento e degli ammortizzatori sociali, la liberalizzazione del nostro mercato del lavoro non può andare molto lontano. E soprattutto darà pochi frutti sul piano occupazionale. Perché ci si decida ad assumere di più (e non solo a licenziare di più) occorre che i datori di lavoro siano convinti che la strada verso la liberalizzazione è irreversibile, che gli assunti di oggi non dovranno essere per forza iscritti a vita al libro paga. Tito Boeri Università Bocconi eri :coni I Il presidente del Consiglio Romano Prodi

Persone citate: Romano Prodi, Treu

Luoghi citati: Italia, Olanda