MUSICA Sinfonia del caos

MUSICA ESTl ERI NEL FUTURO. Nei laboratori dove si vincono le sfide acustiche e diventano reali le utopie sonore MUSICA Sinfonia del caos •wt|N bassotuba, le dita, il respiro del musicista, e una nota, una sola, un I fa. Cresce, si irrobustiti I sce, persiste per un tempo che, secondo dopo secondo, iniziamo a percepire come impossibile, prolungato oltre ogni limite concesso all'uomo. Ma lei continua, e adesso perfino si muove, inizia a circondarci, a vagare nello spazio della sala dove siamo seduti, a vivere dietro attorno davanti a noi, che non sappiamo più dire se quanto ascoltiamo sia un fenomeno fisico, concreto e misurabile, oppure un'allucinazione percettiva, per poi scoprire che la meraviglia è figlia dì entrambi. Sono passati 350 anni, l'utopia è diventata possibile. «Abbiamo echi artificiali e straordinari che riflettono la voce molte volte, abbiamo strumenti per trasportare i suoni attraverso tronchi e tubi, lungo insolite linee e distanze», scriveva Francesco Bacone nella Nuova Atlantide. In Post-praeludium per Donau, il lavoro, il suo ultimo, che Luigi Nono dedicò nel 1988 al fiume Danubio, al senso, al corpo dell'acqua e della memoria che in infinito scorre e persiste, quelle immagini evocate dal filosofo inglese sono trasformate in vero suono. E quando il fiato dell'interprete ha bisogno di riposarsi per rinascere, dopo aver toccato il proprio limite invalicabile, allora è l'invenzione del delay, del ritardo, che consente alla musica di continuare ad esistere. Mentre usciva dalla tuba, il computer ha catturato quella nota per poi restituirla da altri punti sonori e secondo una durata prestabilita, teoricamente infinita. Questa invenzione, questa conquista non era concessa ai compositori soltanto di una generazione fa. Alla fine del Novecento, tra le tante sfide vinte, va compresa anche quella del dominio sul suono, della ridefinizione dei suoi limiti e qualità; «Quando, a Parigi e a Colonia agli-inizi degli Anni Cinquanta, ho cominciato a lavorare negli studi di musica elettronica ho capito che* le nuove tecnologie potevano ri¬ voluzionare il linguaggio musicale. Ora so che quel tempo è stato come la conquista della Luna: una prima tappa, prima di uscire dal Sistema Solare», ricorda Karlheinz Stockhausen. Adesso, scrive musica da eseguire in cielo, con gli interpreti seduti dentro gli elicotteri, mentre volano, e il suono del violino arriva a Terra confuso, eppure riconoscibile, tra il vorticare delle pale, il rumore del motore. Tre lattine di birra abbandonate in un prato sono rumore; rumore è una chiazza di petrolio che vaga tra gli iceberg, un libro bruciato, una tela tagliata di Lucio Fontana; una moto smarmittata che invade lo spazio mentre, due piani più su, qualcuno sta facendo silenziosamente l'amore cercando di ascoltare soltanto il proprio corpo. Orizzonti quotidiani, panorami consueti nell'epoca acusticamente più densa, inquinata, nella storia dell'umanità. Questo rumore è entrato nella letteratura, in tutte le arti, anche nella musica. Che lo accoglie oppure lo esorcizza, come accade quando si va in una sala da concerto ad ascoltare una sinfonia di Mozart, evocando una civiltà sonora perduta, che esercita su di noi anche il fascino della sua inattualità. «I nostri strumenti sono ormai deboli e limitati. La ricchezza dei suoni industriali, i rumori delle strade, dei porti, dell'aria, hanno mutato e sviluppato le nostre percezioni auditive», scriveva Edgard Varese nel 1936. Fu il primo, dopo gli esperimenti bruitisti e onomatopeici dei futuristi (gli intonarumori di Russolo e Pratella, i ronzatoli, i gorgogliatoli...) a prescrivere, in una partitura, i suoni delle sirene delle fabbriche, a rivendicare il diritto-dovere della musica di ascoltare e interpretare ogni clamore della società industriale. Lo entusiasmavano .'quei suoni inauditi. Altri artisti ne saranno confusi; «... Tutta la nostra fantasia di mappe e di voci non può condurci a esser vittima di un concerto sfrenato, intollerabilmente rumoroso, e chiuso nella tirannia di 'ritmi catastrofici», scriveva Giorgio Manganelli in Rumori e voci. Nonostante sia da sempre una inseparabile compagnia, manca ancora una storia del rumore e del suo significato: da quando, ascoltando ir cupo rombo del tuono, gli uomini dubitarono dell'ostilità dell'universo, ai nostri anni, quando «meccanismi inconsci ci portano in discoteca, una contemporanea Rupe Tarpea dove faccio bombardare il mio sistema percettivo da un rumore che mi fa male, ma al quale mi devo abituare se voglio sopravvivere», dice Alvise Vidolin, docente al Centro di Sonologia Computazionale dell'Università di Padova. Fondato nel 1979 e collegato al dipartimento di Elettronica e Informatica della facoltà di Ingegneria, nacque anche per volontà di Teresa Rampazzi, musicista alla quale va la gratitudine di tanti giovani ricercatori e scienziati del suono italiani: per sapere chi siano e dove lavorano, basta leggere II complesso di Elettra, il volume dedicato dal Cidim a questo settore della nostra creatività. I genitori sono loro: la Rampazzi, Pietro Grossi, che negli Anni Sessanta fonda il laboratorio del Cnr di Pisa, Marino Zuccheri, il tecnico che lavorò con Berio, Maderna e Nono al Centro di fonologia della Rai di Milano, Peppino Di Giugno, attivo all'Istituto di fisica dell'Università di Napoli, prima di venire chiamato nel 1976 da Pierre Boulez all'Ircam di Parigi e di creare la 4A e la 4X, le prime due mac- chine capaci di produrre suoni sintetici «in tempo reale», cioè mentre vengono eseguiti dal musicista. Vidolin è il Virgilio che da vent'anni guida il cammino dei nostri compositori verso i nuovi confini del suono. In questi giorni è a Londra, impegnato a governare il live-electronics de I Cenci, ultima creazione di Giorgio Battistelli: «Nei secoli precedenti si sono esplorati il ritmo, la melodia, la dinamica, l'armonia. La sfida del Novecento è stata l'invenzione di nuovi timbri, di nuovi colori del suono. Disporre del suono elettronico generato dal computer significa avere a disposizione un pennello con cui poter dipingere con tutti i colori che la fantasia di un compositore immagina. L'arte assimila e trasforma: il musicista non accetta di venire travolto dal rumore che lo circonda, lo sfida». E ricorda due episodi opposti: la rabbia di Luigi Nono quando, nel 1985 all'Ansaldo di Milano per un'esecuzione del Prometeo diretta da Abbado, pretese - per riscoprire la magia perduta del silenzio - che tutta la zona circostante venisse interamente chiusa al traffico perché si potessero ascoltare, o soltanto intuire, i lunghi pianissimo previsti dalla partitura; l'anno scorso, invece, al Festival di Città di Castello, nell'opera buffa II giudizio universale, Claudio Ambrosini immaginò Dio (lo interpretò un felicissimo Gigi Proietti) arbitro di una sfida sonora tra un angelo e un demone: «Fammi un suono grasso, magro, tondo, dritto, che rotola su se stesso, che salta tre volte e sempre più in alto, che rimbalza e tocca di sponda...». «E questa è l'altra possibilità scoperta e ormai attuata dal Novecento: lo spazio come parametro compositivo», riflette ancora Vidolin. «La disposizione tradizionale dell'orchestra ci ha fatto dimenticare che, mentre la vista è direzionale, l'udito può spaziare a 360 gradi. Perché non usarli tutti?». Una riflessione presente da tempo nel lavoro di Luciano Berio, anche in Outis l'opera rappresentata alla Scala lo scorso ottobre: «Con la tecnologia mi interessa modificare in maniera, direi, subliminale lu prospettiva acustica dell'orchestra e il suo rapporto con la scena». Il suono come artificio, come teatro. «La comparsa delle tecniche informatiche richiede l'apprendimento di nuove discipline: matematica, programmazione elettronica, fisica, acustica fanno ormai parte, in una certa misura, del bagaglio intellettuale dei migliori giovani musicisti», dice Pierre Boulez, disegnando il profilo di un artista della musica che sia anche tecnico e artigiano. Come è sempre accaduto, in un rapporto reciprocamente fertile: è stato il pianoforte, prodigiosa e nuova macchina sonora, a indurre la grande letteratura pianistica dell'Ottocento, è stata l'esigenza di scrivere sinfonie a generare la formazione della grande orchestra romantica. Eppure, il diverso uso possibile di una stessa tecnologia dimostra ancora la differenza tra artista e tecnico. Nei laboratori della Yamaha ci si diverte a sfidare gli uditi più raffinati: si ascolta il suono di un oboe, poi quello stesso timbro viene sostituito dal suono elettronico e nessuno percepisce la differenza. L'industria come iperrealistica mimesi della natura, l'obiettivo di creare un superstrumento capace di mantenere sempre l'accordatura, l'intonazione, di diventare, a comando, più brillante, più patetico... Una prospettiva che poco interessa Laura Bianchini e Michelangelo Lupone, ricercatori e compositori, fondatori, nel 1988, del Centro Ricerche Musicali di Roma. «Jackson Pollock passava ni bicicletta sopra le sue tele, creando così un sistema caotico. Scatenare il caos sonoro e governarlo a piacere è un obiettivo entusiasmante». Sugli schermi dei loro computer passano i grafici dei modelli fisici del suono: «Molto ancora dobbiamo scoprire della rugosità del suono, della sua tagliente acutezza, la shar- pness, dell'impulsività, della fluttuazione, della modulazione, dell'equilibrio tra fonte del suono e ascolto del nostro sistema psico-acustico». Obelix è il nome del progetto internazionale sulla «percezione del suono» al quale il Crm lavora assieme al Centro Ricerche della Fiat nel tentativo non di abolire il rumore, ad esempio delle automobili («perché il rumore è un segnale indispensabile»), ma di renderlo più «armonioso, o almeno più conseguente, più organizzato». A novembre, a Roma, un convegno mternazionale dedicato proprio al rumore indagherà quanto ancora resta da conoscere e manipolare delle sue proprietà: «Rumore per noi significa disturbo dell'informazione precedente e dunque nuova informazione. Senza dimenticare che, nonostante i suoni siano parte centrale della nostra esistenza, l'uomo sente pochissimo», dice ancora Lupone. «A 16 anni cominciamo a perdere la percezione degli acuti, dopo i 40 non li sentiamo più. «Il la della settima ottava del pianoforte suona a 3520 hertz, mentre la nostra soglia non supera con l'età i 7000: significa che già il primo armonico di quel la è per noi inudibile, perché va oltre quel limite, e dunque che perdiamo la bellezza del timbro, creata dalla successione degli armonici». I limiti della nostra percezione sono la nuova frontiera da varcare, per fornire all'udito e alla mente mezzi più sofisticati non solo per la generazione del suono, ma per il suo ascolto. E' anche questa una via «per uscire dal Sistema Solare». «Ma l'ultimo fine è sempre la musica, cioè nnmettere le nuove conoscenze in un sistema di emozioni», dice Laura Bianchini mentre un suono sconosciuto, rugoso come la cresta del Cervino, prodotto da un violino manipolato dal computer invade la piccola stanza del Crm affacciata sul grande mercato romano di piazza Vittorio, dove grida arcaiche e lussurriose invitano ad approfittare del ribasso dei fichi. Sandro Cappelletto upercomputer adova Vidolin ni compositori nuovi confini I rumori domesistenza e aFiat tentanoarmonioso» ^vascello ligneo progettato da Renzo Piano per l'esecuzione del «Prometeo» di Luigi Nono Con un supercomputer all'Università di Padova Vidolin conduce i giovani compositori verso nuovi confini Dall'alto in senso orario, Karlheinz Stockhausen, Luciano Berto, Francesco Bacone e Claudio Abbado I rumori dominano la nostra esistenza e al Centro Ricerche Fiat tentano di rendere «più armonioso» quello delle auto II compositore Luigi Nono