Il mistero dei due fratelli che ignorarono quei soldi di Fra. Gii.

Il mistero dei due fratelli che ignorarono quei soldi Il mistero dei due fratelli che ignorarono quei soldi Lm ROMA m INDICAZIONE che viene dalla Svizzera è quantomai scarna: Giuseppe e Franco Mortara, Bologna, Italia. Titolari di un conto «dormiente» da oltre cinquanta anni in qualche banca di Lugano. Chi erano, i fratelli Mortara? Quale brandello drammatico di storia torna alla luce dietro questi due nomi? E perché non cercarono di rientrare in possesso dei loro soldi per cinquant'aimi? O forse ci provarono invano? Domande che difficilmente avranno una risposta. «Ma io mi ricordo bene di Pino Mortara», esordisce la signora Finzi, presidente della comunità ebraica di Bologna. Mentre ne parla, al telefono, si sente che la signora Finzi sfoglia il Libro della memoria, l'agghiacciante documento di una tragedia. «Giuseppe Mortara fu deportato, ma tornò dal campo di concentramento. Aveva il numero tatuato sul braccio. Però non volle mai parlare dei suoi drammi. E' morto qualche anno fa». E allora eccola, in pillole, volutamente asettica perché l'Olocausto non ha bisogno di aggettivi, la storia di Giuseppe Mortara, detto Pino, primo di tre fratelli emiliani di religione ebraica. Era nato a Bologna nel 1903. Figlio di Enea Mortara e Amelia Fiorentino, commerciante o meglio industriale di pellami. Arrestato il 10 ottobre 1944 assieme a suo fratello Corrado dalla polizia fascista. Imprigionati a Imola, poi a Bologna, infine a Bolzano. Quindici giorni dopo l'arresto erano già ad Auschwitz. Pino fu marchiato con il numero di matricola «B-13727». Giuseppe sopravvisse all'inferno. Potè tornare a casa dove riprese faticosamente a vivere. Si sposò. Condusse sempre una vita molto appartata. Per un periodo fu anche consigliere della comunità di Bologna. Suo fratello Corrado, invece, più giovane, nato nel 1911, è morto nel lager di Bergen-Belsen il 30 aprile 1945. Mancava un soffio alla fine della guerra. C'era poi un terzo fratello, Franco, il secondo cointestatario del conto in Svizzera, medico. Giovanissimo, scappò dall'Italia nel 1938 per andare in America. E non volle saperne più nulla dell'Italia. Dopo la guerra andò a vivere in Svizzera, lì si sposò e forse la sua vedova vive ancora tra le Alpi. «Ricordo Franco, mio cugino, molto alla lontana: - dice Luisella Mortara, direttrice del centro di documentazione ebraica di Milano - lo incontrai molto tempo dopo la guerra. Era un bravo medico che però conduceva una vita grama». Il patriarca Enea, dice ancora Luisella Mortara, «non ha lasciato grandi tracce nel nostro lessico famigliare». Eppure fu lui, molto probabilmente, alla fine degli Anni Trenta, a far aprire il conto in Svizzera. Altrimenti non si spiega perché mai i due fratelli non si faranno mai più vivi con la banca svizzera. L'unica spiegazione di questo mistero resta che fu il padre ad aprire il conto, intestandolo ai figli, ma a loro insaputa. E non riuscì a parlarne in famiglia. «Pensiamo che sia andata così. Ne abbiamo parlato a pranzo, tra cugini. Ma nessuno di noi si riesce a capacitare che il vecchio Enea, in quegli anni, sapesse come aprire un conto in Svizzera». Erano una famiglia serena, i Mortara, su cui si abbatté la tragedia delle leggi razziali. Ma nei suoi cromosomi portava ancora i segni di una tragedia di quasi cento anni prima, oggi dimenticata. Portavano un cognome che è l'emblema dell'antisemitismo italiano. Edgardo Mortara, cugino dei tre fratelli, era un bambino ebreo che l'Inquisizione nel 1858 rapì alla famiglia, convertì forzatamente al cattolicesimo e trasformò in sacerdote. Lo racconta bene Daniele Scalise, in un recente libro (Il caso-Mortara, Mondadori). Fu un enorme scandalo che segnò il crepuscolo dello Stato pontificio. Ebbene, Edgardo Mortara, rapito a Bologna dalla polizia per ordine dell'ultimo Inquisitore, padre Pier Ferdinando Feletti, aveva 7 tra fratelli e sorelle. Ognuno di loro diede vita a una discendenza. Un ramo porta ai fratelli Giuseppe, Corrado e Franco. [fra. gii.]