Boldini mondane incandescenze di Marco Vallora
Con «Divine armonie», una raccolta di inediti, Ravenna celebra il pittore ferrarese cantore della Parigi di inizio secolo Con «Divine armonie», una raccolta di inediti, Ravenna celebra il pittore ferrarese cantore della Parigi di inizio secolo Boldini, mondane incandescenze Piume, dame apprensive e febbrili musicisti DRAVENNA IVINE armonie», s'intitola con una formula un po' poncif questa raccolta e 1 gentile rassegna di opere minori e inediti di Giovanni Boldini a Palazzo Rasponi Murat, nata per volontà di Cristina Muti nell'ambito di Ravenna Festival. Perché di divino, nel laico e svanente, bruciante universo dell'emigrato Jean Boldini, si avverte davvero poco, tranne forse quella caparbia religione del bello istantaneo, che si consuma dunque in un lampo di cenere arroventata: e di sacro, probabilmente, non c'è che la ritualità di aigrettes e velluti, che incorniciano le stanche, albeggianti carni dei divini mondani, che rientrano in casa, dopo una notte di deboscia proustiana. Non lo si osserva per moralismo, questo, o diffidenza: perché quella è la paradossale «modernità» del pittore ferrarese, ceduto ai ritmi parigini, alle mollezze massenetiane delle sue Hérodiade da salotto: ma pure bisogna ricordarsene. E ci voleva l'intuito di Gertrude Stein, l'amica e collezionista di Picasso, come ricorda Vittorio Sgarbi in catalogo, per avvertire genialmente l'«altra» modernità di Boldini: «Quando i tempi avranno situato al loro giusto posto i valori, egli sarà considerato il più grande pittore del secolo scorso. Tutta la nuova scuola è nata da lui, perché egli, per pri- mo, ha semplificato la linea e i piani». Semplificato o potenziato sino all'incandescenza, appunto, alla celebrazione consapevole dell'amara nullità del mondano (nell'accezione questa volta filosofica, transeunte): i Petits riens fosforescenti e pétillants di Rossini, altro italiano ceduto a Passy e ai nervi scoperti dell'amarezza di vivere. «Un nulla in cui per qualche istante egli condensava la sua sensibilità e la sua visione esaltata del mondo», ricordava la vedova, molto più giovane, Emilia Cardona, raro riferimento critico di una bibliografia piuttosto brulla, tranne i saggiamici di Piceni e di Dario Cecchi, di Patrick Mauriès o Alessandra Borgogelli. La tentazione pericolosa dell'istante malato o fremente, che poi sarebbe transitata pure nell'altro ferrarese, febbrile sino alla foiba, il marchese De Pisis. La tensione nevrile delle mani dei musicisti, tante volte schizzate di nero e di bianco, dalla complicità animale e ferita d'ansia di Boldini: h, forse, si condensa la musicalità rappresa del suo stile rapsodico, tutto un impromptu virtuosistico, chopiniano, di brevi appunti tiptologici, quasi una seduta spiritica di ritrattismo ininterrotto: mentre per certi spettrali baluginii tempestosi di vedute veneziane, sorgerebbe più istintivo il riferimento a certe lugubri barcarole frammentate dell'ultimo Liszt. Questo per tener fede al titolo «armonioso» della mostra e all'assunto musicale del catalogo Danilo Montanari editore, curato da Bianca Doria, privilegiando gradevoli schizzi di dame al pianoforte o di violoncellisti immersi nel loro agone diteggiante, che pure non sono in mostra. Mentre appunto potremmo considerare questa mostra lampeggiante come l'occasione rubata di una prova di concerto, spiata attraverso le quinte del palcoscenico: qualche bribes preziosa, qualche assaggio pirotecnico di un Kleiber del carboncino. Non è certo ancora il Boldini maggiore quello che presso il gallerista Goupil si preoccupa di moltiplicare vedutine neo-settecentesche di Versailles, di farsi astuto replicante di un Meissonier all'italiana: ma già in quel varcare la soglia di dama apprensiva in stile Senso di Camillo Boito (raccogliendo scenograficamente lo strascico) o in quell'affrettarsi a ultimare la lettera di una giovane scrivente del 1873, non senti più la confidenza borghese, macchiaiola. C'è un'ansia che brucia i dettagli fotografici, una nevrastenia che porterà Boldini oltre cortina, a scoprire le malizie segrete di I Hals o di Velàzquez, di Menzel o di Whistler. Ed è questo il Boldini che incomincia a intrigarci, il Boldini amico di Degas e di Sargent, che privilegia i neri ed i grigi quasi fossero preziosi collier, che ritaglia il mondo fermando lo sguardo fulminato sul morente fuoco d'artificio d'un bouquet (che sta per essere dimenticato dalle affusolate mani di una ballerina), che trasforma il suo atelier in una grotta ebbra di bui screziati e ali di libellule e metamorfosizza un angolo di giardino in un salotto malsano di promesse artificiali. E non v'è dubbio che in quello scatenarsi disinvolto di pennellate danzanti si annidino già i fantasmi in agguato e maliziosi del dinamismo futurista. Marco Vallora g Un artista che abolisce confidenze borghesi e ottocentesche, la cui ansia brucia i dettagli e lo rende genialmente moderno Qui accanto, «Giovane coppia e un cane su un prato»; più a destra, il ritratto di una dama
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