«Riforme subito o usciamo dal mercato»

«Bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo su Welfare, flessibilità e competitività» «Bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo su Welfare, flessibilità e competitività» «Riforme subito, o usciamo dal mercato» Tronchetti Provera: Maastricht non sarà un toccasana INTERVISTA LMILANO E opzioni possibili sono tre: riforme, riforme, riforme». No, Marco Tronchetti Provera non appartiene sicuramente a quello che il governatore della Banca d'Italia Fazio de* finisce in questi giorni il «partito dei soddisfatti», di quelli che ritengono l'Italia un Paese ormai fuori dal guado, quindi affrancato dall'esigenza di cambiamenti strutturali. Il presidente della Pirelli, oggi, riconosce che il Paese ha vissuto grandi trasformazioni e che il governo Prodi, dopo una prima fase di assestamento, è riuscito a fare importanti passi avanti. «Ma adesso - dice Tronchetti Provera - come sostiene Fazio bisogna andare fino in fondo sui tre grandi filoni del riformismo: lo Stato sociale, la flessibilità, la competitività. Se non fa questo l'Italia è fuori dal mercato globale». Dottor Tronchetti, anche lei ammette che il quadro è cambiato rispetto ad un anno fa. Diciamo che voi industriali avete forse sottovalutato le capacità di questa maggioranza: lei stesso, tre mesi fa, disse che non era capace di generare un progetto, e di portarci in Europa. «Il prpblema del governo non è mai stato di capacità. Gli uomini di qualità, in questa coalizione, ci sono eccome. Come riconosce anche il governatore, poi, di passi avanti consistenti nel risanamento delle finanze pubbliche ne sono stati fatti. C'è stato certo un eccessivo ricorso alle maggiori entrate, e poco invece è stato fatto per contenere la spesa pubblica, ma i risultati ci sono, è innegabile» Ma voi industriali fino a qualche mese fa lo negava ^escludevate la pos ita. Oggi che cosa è nato? SfacWfàtóoriin terni ed esterni. Sul piano interno sicuramente è stato un merito di Prodi l'aver aperto già quest'anno il tavolo di trattativa sulla riforma del Welfare State, un successo che non era alle viste qualche mese fa, perché sembravano mancarne le condizioni politiche. Sul piano esterno, mentre noi accrescevamo con questi passi avanti la nostra credibilità, sono emersi nuovi fatti che hanno invece indebolito o appannato quella dei nostri partner. Penso soprattutto ai problemi della Francia, che oggi mi pare il Paese che, sia per finanza pubblica sia per scarsa competitività e vischiosità del sistema sociale, è più iji sofferenza. Aggiungerei anche che, ad aiutarci, c'è stato l'avvicinamento de- f;li inglesi al'Europa; la Gran Bretagna può rappresentare un grande apporto culturale all'integrazione del Vecchio Continente, mi auguro davvero che Blair riesca ad aderire alla Moneta unica fin dall'inizio». L'Italia, a questo punto, quell'obiettivo lo ha quasi raggiunto o no? «Le nostre possibilità sono fortemente aumentate. Ma per poterci considerare al sicuro e per poter dare credibilità e sostenibilità al risanamento, occorre trasformare in misure strutturali e definitive quelle contingenti varate in questi mesi. Se fa questo, il governo avrà il merito di aver portato stabilmente il Paese in Europa, se non lo fa si assumerà la responsabilità delle conseguenze. Mi auguro che in autunno si vedano segnali chiari di una ferma volontà politica in questa direzione». Altro dilemma: fatto il risanamento, entrati nell'Euro, avremo anche lo sviluppo, l'occupazione? «Ecco il punto che, oggi, mi sta a cuore sottolineare. Maastricht è per noi e per l'Europa un imperativo categorico, da raggiungere a tutti i costi, ma stiamo at¬ tgnp tenti a non caricarlo di troppi significati salvifici. L'Unióne monetaria è solo il primo passo, la pre-condizione per poter rilanciare questo continente, che in questi ultimi anni è diventato sempre più povero e che, se adesso non si muove, è destinato a una decadenza ineluttabile». Eppure Ciampi sostiene... «Guardi, qui i fatti sono chiari. L'Europa ha un enorme problema di competitività, e la moneta unica non ne garantisce la soluzione automatica. Di questo problema di competitività sono la prova i dati sulla crescita, sull'occupazione, sulla quota di commercio mondiale. Per questo servono le riforme strutturali, per questo io vedo l'esigenza di una triade inscindibile tra nuovo Welfare State, flessibilità e competitività». La cosa non riguarda solo noi, evidentemente. La stessa Germania viene considerata un Paese rigido sul piano della pubblica amministrazione e del mercato del lavoro... «L'ho detto, il problema investe tutta l'Europa continentale. Ma direi soprattutto l'Italia e la Francia, accomunate da una forte presenza dello Stato nell'economia. Quanto alla Germania stiamo attenti, lì le cose stanno cambiando». In che modo? «Beh, in Germania è in atto un vasto processo di recupero di competitività, in termini di intensità di capitale investito, di investimenti nella ricerca. Su questo i tedeschi, de¬ purando il fattore Est, restano leader in Europa. Negli ultimi tre anni e mezzo il costo del lavoro per unità di prodotto in Germania, che era cresciuto quasi del 5% alla fine del '95, il picco più alto in Europa insieme alla Francia, è stato abbattuto drasticamente nel '96, e soprattutto in questa prima metà del '97. La stessa cosa è avvenuta in Giappone, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna, gli unici grandi Paesi ad aver capito, insieme all'Olanda, il vantaggio della flessibilità, hanno avuto una curva di costo del lavoro per unità di prodotto costante e a bassissimi livelli». E l'Italia? «L'Italia purtroppo, mentre gli altri riducono, evidenzia una preoccupante tendenza alla crescita del costo del lavoro. E que¬ sto è quasi paradossale...». Perché paradossale? «Perché è la dimostrazione più lampante delle contraddizioni del nostro Paese, che è per sua natura, sul piano dell'impulso individuale, il più flessibile del mondo, in termini di voglia di fare, di creatività e vitalità imprenditoriale. Ma è anche il più restìo, sul piano generale, ad aprirsi ai cambiamenti. Ed è un guaio, perché nel mercato globale, in cui non è più necessariamente il grande che mangia il piccolo, ma il più veloce che vince sul più lento, noi saremmo avvantaggiati proprio dalla nostra dimensione d'impresa». Da cosa dipende questo scarto tra la voglia di fare dei singoli e la rigidità dell'insieme? «Io vedo due fattori critici, pe¬ raltro collegati tra loro. Il primo è una presenza abnorme dello Stato nelle strutture della società e dell'economia. Il secondo, di natura politico-culturale, è l'effetto del primo: l'Italia è un Paese nel quale la sinistra radicale ha esercitato, e continua a esercitare in qualche misura, un condizionamento molto forte: questo è il Paese che ha avuto per trent'anni il partito comunista più forte in Europa, e ha sedimentato una memoria storica, una cultura difficile da scardinare oggi. Il risultato è che la sinistra, anche quella riformista che oggi è maggioritaria, non riesce a superare una contraddizione di fondo». Quale? «Quella che riguarda la globalizzazione. Per anni e anni e ancora oggi la sinistra ha vissuto la globalizzazione come una minaccia, una negatività da combattere. La stessa sinistra, internazionalista e terzomondista, che lottava e lotta per affrancare dal bisogno i deboli del pianeta, per far entrare nel mondo dei diritti e riscattare chi ne era fuori, oggi non riesce a darsi risposte a questo problema». Beh, non è che la globalizzazione, almeno finora, abbia dato risposte definitive... «No? Ma cos'è la globalizzazione che la sinistra ha rifiutato e di cui continua ad avere paura? E' quel fenomeno che ha consentito ad almeno 2 miliardi di persone, prima povere e diseredate, di entrare in qualche modo nel grande gioco della redistribuzione della ricchezza mondiale. Ecco la contraddizione della sinistra, che non capisce o ha paura di questo, che teme di rimettere in gioco se stessa, le sue certezze, le garanzie e il sistema di vincoli che da tutto questo sono discesi». Dottor Tronchetti, fuori dai denti, quando un industriale fa questi discorsi si pensa subito: ecco come vestire di nobiltà un interesse di bottega, quello di poter abbattere lo Stato sociale e poter licenziare come e quando si vuole. E' così o no? «Sì, questa reazione è tipica del modo in cui si discutono i problemi in Italia. Ma è una reazione sbagliata, che parte da un assunto sbagliato. Qui nessuno vuole abbattere niente: l'Olanda il suo Stato sociale lo ha rifondato per renderlo più equo ed efficiente. La stessa cosa dobbiamo fare noi. La Gran Bretagna il mercato del lavoro lo ha snellito e velocizzato, non ha creato la giungla o il Far West per i lavoratori. La stessa cosa dovremmo fare noi, impegnandoci peraltro, finalmente, in un programma vero di privatizzazioni e liberalizzazioni: finora non ne abbiamo fatte, io ho visto più che altro un po' di collocamenti, ma niente di più. E questa non è la modernizzazione di cui c'è bisogno». Ma secondo lei, al di là della polemica spicciola sul Tfr o sui licenziamenti, questa classe politica è in grado di sostenere una sfida del genere? «Non lo so. So solo che il governo di centro-sinistra, che ha ancora all'interno della sua maggioranza alcune contraddizioni di fondo, ha anche di fronte a sé un'opportunità storica da cogliere. Si tratta di invertire uno stato d'animo, che oggi è diffuso nell'opinione pubblica». Quale stato d'animo? «Quello che riguarda le future generazioni. Oggi, forse per la prima volta dal dopoguerra, i padri sono convinti che lasceranno ai propri figli un mondo peggiore, e che i propri figli vivranno con più problemi, più rischi, più incertezze...». Non mi pare uno stato d'animo sbagliato, vista la situazione e l'eredità effettiva che lasciamo a questi figli- «Infatti non lo è. Ma proprio per questo occorre il cambiamento. Proprio per questo occorre trasformare quei rischi, quelle incertezze in altrettante opportunità, con un sistema di formazione e di scolarizzazione profondamente rinnovato, con un mercato del lavoro più snello, con un sistema di protezione sociale meno costoso e più utile a chi ha più bisogno. Questo vuol dire essere flessibili, questo assicura competitività». Dottor Tronchetti, lo vada a dire al giovane disoccupato del Sud, che si sveglia ogni mattina e non sa dove sbattere la testa. Qui c'è bisogno di fatti, cioè di infrastrutture, di investimenti. E chi li paga? «Ha ragione, capisco che al giovane meridionale senza lavoro non possiamo raccontare la favoletta della competitività, come fosse una soluzione miracolistica e di breve termine. Ma il sistema è quello: certo, ci vogliono tempo, soldi e progetti, questo è evidente. Ma intanto, per favore, non-illudiamo il Sud del paese con la chinjeig: dell'assistenza, con i 100 mila posti nei lavori socialmente utili!». Meglio che niente, potrebbe risponderle sempre il giovane disoccupato... «Ma via, al Sud garantiamo un presidio serio dello Stato sul territorio, assicuriamo la vivibilità sociale, e vedrà che gli investimenti arrivano. Ci sono precedenti esemplari: anche il Galles o l'Irlanda avevano condizioni ambientali quasi peggiori delle nostre: ma lì lo Stato si è fatto vedere e sentire, e le imprese sono arrivate. La stessa cosa è avvenuta in quello Stato privo di prospettive che era la South Carolina, dove oggi invece sono arrivati anche gli investitori coreani. In fondo, anche il nostro mitico Nord-Est nel dopoguerra era un'area depressa, anche al Centro c'erano condizioni di vita quasi proibitive, mentre oggi ci sono regioni come le Marche che danno lavoro ed esportano in tutto il mondo». Dottor Tronchetti, le rinnovo la domanda: questa classe politica ci può portare a questi risultati o no? «Lo vedremo presto, nei prossimi mesi, lo vedremo in autunno. Sa, alla fine i nodi veri vengono sempre al pettine, non possiamo eluderli: abbiamo un debito pubblico che è quello che è, abbiamo un debito previdenziale sommerso che è quello che è, un mercato del lavoro che non crea opportunità ma erige solo muri per chi deve ancora entrarci. Se non vogliamo buttare al vento quel po' di credibilità che abbiamo recuperato, questi problemi dovremo risolverli, e molto presto». Ma lei è ottimista o no? «Mi sforzo di esserlo, altrimenti non farei l'imprenditore. Le cose, come ho detto, sono migliorate, e dobbiamo darne atto al governo. Ma ancora c'è molto da fare. Spero quindi che la classe politica non rinunci a scommettere sul cambiamento. Se questo accadesse, l'Italia sarebbe definitivamente fuori gioco. Mi auguro di tutto cuore che non accada». Massimo Giannini i 6 In Italia la sinistra radicale esercita un condizionamento molto forte: e questo limita la capacità innovatrice dell'Ulivo La globalizzazione fa ancora paura j ij Noi siamo il Paese più flessibile del mondo sul piano della voglia di fare e della creatività Eppure nessuno sembra disposto ad accettare un sistema più snello e meno protettivo ll i Nel governo ci sono uomini di qualità ma lo Stato continua ad avere una presenza abnorme nella società e nell'economia E il costo del lavoro continua a salire... J p 6 In Italia la sinistra dicale esercita condizionamento lto forte: e questo ita la capacità ovatrice dell'Ulivo globalizzazione ancora paura j ij Noi siamo il Paese più flessibile del mondsul piano della voglia di fare e della creativitEppure nessuno sembrdisposto ad accettare un sistema più snello e meno protettivo EL PRESIDENTE DILLA PIRELLI Accanto Marco Tronchetti Provera e a destra il premier Romano Prod Nella foto qui sotto il governatore di Bankitalia Antonio Fazio

Persone citate: Antonio Fazio, Ciampi, Marco Tronchetti Provera, Massimo Giannini, Prodi, Tronchetti Provera