«Su quel conto mio padre preferì sempre il silenzio» di Maurizio Molinari

«Su quel conto mio padre preferì sempre il silenzio» «Su quel conto mio padre preferì sempre il silenzio» FROMA RA i nomi di titolari di conti in Svizzera resi noti dalle banche elvetiche, circa 80 sono indicati come «italiani» e fra questi dieci come «romani». E' a questo punto che l'ufficio anagrafico della Comunità ebraica di Roma si è messo ieri a lavorare per dare un'identità a quei nomi. Il compito è toccato alla signora Gemma, veterana degli uffici della comunità al terzo piano della Smagoga, che, consultando il computer e i vecchi libri anagrafici redatti in occasione delle leggi razziali del 1938, ha spulciato nella memoria della comunità. Esclusi i tedeschi di Skoeld e Staheli, assenti quelli di Filacci e Bossard, messa da parte l'anonima società «Carter Co.», il cerclùo per la signora Gemma si restringe: restano Foà, Madera, Montel, Sabatùio e Moreno. Computer e registri tacciono fino a quando non viene digitato «Moreno Daniele». «Trovato!» dice Gemma e legge i dati: «Nato a Tunisi il 5 aprile del 1902, morto a Roma il 10 febbraio 1995, sposato con Chiara Sacerdoti, anch'essa deceduta. Figli: Valeria Moreno, residente a Roma». Valeria Moreno riceve la notizia quando torna a casa, verso mezzogiorno. Squilla il telefono. E' il presidente della Comunità ebraica di Roma, Sandro di Castro. Le offre «ogni disponibilità» e concorda un incontro. Per Valeria Moreno diventa una giornata diversa: 57 anni con un figlio, in pensione da un anno, attiva in gioventù nel gruppo ebraico «Hakeilà», inizia a ricostruire la vita del padre. «Daniele Moreno era un ebreo osservante ma non bigotto, italiano nato a Tunisi, di origine sefardita livornese. Fu perseguitato due volte: come ebreo durante l'occupazione tedesca, come italiano quando tornarono i francesi, che lo trattarono come un nemico». I francesi espulsero la famiglia Moreno che, nel 1946, dovette lasciare la casa in rue d'Angleterre. Daniele Moreno dovette rifarsi una vita, insieme alla sua famiglia, grazie alla professione di ingegnere. Ma l'arrivo in Italia, dove fra il 1925 ed il 1927 aveva servito come ufficiale del genio nella guarnigione di Monte Mario a Roma, non fu facile: la famiglia della moglie Chiara, di origini ferraresi, era stata decimata dalle deportazioni. Ma del conto avete mai saputo qualcosa? «Mio padre era molto riservato, non mi sorprenderebbe se non ne avesse mai parlato. Comunque, né io né mio fratello Raffaello ne abbiamo mai saputo nulla, forse la verità la sa solo mio zio, novantenne che vive ancora a Tunisi». Così, a fine pomeriggio, Valeria Moreno lo chiama. L'anziano zio, parla con voce debole, «non esclude» che quel conto possa essere del fratello. «Potrebbero esserci rimasti degli spiccioli, il resto dell'eredità del nonno Moisè Ugo, chissà», dice alla nipote. «Queste cose mi fanno soffrire - continua Valeria - mi fanno ricordare la doppia persecuzione, come ebrei e come italiani - e la ricerca difficile, costante di una sicurezza che continuava a sfuggirci». Sarebbe dunque stato il nonno Moisè Ugo Moreno ad aprire, negli anni bui della guerra, forse alla vigilia dell'arrivo dei tedeschi a Tunisi, il conto ora ritrovato, mtestandolo al figlio più grande. «Noi ebrei avevamo il problema di garantirci per que- sto forse nonno Ugo fece questa scelta». Poi Valeria si alza, passa davanti al quadro di un amico di suo zio, David Jounesse, che ritrae un anziano rabbino e, indicando alcune fotografie del padre, parla delle banche svizzere: «Chissà perché hanno aspettato tanto a parlare, chissà forse aspettavano che scomparissero, dopo i titolari dei conti, anche i loro eredi». Ma il silenzio del padre sul conto svizzero fa sorgere anche il dùbbio di un caso di omonimia. Saranno i legali a compiere i prossimi passi. Forse Valeria Moreno dovrà andare in Svizzera. Tornando sulle tracce di Moisè Ugo Moreno, ebreo sefardita, livornese di Tunisi e geniere del Regno, alla caparbia ricerca della sicurezza in una Diaspora che sentiva sempre più minacciosa. Maurizio Molinari