Pacini sotto torchio verbali secretati di Paolo Colonnello

La testimonianza del banchiere potrebbe essere decisiva per il destino processuale di Di Pietro La testimonianza del banchiere potrebbe essere decisiva per il destino processuale di Di Pietro Pacini sotto torchio, verbali secretati «Non posso dirvi nulla, devo tornare dal giudice» BRESCIA DAL NOSTRO INVIATO «Nun posso di' niente, ho avuto ordine dal procuratore di non fare alcuna affermazione finché non avrò finito tutti gli interrogatori». Arriva, e se ne va, come la ciliegina sulla torta, in un'inchiesta che potrebbe distruggere Antonio Di Pietro o salvarlo definitivamente. Francesco Pacini Battaglia, il banchiere dal cuore toscano ma dal portafoglio svizzero, il principe delle telefonate ambigue (sbancato? sbiancato?), si riserva cinque ore di tempo, tanto dura il suo attesissimo interrogatorio, per confermare o smentire le accuse che, in 27 ore, l'imprenditore Antonio D'Adamo ha scaricato sulla testa del suo ex amico Di Pietro. Alla fine le sue dichiarazioni vengono segretate. Sembra quasi un «déjà-vu»: stessa caserma della Finanza, stessi magistrati, stesso capitano dei Gico. E la previsione di un secondo, o più, round la prossima settimana. Ma «Chicchi» Pacini, a differenza di Antonio D'Adamo, non è trascinato a Brescia da «prove formidabili», cassette registrate due anni fa o appunti dimenticati in giro. A portarlo dai giudici è un teorema accusatorio grosso come una casa: avrebbe versato 12 miliardi al costruttore D'Adamo, con l'accordo di Antonio Di Pietro, non tanto per evitare il carcere quanto per poter controllare la più complessa e delicata inchiesta di Mani pulite: le tangenti dell'Eni. Inchiesta che, per la cronaca, lo ha visto subire un rinvio a giudizio con 12 capi d'imputazione. 112 miliardi sarebbero arrivati, tra il '93 e il '94, da una sua società svizzera, la Morave, all'asfittico impero imprenditoriale di D'Adamo, per finire quindi in una misteriosa società lussemburghese: la Simaco Holding Sa. Il tutto nell'ambito di una fallimentare operazione finanziaria di cui i magistrati di Brescia si chiedono da mesi le ragioni, avanzando delle ipotesi: e cioè che quel denaro fosse il frutto di accordi tutto sommato poco chiari tra Chicchi Pacini, Lucibello, D'Adamo e Di Pietro. Tanto che, in uno dei passaggi di questa operazione, spariscono pure 4 miliardi e mezzo che, secondo l'accusa, sarebbero stati destinati a Di Pietro. Sono quelli di cui parla D'Adamo (aggiungendo però che poi i soldi al magistrato non li aveva dati), nelle conversazioni registrate due anni fa finite agli atti dell'inchiesta. Pacini finora, nelle sue interviste, ha smentito decisamente queste ipotesi, negando anche che D'Adamo si sia rivolto a lui dicendogli più o meno «mi manda Di Pietro». Certo sapeva il banchiere che tra l'imprenditore e l'allora magistrato correva buon sangue. E proprio per questo, il legale di Pacini, l'avvocato Rosario Minniti, che ieri lo ha assistito a Brescia, avanzava nei giorni scorsi almeno tre ipotesi, oltre alle due di corruzione-concussione, che sarebbero state sostenute nell'interrogatorio di ieri. La prima: che Pacini sia stato vittima di una truffa da parte di D'Adamo, il quale, prospettandogli una situazione florida delle sue società, l'avrebbe convinto ad investire, negandogli poi la restituzione delle somme. La seconda: un millantato credito. D'Adamo avrebbe chiesto i soldi facendo credere a Pacini che avrebbe potuto aiutarlo grazie ai suoi buoni uffici con «l'amico» Di Pietro. La terza: dopo aver ottenuto e restituito i primi due miliardi «in prestito», D'Adamo avrebbe estorto i soldi a Pacini minacciandolo di rivolgersi a Di Pietro. Ma nella loro richiesta di proroga delle indagini, del 14 maggio scorso, i pm prospettano l'idea che versando quei 12 miliardi Pacini si sarebbe garantito niente meno che l'arbitrio nelle indagini di Mani pulite sulle tangenti Eni, indicando agli inquirenti, a seconda delle sue convenienze, «l'Eni buono», e «l'Eni cattivo». Il suo interrogatorio quindi s'inserisce in una partita ben più complessa di un semplice passaggio di denaro a Di Pietro: la fondatezza di buona parte di Mani pulite. «E' un'ipotesi dolorosa,scrivono ancora i pm bresciani - che tuttavia lo stato degli atti impone di approfondire compiutamente». Tra le prove che i pubblici ministeri bresciani ritengono di avere acquisito, oltre all'analisi elei flussi finanziari tra D'Adamo e Pacini, anche l'uso presunto da parte di Di Pietro di uno dei trenta cellulari svizzeri che il munifico banchiere aveva distribuito ad amici e conóscenti. Quésto enne¬ simo cellulare, l'ex pm lo avrebbe utilizzato tra il 20 febbraio e l'8 luglio del '95, cioè il giorno dopo il suo interrogatorio a Brescia e in un periodo,, notano i magistrati, in cui ancóra non si era dimesso dall'ordine giudiziario. La prova? «Ricostruzioni investigative articolate e scrupolose». Ma il vizio di usare cellulari di Chicchi (tutti intestati al suo autista), sembra l'avessero in molti: oltre allo scontato Lucibello, ecco spuntare nomi di tutto rispetto, come quello del senatore Cesare Previti, che avrebbe utilizzato ben due schede Gsm svizzere, o del maggiore dei carabinieri Francesco D'Agostino, ex responsabile della sicurezza romana di Di Pietro (beneficiario pure di un prestito milionario). Che motivo avevano di scroccare telefonate a Pacini Battaglia? Anche a questo ieri ha dovuto rispondere il banchiere dei misteri. «Francamente, cosa abbia dichiarato mi lascia indifferente», commenta l'avvocato Dinoia, difensore di Di Pietro. Paolo Colonnello Qui sotto: Cesare Previti A destra: Antonio D'Adamo e Pierfrancesco Pacini Battaglia all'arrivo alia caserma «Leonessa» Dinoia: «Indifferente a quel che ha detto»

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