Sapore di sale con Pupi e Zia di Igor Man

RE1 REPORTAGE 1 W Sapore di sale, con Pupi e Zia Vacanze romane, ricordi di un 'isola felice LSABAUDIA A spiaggia istituzionale dei romani è Ostia. Malignamente si vuole che sia stato Mussolini a far scoprire il Tirreno ai quiriti, costruendo l'angusta via del mare in alternativa al trenino caro ad Aldo Fabrizi. Negli Anni 50 quando la voglia di vivere pulsava prepotente poiché la guerra era definitivamente alle spalle e il futuro si profilava splendido, i romani, complice anche quella storica utilitaria che fu la Topolino-500, si riappropriarono della spiaggia: da Torvajanica a Fregene, passando per Fiumicino. La domenica le famiglie andavano al mare coi Pupi, con Ma', ma soprattutto con Zia: dalla mattina alla sera, invadendo felici l'arenile, carichi di fornelli, pentoloni, incalcolabili chili di pasta, braciole di maiale eccetera. Le mogli cucinavano sul primus, ai margini di immensi ombrelloni pesantissimi sotto i quali bivaccavano i mariti impegnati in bestemmiate partite a briscola. Ai Pupi sparsi sulla battigia pensava Zia, la sorella (nubile) di uno dei coniugi dei vari nuclei familiari partiti all'alba dalle borgate alla volta del domenicale refrigerio marino. Quella di Zia è una istituzione romana che il postconsumismo sta estinguendo. Una volta Zia copriva il suo corpo procace, dalla pelle candida destinata a furibondi eritemi solari, con costumi da bagno interi, di lana nera e povera che pizzicava. «Vie da zziar, «Ce pensa Zia»; «Bello de Zia tua, forno er bagno». Una fatica da schiave, roba che una filippina oggi chiamerebbe i sindacati. Ma a Zia la fatica non pesava, intanto perché amava i Pupi pei quali si svenava regalando loro catenelle, crocette e spillette ad ogni pie sospinto, e poi perché ogni domenica lì, al mare, rifioriva, per lei povera zitella, la speranza di incontrare Lui, insomma l'amore. Nel duro meriggio infuocato, quando le mogli e i mariti russavano sotto gli ombrelloni da mercato ortofrutticolo, annichiliti dal cibo e dal vino dei Castelli, e i Pupi rimbambiti dal sole, dal bagno, dal martellare ossessivo dei tamburelli, non rompevano più di tanto, in quel torrido momento magico il Fusto si avvicinava a Zia e attaccava discorso con la poverina provocandole una tempestosa scarica di ormoni. Quel discorso, spesso, aveva un seguito durante la settimana, a Roma, sicché, qualche volta, ri scappava il fidanzamento (in casa), preludio a nozze semplici, felici. Ora è diverso: c'è sempre la spiaggia ubera, ma nessuno vi cucina più: un panino (con la porchetta) e via; una cocacola, al massimo una fetta di fetente cocco venduto da falsi marocchini nati a Portici (i marocchini veri vendono altro). C'è sempre la spiaggia ubera, ma i romani affittano la casata Ostia stipandosi magari in tredici in 42 metri quadri. Sicché la sera vanno in pizzeria più non subendo la tortura del ritorno a Roma con i Pupi frignanti, orfani oramai di Zia che s'è sposata e va, d'estate, sul Mar Rosso, nei «campi di villeggiamento» dove gli animatori scaricano sui turisti frustrazioni da kapò. Col trascorrere degli anni ed aumentando il benessere, molta gente va al mare unicamente sulle tracce dei cosiddetti Vip. Solerti, i giornaletti-rosa forniscono mendàci servizi intitolati «Le vacanze dei Vip: ecco gli mdirizzi», ovvero «Quest'anno vado a Sabaudia, parola di Barbara de' Rossi». Così è successo che da lontana e sola, Sabaudia si sia trasformata in ambita meta estiva, in una sorta di status-symbol della piccola e media borghesia. Romana ma altresì napolitana. Si aggiunga che oltre ai Vip, ad attirare torme di villeggianti è una spiaggia lunga venti chilometri, di sabbia immacolata quanto quella di Nossi Bè, alla quale si accede facilmente grazie alla civile preoccupazione del Comune che ha armato lunghe passerelle comode di legno, e disposto cassonetti sulla rena pulita da speciali bulldozer. Sette anni fa, sì: esattamente nell'estate del 1990, quel viaggiatore acuto ch'è Sandro Viola scrisse uno degli articoli più belli, a parer mio, del postdecadentismo, trasmesso al suo giornale da un remoto fiordo norvegese. Viola rifletteva sul destino di chi avendo perduto un «impero» rappresentato dai luoghi deputati della vacanza (dal Forte a Tangeri) è stato, negli anni, costretto a sempre più lunghe ritirate per attestarsi sul fronte del silenzio, sempre più a Nord. Aveva ragione ma il suo sgomento di fronte ai carnai che appestano le spiagge nel segno della cellulite e del frastuono delle radio, incartate nei panini alla porchetta, il suo sgomento, gli replicai, era viziato da una grave lacuna. Lui, l'infaticabile viaggiatore, non era mai stato a Sabaudia, isola felice nell'estate di massa. Potrei, a distanza di sette interminabili anni dire lo stesso? Una volta, certamente Sabaudia era un'oasi febee; oggi non più. E tuttavia tra coloro che vi celebrano la vacanza come rito liberatorio (?) e gli happy few soltanto desiderosi di sottrarsi alla chiassosa promiscuità per esercitare il sacrosanto diritto di rilassarsi, è come se fosse stato stretto un patto. Tacito, non tradito (finora). La lunga mattinata piena se la godono i villeggianti che affittano appartamenti a Sabaudia o villini nell'Agro. A partire dal (tardo) pomeriggio fino a sera, la spiaggia, il mare tornano ai sabaudiani: veraci e d'adozione. Tre sono i luoghi eletti del «riposo silente». Le Dune alleggerite dalla forte macchia mediterranea; il consorzio Terra Bella; il Villaggio Giornalisti: gli ultimi due in riva al lago. Il lago di Paola, salato, su cui strapiomba l'ulisside Monte Circeo. Le ville vanno da quella, semplice, alzata nei Cinquanta da Irene Brin, alla pseudo palladiana dei Volpi di Misurata, alla nobilissima dei Principi Pacelli passando per i rifugi di Emilio Greco (il grande scultore riposa per sua volontà nel piccolo cimitero di Sabaudia anziché in Catania «patria ingrata»), di Rita Rusic (sì, la coraggiosa produttrice del miliardario «Ciclone»), di Ornella Muti, di Bernardo Bertolucci che proprio a Sabaudia ha dedicato La Luna, film teso e delicatissimo. A Terra Bella dimorarono a lungo il grande Olivetti, il padre dell'Europa unita, l'altero Altiero Spinelli e quel socialista «puro e duro» che fu Riccardo Lombardi. Un tempo qualcuno deplorò la «fascisticità architettonica» di Sabaudia. Pier Paolo Pasolini, che non fece in tempo a godersi la casa costruita a ridosso di quella di Moravia, sulle Dune, scrisse: «... quanto abbiamo riso noi intellettuali dell'architettura del regime, sulle città come Sabaudia. Eppure adesso queste città le troviamo assolutamente inaspettate: si sente che sono fatte a misura d'uomo». E l'uomo sabaudiano è discreto. I sabaudiani lasciano i Vip in pace, li ignorano. Trapiantati qui nei Trenta, al tempo della bonifica dell'Agro Pontino, i veneti, coniugandosi con romani e ciociari, han dato vita a un tipo insolito di fauna umana: il sabaudiano, appunto, ch'è una mistura di riservatezza spiccatamente veneta e di indifferenza tipicamente capitolina. I Personaggi possono star certi che nessuno l'importunerà, nemmeno con lo sguardo (a inseguire, allupate, il povero Alberto Castagna, sono le damazze del generino romano). Sicché Mario Luzi, Enzo Siciliano, Vittorio Gassman, possono tranquillamente leggere i giornali al Bar Italia, senza che nessuno gli chieda l'autografo. Lo stesso vale per la sorridente Dacia Marami, per la dolcissima Fenech, per l'Oscar Tornatore, grande regista, grande timido, per la gemale Vanessa Redgrave e l'introverso Franco Nero eccetera. Chi scrive è approdato a Sabaudia trentatré anni fa e l'ha vista rimanere (relativamente) incontaminata durante questo lungo tempo. Qui è cresciuto mio figlio, qui ho incontrato Cin Cin, «il mio gatto che è mio pari così com'è pari agli Dèi che non mi teme e non se la prende con me, non mi chiede più di quello che son febee di dargli» (cfr. Augusto, biografia raccontata da A. A. Massie, 1988). Ho visto passare l'estate del biancofiore (Andreotti, Evangelisti), è passata l'estate del Garofano (Martelli, Intini), è trascorsa l'estate del Polo (Berlusconi, Fini), corre l'estate dell'Ulivo (Veltroni, Rutelli) ma quella che il vecchio cronista, cittadino onorario di Sabaudia, ricorda con tenace struggimento è l'estate ultima di Alberto Moravia. Quando il settembre declina, a sera il suono lungo delle campane annuncia l'invasione poderosa del tramonto mentre i cormorani tornano al nido. Il lago si tinge di rosso e il mare si sfinisce nell'ansia di accogliere il sole che vi naufraga lentissimamente. In quell'ora l'aria è dolce alle labbra e il profumo degli eucalipti si mischia con quello del ligustro, della quercia da sughero, e la salsedine si fa cipria per gli Dèi. Passeggiavamo, mia moglie ed io, fino a dove il Maestro, sprofondato nella sedia a sdraio lambita dalla risacca, si incantava di solitudine nelle sere in cui le persone ch'egli generosamente amava erano lontane. Un discreto saluto accennato col capo per non disturbarlo, e lui ricambiava e qualche volta sorrideva. Una sera parlammo. Dell'Africa. Ricordo come si accesero i suoi occhi di fanciullo e quanto felice fosse divenuto il suo sorriso abitualmente amaro quando scoprì che anch'io ero stato laggiù, proprio in «quel» villaggio e al pari di lui amavo le dolci colline rossoverdi dell'Africa dei Grandi Laghi. Igor Man Le famiglie arrivavano in spiaggia cariche di fornelli, pentoloni chili di pasta e braciole Ora più nessuno cucina Un panino con la porchetta e via sulle tracce dei vip C'è chi affitta la casa a Ostia, stipandosi in pochi metri quadrati Il mito di Sabaudia