Delhi la rivoluzione dei colletti bianchi

Per gli investitori occidentali si è aperto un mercato di 200 milioni di consumatori Per gli investitori occidentali si è aperto un mercato di 200 milioni di consumatori Delhi, la rivoluzione dei colletti bianchi Privatizzazioni e mercato creano la classe media NEW DELHI DAL NOSTRO INVIATO Ieri ho visto l'ultimo elefante nelle strade di Delhi, era spaesato quanto il marziano di Ennio Flaiano. Rugoso, lento, il vecchio bestione aveva le grandi orecchie consumate dal tempo; il suo nome è Papu. Veniva avanti dondolando, le zampe cercavano l'asfalto con insospettabile dolcezza. Il ragazzo che gli stava seduto sulla testa ha detto che a Papu ormai resta poco da campare. Lo ha detto in hindi, e me l'hanno tradotto; deve aver capito anche l'elefante. Ha scosso il capoccione grigio, non c'erano mosche. Papu è alto quanto i vecchi autobus che gli passavano accanto nel viale alberato, ed è vecchio quanto loro. Ma nella nuova India lui è uno che non c'entra. Dalle parti di Connaught Place ora hanno montato un McDonald's con l'hamburger e le patatine, e ha aperto un suo locale anche il colonnello baffuto del Kentucky Fried Chicken. La musica di sala è tedino, si beve Coca e Pepsi; nel -mondo senza frontiere'gli elefanti stanno allo zoo. C'era una volta l'India. ITIndia c'è ancora, ma ha cinquant'anni, e sta facendo la rivoluzione. Un elefante che muore da pensionato vale come gli scapoli che ora trovano il matrimonio con l'Internet. Qui i matrimoni si sono sempre arrangiati, ci badavano le famiglie; e comunque, per i casi più difficili c'erano le pagine domenicali del «Times of India», cinque, sei, anche dieci pagine. Un'istituzione, una garanzia totale. Gli annunci della domenica, come anche l'India, continuano a esserci, sempre con una riga che riporta il guadagno mensile (di lui) o il valore della dote (di lei); anche con la casta, qualche volta. Tutto regolare. Ma, ora, per dare una mano veloce a scegliere è arrivato anche il computer. E se Papu deve morire per forza senza più andare per strade è perché ora le strade non hanno più spazio per le sue zampe lente, ora servono al boom dell'automobile per tutti. La rivoluzione dell'India è questa, che ora è nata la classe media, con i suoi gadgets e le sue manie. Nel nostro mondo noi sappiamo bene che cosa sia la classe media, conosciamo la sua identità, la genesi nei processi sociali, la trasformazione che le mutazioni tecnologiche le hanno imposto. Ma questo di quaggiù è ancora un altro mondo; all'università di Oxford qualcuno che praticava l'understatement ebbe a chiamarlo «un socialismo borghese». L'India che il 14 agosto del '47 Gandhi e Nehru strappavano dai gioielli della corona britannica si disegnava un futuro che doveva portare «la fine della povertà, e dell'ignoranza, e delle epidemie, e della inuguaglianza delle opportunità». Erano le parole che Nehru leggeva all'Assemblea costituente in quel mattino d'agosto di cinquantanni fa, e potevano essere parole prese anche dal «Manifesto» di Marx. S'inserivano però in un progetto istituzionale che accettava le regole della democrazia apprese nei lunghi anni del Raj imperiale. L'equazione che ne derivava portava alla costruzione di un sistema economico mantenuto fortemente sotto il controllo del governo, protezionista, centralizzato, ma anche inevitabilmente burocratico. Per quarantacinque dei suoi cinquantanni, l'India ha tenuto comunque in piedi questo suo compromesso, dove populismo e socialdemocrazia costruivano una macchina di sopravvivenza capace di tenere unito un mondo che una bandiera voleva come una sola nazione ma che in realtà era fatto di venticinque Stati, 15 lingue ufficiali, ottocento lingue locali, 1250 caste e sottocaste, 18 religioni, 870 divinità, un centinaio di maharaja, 300 milioni di poveri, 21 milioni di ultramiliardari, e un esercito di santoni, di guru, di falsi profeti in mutande, di predicatori in borghese e in divisa, di filosofi utili a ogni mutare di stagione. I compagni Stalin e Mao c'erano riusciti, a tenere in pugno un universo; ma s'è detto che era l'Asia. E comunque loro hanno usato i gulag, e i milioni di morti seppelliti senza più memoria. Anche l'India è Asia, e però è una democrazia; senza i gulag. Ora che l'orologio del tempo sta battendo una data storica per lei, questo suo difficile esperimento politico va guardato con ogni rispetto, anche con ammirazione. Tenere insieme un miliardo di uomini sotto una (sufficiente) garanzia della legge e un consenso (sufficientemente) libero è un'impresa che questo millennio in chiusura non può trascurare, o valutare con sufficienza. La crisi finanziaria che tra il '90 e il '91 ha smontato la macchina dell'economia protetta ne ha però svelato anche la vecchiezza, la ruggine. E all'improvviso il mercato è diventato il centro di ogni cura governativa: in pochi mesi si rovesciava un modello consolidato; il mondo di questo continente cambiava. Dice l'economista Arvind N. Das: «Ora c'era un'India da reinventare». In realtà quel mondo - quel «socialismo borghese» - non era stato soltanto un meccanismo economico, era anche il prodotto di una cultura che affonda le proprie radici nell'anima di questo Paese; le sovrastrutture marxiane qui sono anche strutture, formavano una identità, fanno là storia. E la cultura che reggeva l'esperimento, una cultura nella quale il socialismo fabiano si avvolgeva nei panni del misticismo indiano, e del suo millenario sistema di caste e di divisioni sociali, aveva portato alla costruzione di un'economia dove i lavoratori impiegati in imprese con più di 10 dipendenti sono appena 4 milioni (se si aggiungono anche i 2 milioni e mezzo di lavoratori delle imprese pubbliche, non si supera comunque il 5 per cento della popolazione attiva). Dice Arvind N. Das: «Lo hanno chiamato "tasso di sviluppo indiano", per caratterizzarne la lentezza del trend di crescita». L'India era insomma il Paese della mediocrità economica dif¬ fusa. E il suo simbolo è lo scooter: ne vanno in giro per città e villaggi più di 20 milioni, forse quanti se ne possono trovare in tutto il resto del mondo messo assieme. E lo scooter - le «Api» a tre ruote, con il tettuccio di lamiera - aveva anche sostituito i vecchi riksho a pedali, come taxi per chi ha poche rupie da spendere. Non c'era una classe media, almeno nel senso di una quota della società, ampia, omogenea, capace d'intervenire direttamente sul mercato, condizionandolo; la sola «classe media» rintracciabile erano i dipendenti pubblici, con i loro privilegi e le loro mance sottomano (ma spesso con le ciabatte ai piedi), e poi la casta dei commercianti, che però è una casta di bassa classifica perché il money-maker, il trafficone, nella cultura indiana sta, stava, al margine della società. Ora l'apertura del mercato, la privatizzazione dell'economia, i forti investimenti di capitali stranieri, hanno creato in pochi anni questa nuova classe di consumatori specializzati. La vecchia cultura del pauperismo è stata rovesciata, contano i nuovi modelli dell'Occidente postmoderno, la plastica, i computer, l'elettronica, i video, le auto ricche di optional, i cellulari. Qui gli status symbol hanno un potere di trasferimento d'identità che travolge ogni precedente forma di appartenenza, anche la più antica, la più radicata. Il «beeper», il cercapersone, che era stato immaginato come un ottimo investimento per un Paese immenso e con un sistema telefonico antidiluviano, si è rivelato un fallimento: ci sono compagnie che hanno speso centinaia di milioni ma non hanno nemmeno un abbonato al servizio, soltanto perché il «beeper» appare, rispetto al telefono cellulare, come una scelta di ripiego, una roba da poveracci. Lo stacco è stato drammatico. Mi dice il prof. P. V. Shenoy, che dirige l'Istituto di studi dei cambiamenti economici e sociali: «La natura composita dello Stato postcoloniale si va frantumando; ora c'è una quota di forse 100 milioni, forse 200 milioni di persone, che mostra una dinamica sociale di forte ascesa, in qualche modo indipendente dal resto della popolazione indiana, che ò ancora divisibile in due quote, una di 500 milioni di persone, quelli della mediocrità economica diffusa, e l'altra di 300 milioni, i poveri con nessuna reale capacità d'acquisto». Un mercato di 100, o forse 200, milioni di consumatori voraci è un richiamo molto forte, per gl'investitori stranieri. Eppure prevale ancora la vecchia immagine dell'India: a fronte dei 3 miliardi di dollari arrivati qui lo scorso anno, la Cina ne ha acchiappati 28. Vuol dire che le rivoluzioni cambiano le società, ma gl'indicatori di lettura conservano una capacità di resistenza culturale molto alta anche nell'universo velocizzato della comunicazione elettronica. Forse Papu nemmeno lo saprà mai, dal suo cimitero degli elefanti in pensione; ma nell'India in transizione, questa maniera di guardare il mondo anche conforta. Mimmo Candito (3 - Continua) Cominciano ad affluire i capitali (tre miliardi di dollari) ma i 28 miliardi della Cina sono un obiettivo lontano La crisi finanziaria ha smontato la macchina dell'economia protetta Un'immagine di Bombay, e sotto Narayanam Mao Tse-Tung non è più un punto di riferimento per la classe politica indiana Il «Pandit» (saggio) Nehru •padre fondatore dell'India