A Bangalore il regno dei Bill Gates con turbante

Nel terzo «bacino scientifico» del mondo ci sono 14 alte scuole d'ingegneria e un giro d'affari da 5 mila miliardi Nel terzo «bacino scientifico» del mondo ci sono 14 alte scuole d'ingegneria e un giro d'affari da 5 mila miliardi il Bangalore, il regno dei Bill Gates con turbante Cervelli, investimenti stranieri, tecnologia i segreti del miracolo BANGALORE DAL NOSTRO INVIATO Shivraj Das Gupta lavora qui all'aeroporto, e di mestiere fa lo scalista. Quando l'aereo ha spento i motori, lui allora spinge la scala fin sotto il portellone d'uscita e aspetta che i passeggeri che vengono nel Karnathaka scendano a terra. Sono operazioni ormai desuete, vecchie, da vecchio Terzo Mondo; ma, forse, lui nemmeno lo sa. Il Karnathaka è uno Stato affondato nel Sud del continente, a un migliaio di miglia da Bombay, e il caldo che entra di botto in cabina è portato dal vento umido, pesante, di questi mesi di monsone; però qui anche un lavoro come quello di Shivraj, che si cuoce la testa sotto il sole, è sempre un buon affare. Siamo ancora nell'India eterna, quella dei 300 milioni di morti di fame, dove pure uno che fa lo scalista deve ringraziare i suoi Dei di avere scelto proprio lui, tra tanti morti di fame, per dargli comunque un posto e un salario. Das Gupta ha 36 anni, quattro figli, e parlucchia qualche frase d'inglese. E' anche uno molto gentile, e timido; con la sua pelle chiara e il sorriso a tuttidenti somiglia a Peter Sellers quando faceva l'indiano imbranato di Beverly Hills. Ho parlato di lui, dello scalista, a B.V. Naidu, che è il direttore del Software Technology Park di Bangalore, una struttura di punta dell'industria indiana. Naidu è uno importante, tratta affari grossi con gli americani della California, quelli di Bill Gates e dei computers dell'ultima generazione. Ha 36 anni, quanti ne ha anche Das Gupta, ma appena un figlio. Naidu in questo posto ci sta perfettamente: «Credo che non me ne andrò mai», dice infatti. Chi invece qui appare un pesce fuori dall'acqua (proprio come Sellers in quel film: forse per questo gli somiglia) è lo scalista. Bangalore la chiamano la Silicon Valley dell'Asia. E' l'altra India, quella del futuro; Naidu usa un ottimo inglese e ha il cellulare sulla scrivania. Gli ho parlato di Das Gupta perché l'aeroporto di Bangalore tiene ancora gli scalisti. Uno scalista nella Silicon Valley è come una vecchia Bugatti sotto il sedere di Schumacher, che sono due cose che non stanno né in cielo né in terra se le metti assieme. Naidu mi ha raccontato che viene anche lui da una famiglia di casta bassa, dello Stato dell'Andra Pradesh, e che ha emigrato per finire l'università e trovare un buon lavoro. E' anche lui l'India, insomma, l'India che sta con i piedi nel fango e con le vacche nelle strade ma, poi, è il terzo bacino scientifico del mondo. Se oggi finalmente esista un'In- dia soltanto, e quale sia, tra quella di Shivraj e quella di Naidu, questa è una cosa da scoprire viaggiandoci dentro, in quest'itinerario che scruta la vita di un Paese oggi alla vigilia dei suoi 50 anni. Una qualche risposta l'ho comunque trovata, qui a Bangalore. Nella vecchia capitale provinciale del Raj, dove ancora i reggimenti indiani hanno le loro caserme lungo le antiche strade militari dei lancieri di Sua Maestà, con ancora i soldati di guardia che sembrano appena usciti da un Car del Devonshire, rigidi, impettiti, stirati di fresco, perfino con i baffi regolamentari, in questo vecchio distretto che apparteneva al maharajah di Mysore l'India ha oggi la sua «Città elettronica». E' a una decina di chilometri dall'ultima periferia, dispersa dentro una piana di alberi polverosi e secolari, sulla strada per Hosur; la strada è la Nazionale numero 7, però queste cose in India significano poco e bisogna guidare con cento occhi, per scansare le mucche sorde e le famiglie di scimmie che cercano di passare dall'altra parte della carreggiata (stanno in fila, dietro la scimmia-padre, sembrano i vecchi contadini impauriti che ancora non hanno capito la velocità delle automobili). La Città è un complesso di palazzine nuove, basse, con i muri di cinta e le guardie al cancello, dove si sono piazzate le più grosse industrie elettroniche indiane: l'Infosys, la Tata-Ibm, la Wipro, la Microland, la Tvs; più i colossi che tutti conosciamo, la Microsoft, la Digital, la Texas Instrument, la Motorola, la Hewlett Packard. A visitarla, non è che si resti colpiti: uno s'immagina «Biade Runner», e invece trova un pezzo di campagna indiana, un po' lucidato ma niente di più. Le industrie del software però sono fatte così, lavorano tutto di cervello e non hanno bisogno delle architetture avveniristiche di Epcot. I risultati comunque sono che il settore sta crescendo ormai da 7 anni a un tasso del 60 per cento l'anno, e che alla fine è il doppio di quanto cresca l'informatica nel mercato mondiale. Bangalore, con questa sua aria quieta, dimessa, un po' slabbrata, da vecchio mondo imperiale, è però una sorta di cervelhficio industriale: ha il più alto numero di scuole private del'India, 3 università, 14 scuole d'ingegneria, 47 istituti tecnici, ma soprattutto l'Iis (l'Istituto Indiano delle Scienze), che è come il Mit dell'Asia e i ragazzi che incontri nei suoi lunghi viali ombrosi hanno dovuto superare il più difficile esa¬ me di ammissione, per poter avere il privilegio di studiare in questi silenziosi edifici di mattoni che sembrano le stesse vecchie chiese gotiche di Oxford o Cambridge. Si respira dovunque aria da Mr. Chips, e alla laurea i professori hanno il mantello nero; manca solo la foto della regina Vittoria. Il cervelhficio di Bangalore pompa uomini e cultura professionale dentro le palazzine basse di Electronic City. Il 14 per cento degli informatici indiani si trova qui, e da qui muove quasi un terzo dell'intera esportazione di settore, che è già di 800 milioni di dollari e arriverà a 3 miliardi nel primo giro del nuovo millennio. Ma è l'offerta del sistema-India che pare ormai imbattibi¬ le, nel nuovo tempo della globalizzazione: la preparazione dei suoi tecnici (3 mihoni di laureati in materie scientifiche), una cultura orientata verso l'astrazione matematica, la più ampia disponibihtà di operatori nel mercato di lingua inglese, e soprattutto un costo capace di sconfiggere gli stessi Paesi asiatici a basso salario, stanno trasportando in India ogni centrale elaborativa delle autostrade informatiche. Quando andiamo a comprare un biglietto della Swissair, i computer lavorano già con la centrale operativa trasferita a Delhi; noi chiediamo allo steward di Milano o di Ginevra, però i tasti che lui batte sotto lo schermo del suo monitor sono collegati in realtà con l'India, dove l'operazione viene ordinata, classificata, memorizzata. E ormai si stanno affidando a Delhi, Bangalore, Pune, Hyderabad, Thiruvananathapuram, anche i problemi di gestione della Deutsche Bank, dell'American Express, della British Airways, della General Motors. Un programmatore indiano costa 4 mi- la dollari l'anno, e parla l'inglese come sua lingua naturale. Un cinese (che sappia comunque bene l'inglese, ma trovalo) ne prende 5 mila, un giapponese 30 mila, un americano 40 mila, uno svizzero 45 mila. Sulle 500 più grandi imprese mondiali, già 137 hanno spostato quaggiù i loro servizi informatici. «E poi, dice Naidu, noi offriamo un'organizzazione di lavoro a ciclo continuo: quando un ufficio in Usa chiude, alle 5 del suo pomeriggio, qui è mattina; noi allora iniziamo a elaborare i dati che intanto ci sono stati mandati in rete, e quando quell'ufficio riapre si ritrova nel sistema computerizzato i dati già trasformati dai nostri ingegneri». Il futuro non conosce il tramonto del sole, e l'India eterna comincia a camminare anche lei dentro il tempo senza più orario. Però chi già aveva viaggiato in questo continente lontano, e ne aveva percorso le strade, incontrato gli uomini, scoperto le storie antiche e nuove, oggi trova nel suo cammino un'India mutata, dove soltanto le apparenze restano le stesse. 0, forse, anche quelle già sono cambiate. E non è per l'elettronica, né per i suoi computer e per gl'ingegneri che sono bravi quanto nessun altro: l'apertura del mercato, la liberalizzazione dell'economia, la caduta di tutte le vecchie barriere protezionistiche, hanno creato un ponte con l'Occidente quale nessuna forza politica e nessuna osmosi culturale avrebbero mai potuto far nascere. L'India conserva ancora nella propria bandiera l'arcolaio di Gandhi, ma la spinta, nuova, ai consumi di massa ha ormai sbattuto nel museo, e per sempre, la pezza di cotone che il Mahatma aveva posto a fondamento dell'indipendenza nazionale. Il volano del mercato va ora creando irresistibilmente una nuova classe media, forse 150 milioni, forse 200 milioni di persone - un serbatoio di consumatori che nessun'altra parte del mondo possiede. Nasce una drammatica linea di frattura con il mondo dei 300 milioni di poveri, che erano 300 e restano sempre 300. E nella festa di un anniversario storico, che deve celebrare la maturazione di una consapevolezza nazionale, l'India si scopre obbligata a ripensare la natura della propria identità collettiva. A Nehru, qualche anno dopo l'indipendenza, qualcuno disse che l'India era un unico Paese soltanto perché aveva una sola legge, ma non per altro. Nehru scosse la testa, e rispose: «L'India è anche un progetto di futuro». Ma quale futuro. Mimmo Candito (2 - Continua) Il boom sta creando una classe media che rappresenta un grande serbatoio di consumatori Ma attorno alle Città elettroniche resiste l'India eterna dei 300 milioni di indigenti onadiraffi r.r.r Tradizione e modernità in India: la cerimonia rituale dell'immersione delle statue del dio Ganesh nelle acque della Back Bay, a Cho wpatti, vicino a Bombay, sullo sfondo dei grattacieli