RAPPORTO SUI GIOVANI di Franco Garelli

ANTICHITÀ' ANTICHITÀ' di Sandro Doma NEL catalogo di una libreria antiquaria torinese veniva offerto Vogliamo vivere, lettera al legionario Alceste De Ambris, candidato alle elezioni del 1921 a Parma. Questa edizione dannunziana del 1921, stampata in soli 100 esemplari numerati (Benedetti e Niccolai, Pescia), riproduce in facsimile la calligrafìa di D'Annunzio ed è ornata da 8 xilografìe di Lorenzo Viani. A prima vista l'incontro di questi personaggi sembra per lo meno curioso. Ma i tre sono saldamente uniti dal De Ambris, vecchio compagno di Viani nelle lotte sindacali di Versilia, poi Capo del Gabinetto di D'Annunzio durante l'occupazione di Fiume. Nonostante l'appoggio del «Vate», De Ambris non sarà eletto ed espatrierà in Francia per combattere il fascismo. Viani, divenuto collaboratore del Popolo d'Italia, si avvicinerà sempre più a Mussolini, mentre D'Annunzio si autocelebrerà nel Vittoriale. Il prezzo richiesto, due milioni e ottocentomila lire. Autobiografie» in casa Nervi, Cornencini, Rondolino e Ammaniti L papà esce da casa molto imbarazzato con il fez in mano. E' nervoso perché detesta quel ridicolo copricapo, obbligatorio nelle pubbliche adunate fasciste. Prima di chiudersi la porta alle spalle inveisce senza motivo con il bambino più piccolo. Quando rientra è ancor più inferocito. Non riesce a sfilarsi gli stivaloni neri. Chiama il figlio, gli fa tenere lo stivale. Tira da una parte, tira dall'altra, il Piccolino vola a gambe all'aria con la luccicante calzatura in mano. Gli altri fratelli ridono e fanno le boccacce. Il padre, che ancora una volta è riuscito a dimostrare la goffaggine del più piccino, gela la vittima con sguardo accusatore. Maledetto genitore. La più segreta natura dell'ingegner Pier Luigi Nervi trapela oltre l'apparenza elegante e garbata: così lo descrive il figlio Vittorio in una tragica testimonianza, La vela rossa (Trauben, pp. 200, L. 35.000). Nervi, ideatore di ardite strutture come il Palazzo dell'Unesco a Parigi e il grattacielo Pirelli a Milano, creatore della sede per il XXXI Salone Internazionale dell'Automobile a Torino nel 1948, solerte e affettuosa guida dei suoi operai, tra le pareti domestiche, nel ricordo di tutti e quattro i figli, era un vero tiranno. «Mio padre era Giove, che dispensa la luce e scaglia i fulmini della sua terrificante ira». Quella che l'ingegnere esercita sui figli non è solo una rigida educazione di altri tempi, è un tentativo di «forgiare» i suoi ragazzi attraverso violenze psicologiche e scatti di rabbia. Ma cosa induceva il gran signore della moderna architettura all'esercizio così severo della propria autorità? Il segreto del comportamento di Nervi è forse racchiuso nella sua stessa genialità: nella convinzione - spiega il figlio che dopo molte resistenze si muoverà sulle orme del padre lavorando con lui come architetto - di essere custode di un «originalissimo e sublime concetto estetico», e dunque dell'esigenza di «modellare» i figli a propria immagine, di trasmettere loro il proprio senso del dovere per portarli alla ricerca continua della perfezione. «Con punte però di invidia per la nostra esuberanza giovanile». Non tutti i genitori, illustri o geniali, fortunatamente, sono assillanti e un po' sadici come Nervi. Di tutt'altro segno, per esempio, la biografia di Vincenzo Caglioti, scritta dal figlio scienziato Luciano, Il camminante (appena pubblicata da Gangemi). Si tratta di un inno alla paternità esercitata dal nume tutelare della chimica italiana, nato nel 1902 e tra i creatori con Felice Ippolito e Edoardo Arnaldi del Comitato nazionale per l'energia nucleare. In ogni caso, sono storie d'altri tempi: come si sviluppa ai nostri giorni il rapporto tra genitori, intellettuali od artisti, e relativa progenie che ha imboccato la strada del successo? In che modo noti papà trasmettono la propria esperienza? «Nessuna punizione e violenza», questa è stata la parola d'ordine di casa Comencini, dove il regista Luigi ha sempre pensato «di esercitare l'autorità quasi senza sapere di possederla, lasciando la massima libertà. Non ho avuto dogmi da im¬ partire né sul piano artistico né su quello del comportamento. L'unica regola che mi stava a cuore, non è ovvio ricordarlo, è stata l'onestà». Eppure un «carisma», un «potere» molto forte emanava dalla figura del padre: «Non ha mai avuto alcun rapporto didattico con noi - osserva la figlia Cristina, regista e scrittrice -. Eppure ci ha insegnato molte cose. Ai miei occhi incarnava una legge "positiva". Anche con un lavoro impegnativo come il suo riusciva ad essere spesso presente. I suoi limiti? E' stato troppo silenzioso poiché per carattere è una persona che s'affida più ai fatti che alle parole, delle quali, però, a volte si sente molto la necessità». Taciturno nelle vesti di capofamiglia anche il critico cinematografico Gianni Rondolino, genitore di Fabrizio, che ha esordito di recente in campo romanzesco con Un così bel posto (Rizzoli). Ma nonostante il riserbo, al neoscrittore nonché portavoce di Massimo D'Alema, lo studioso del cinema ha trasmesso le sue passioni. «Avrei preferito che mio padre fosse un po' più meridionale come temperamento, che si fosse liberato del suo autocontrollo nordico e sabaudo - dice Fabrizio Rondolino -. Ma sapeva comunicarmi quello che si doveva fare e quello che non si doveva anche attraverso i silenzi, oppure parlando di musica, di romanzi o di politica». «Nel nostro nucleo familiare commenta Rondolino senior - non erano pensabili la violenza fisica o psicologica. Ma c'è sempre stato un ordine, un assetto da rispettare. Forse è valso di più l'esempio familiare di qualsiasi imposizione. In questo equilibrio mio figlio ha sempre avuto un'ampia autonomia». Apparentemente in tempi moderni tutto dunque fila liscio. Sono scomparsi gli attriti, le nevrosi con cui hanno lottato per decenni le generazioni? Il fuoco cova sotto l'apparente armonia: è l'opinione dello psicoanalista Massimo Ammaniti e padre dello scrittore Niccolò. «Se in passato il padre aveva il compito di riportare nella famiglia quelle stesse leggi che all'esterno organizzavano il contesto sociale, oggi questa sua funzione è scomparsa - osserva lo studioso di legami familiari di cui uscirà a settembre da Mondadori il saggio Crescere con i figli -. Un tempo la figura del padre appariva onnipotente e associata a sentimenti di competitività, tanto più forti quanto più il genitore aveva anche una notorietà pubblica. L'ambivalenza di questo rapporto, dovuta all'alternanza di ammirazione e di rancore, favoriva le nevrosi. Oggi le regole non sono più così rigide e, nella situazione ottimale, genitori e figli si incontrano come in un ballo di famiglia, dove ogni volta si ricostituisce il ritmo. Il rischio attuale è che la figura del padre non si distingua da quella della madre. Nella versione peggiore, invece, i padri sono totalmente marginali o assenti. Personalmente sono stato un genitore poco severo. L'unico terreno su cui ero esigente è stato quello scolastico. Non è un caso che i miei figli non si siano mai laureati: è la scelta di un loro autonomo percorso di differenziazione dall'autorità del padre». Mirella Serri SPAGNA: MADRI E FIGLIE SECONDO ALMUDENA E LE ALTRE MADRI E FIGLIE A cura di Laura Freixas Passigli pp. 249 L 28.000 MADRI E FIGLIE A cura di Laura Freixas Passigli pp. 249 L 28.000 ADRI e fighe. Ovvero, un gorgo di passioni e sentimenti difficlmente definibile, comprensibile, districabile. Madri cattive o semplicemente assenti, madri troppo permissive e apprensive, madri eleganti e bellissime da cui non è possibile affrancarsi, madri meravigliosamente comprensive e presenti, oppure egoiste e dispotiche affrontano tutti i giorni figlie ingrate e viziate, figlie prive di personalità o con troppo cervello, figlie sbadate e pasticcione, fighe infantili e cieche. La lotta è dura, da qualunque parte della barricata la si viva. E' anche una lotta che non ha né vinti né vincitori, in cui le parti si ritirano, alla fine di una strenua giornata di battaglia, a leccarsi le ferite in un angolo, il più delle volte senza aver risolto un bel niente. Passigli, nella persona della curatrice Laura Freixas, ha provato a fare scrivere appositamente sullo spinoso argomento Madri e Figlie alcune scrittrici spagnole. La sua convinzione è che la letteratura non si sia sufficientemente occupata della diade benefico-malefica e, proprio per questo, ha pensato bene di d p qporvi rimedio. l è pIl risultato è un'antologia disomogenea e non sempre interessante che raccoglie quattordici racconti di altrettante scrittrici, più o meno note in Italia, tra cui spiccano Carmen Martin Gaite e Almudena Grandas, quest'ultima con il toccante La buona figlia già letto in Modelli di donna, recentemente edito da Guanda. Il filo rosso che sottende a tutta la raccolta può essere tuttavia ravvisato in un grande, meraviglioso equivoco, in cui le aspettative nei confronti dell'altra (madre o figlia che sia) nulla hanno a che ve¬ dere con la vera natura di chi ci sta davanti e sfociano, nei casi migliori, in inevitabili delusioni attutite dalla ragione: ne è prova Mia madre alla finestra di Luisa Castro, classe 1966, che riesce a trovare una ragione autoconsolatoria nel fatto che la madre del racconto non intervenga mai quando la figlia ha bisogno di lei. Per contro, solo ad una certa età e solo se si è molto fortunate, si riesce (lo dimostra Esther Tusquets, classe 1936, con Lettera alla madre) a provare un senso di pace perfetta, di assoluto disinteresse nei confronti di quello che non si è avuto e a guardare la propria madre come fosse un'estranea, nonostante in gioventù sia stata «tanto alta, e tanto bionda, e tanto bianca» e non avesse imparato «nemmeno a cuocere una bistecca o lessare delle verdure». E se Martin Gaite descrive lo sguardo liquido e distante di tutte le donne, specie se madri, quando si avvicinano ad una finestra e Carmen Laforet si sofferma sul costante senso di stanchezza che comporta l'essere madre quando invece, molto più realisticamente, vorrebbe essere lei la bambina che viene accompagnata a scuola, l'esule volontaria in Spagna Cristina Peri Rossi [Primo Amore) cova il bizzarro desiderio di sposare la propria madre e, senza tema di sfociare nel ridicolo, conclude pomposamente il suo racconto - negando ben altri sentimenti - sostenendo che «agli effetti dell'amore, il sesso di coloro che si amano non ha nessuna importanza». E dal momento che si ha l'impressione che ci sarebbe molto di più e molto di peggio da raccontare se solo si avesse il coraggio di farlo con il dovuto distacco, smettendola di prenderla troppo sul personale facendo però fìnta che personale non sia, viene da commentare che forse, alle scrittrici moderne, quando parlano della propria madre, manca ancora la distante lucidità degli uomini. Chiara Simonetti RAPPORTO SUI GIOVANI L'indagine lard sull'Italia GIOVANI E GENERAZIONI a cura di P. Donati I. Colozzi // Mulino pp. 33Ò L. 3S.000 GIOVANI E GENERAZIONI a cura di P. Donati I. Colozzi // Mulino pp. 33Ò L. 3S.000 A un decennio a questa parte si moltiplicano le indagini sui giova ni, tese a rilevare i loro stili di vita, i bilanci tempo, gli orientamenti culturali, le propensioni di consumo, gli atteggiamenti nei confronti delle istituzioni, ecc. Dei giovani ormai si sanno molte cose e questa conoscenza diffusa si arricchisce di tanto in tanto di altri particolari o di campi fino ad ora inesplorati, che non fanno che confermare le tendenze di fondo. Ciò che manca però è una seria riflessione sulle ripercussioni sociali di queste indicazioni di ricerca, poco valorizzate quindi per una riprogettazione dei rapporti sociali, che in questo caso significa ripensare le politiche giovanili, il rapporto tra le generazioni, il discorso educativo. Questa attenzione ha solo in parte informato le ultime indagini lard sulla condizione giovanile in Italia, mentre è alla base del recente lavoro su «Giovani e generazioni» curato da P. Donati e I. Colozzi (il Mulino, 1997). L'indagine (svolta nel 1996) ha interessato un campione nazionale (di 1557 casi) rappresentativo dei giovani dai 15 ai 29 anni, mettendo in risalto il contesto familiare e le reti di relazione, l'esperienza della scuola e del lavoro, l'orientamento etico, la collocazione politica, la posizione religiosa, ecc. Si tratta dunque di temi già percorsi da altre indagini, che però in questo caso trovano uno specifico arricchimento: la valutazione di quanto i giovani d'oggi si sentano una generazione, nella doppia prospettiva di aver coscienza di essere stati generati e di sentirsi capaci di generare. Si guarda quindi ai giovani non solo come gruppo in sé, ma nel contesto generazionale, in rapporto alle generazioni compresenti, secondo una collocazione che li pone tra mi passato e un futuro. quanto le premesse degli autori trovino di fatto conferma nei dati della ricerca. Coinè talvolta accade, sembra esservi un po' di scollamento tra il quadro teorico e i risultati empirici, se è vero - come emerge dal lavoro - che la grande maggioranza dei giovani presenta un modello di «generazionalità persistente» e - pur in termini un po' più attenuati - si sente in grado di progettare il proprio futuro. Può definirsi eticamente neutra una siffatta società? Già il coraggio di porre una questione così rilevante è comunque uno dei meriti della ricerca. La neutralità etica può essere il retaggio di una società che ha smesso di scegliere e di far emergere La ricorrente tesi di fondo è che la difficoltà di crescita dei giovani sia imputabile al fatto di vivere in una società eticamente neutra, in cui mancano proposte positive, in cui i giovani hanno molto per crescere ma poco per formarsi; una società che fa di tutto per tenerli buoni, ma che pone le varie proposte sullo stesso piano, essendo «ùidifferente al problema del bene e del male»; una società, ancora, che non favorisce quella selettività di orientamento e quella costruzione di atteggiamenti duraturi che rendono possibile l'assunzione delle responsabilità sociali. Proprio la scelta di non scegliere e la debolezza propositiva della società indicherebbe la difficoltà dei giovani di percepirsi come soggetti generati. Di qui quel senso di insicurezza e precarietà di vita e quella condizione di moratoria evidenziate da tutte le indagini come i tratti culturali tipici delle attuali giovani generazioni. L'eccezione in questo quadro sembra perlopiù rappresentata dal gruppo di giovani particolarmente ancorati alla fede religiosa, che denotano una singolare capacità di vita ed esprimono una coscienza di generazione per molti aspetti inattesa. C'è dunque un nucleo forte (arconché minoritario) di soggetti caratterizzato da risorse che permettono una crescita armonica e possono colmare anche i vuoti delle generazioni adulte. La tesi di questo lavoro è indubbiamente interessante e anche coraggiosa e controcorrente nella sua intenzionalità riflessiva e propositiva. Più difficile è valutare quanto le premesse degli autori trovino di fatto conferma nei dati della ricerca. Coinè talvolta accade, sembra esservi un po' di scollamento tra il quadro teorico e i risultati empirici, se è vero - come emerge dal lavoro - che la grande maggioranza dei giovani presenta un modello di «generazionalità persistente» e - pur in termini un po' più attenuati - si sente in grado di progettare il proprio futuro. Può definirsi eticamente neutra una siffatta società? Già il coraggio di porre una questione così rilevante è comunque uno dei meriti della ricerca. La neutralità etica può essere il retaggio di una società che ha smesso di scegliere e di far emergere posizioni ripensate, oppure l'effetto globale che si produce in un contesto sociale assai pluralistico e differenziato, dove sono compresenti ima grande varietà di orientamenti culturali e di stili di vita. In questo caso il problema è come recuperare capacità propositiva (ed educativa) in una società pluralistica, senza prefigurare il ritorno a condizioni sociali omogenee che non appartengono più al nostro orizzonte. Parallelamente, è importante chiedersi se i giovani si sentano collocati in ima dinamica generazionale, per valutare quanto essi abbiano alle spalle delle risorse biografiche precise e si aprano ad una assunzione di responsabilità per il futuro. Ma il senso di generazione lo si può assumere non solo per identificazione con chi ci ha preceduti (perché ci si sente confermati, per 0 buon esempio ricevuto, per i consigli trasmessi, ecc.), ma anche per differenza, per contrapposizione, per demarcazione di confini, per partecipazione ad eventi nuovi e significativi. Altrimenti è latente il rischio di rilevare una concezione tradizionale dei rapporti tra le generazioni, ovviamente più presente in certe aree culturali che in altre. Gli stimoli di riflessione non mancano dunque in questo, interessante lavoro di ricerca, che si occupa dei giovani ma chiama in causa gli adulti, a ricordarci che una società è avanzata soltanto quando il rapporto tra le generazioni diventa reciprocamente costringente e responsabile. Franco Garelli