I SONNAMBULI DENUNCIANO LA PIGRIZIA DELLO SPIRITO

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Angelo Z. Gatti FESTIVAL di Cannes 1994. Alla presentazione del film in concorso Vivere!, il regista cinese Zhang Yimou è assente. E' rimasto volutamente in Cina per protestare contro il Dipartimento per la Propaganda di Pechino che non ha rilasciato il visto. L'assenza fa scalpore e, durante la proiezione, in sala, una poltrona resta simbolicamente vuota accanto ai protagonisti del film. Gong Li, allora compagna del regista, e Ge You, premiato poi come Miglior attore. Ora l'editore Donzelli manda in libreria Vivere!, il romanzo di Yu Hua a cui Zhang Yimou si è ispirato (pp. 180, L. 20.000). E' la storia, raccontata in prima persona, di una famiglia cinese degli Anni Quaranta in poi. La storia di Xu Fugui, un piccolo proprietario terriero che, in una notte, perde al gioco la casa e il podere e che diventa contadino per mantenere la moglie e i figli. Nell'arco di tempo trattato si avvicendano malattie, matrimoni, nascite, carestie e numerosi lutti. Una storia minima, quotidiana, un po' melodrammatica, sullo sfondo dei grandi eventi che hanno segnato la Cina degli ultimi cinquantanni: la guerra civile tra nazionalisti e comunisti, l'instaurazione della Repubblica popolare e Mao al potere, il disastroso Grande balzo in avanti e l'ancor più disastrosa e caotica Rivoluzione culturale. Nonostante le traversie, bisogna continuare a vivere, perché «saper vivere vuol dire non dimenticare mai queste quattro regole: non dire parole sbagliate, non dormire nel letto sbagliato, non varcare la soglia sbagliata e non infilare la mano nella tasca sbagliata». Molta saggezza cinese, una compassionevole ironia, un positivo ottimismo. E tante, tantissime lacrime. Vita da geni»: un americano nella Parigi degli Anni Venti ATO nel 1896, decimo figlio di un predicatore, cresciuto nella polverosa cittadina di Clifton nel Kansas, a venticinque anni Robert McAlmon era un ambizioso giovane letterato di bell'aspetto, che per sopravvivere a New York aveva fra l'altro posato nudo per gli studenti di disegno della Cooper Union. Il suo sogno era di andare a Parigi e conoscere Joyce, e si avverò quando incontrò una coetanea con aspirazioni di scrittrice, Annie Winifred Ellerman, figlia di uno degli uomini più ricchi d'Inghilterra e vittima di una educazione pesantemente repressiva: costei, che aveva tendenze omosessuali (dal canto suo, McAlmon andava d'accordo sia con gli uomini sia con le donne), gli propose di sposarla e quindi di dividere il suo appannaggio, allo scopo di convincere i propri genitori a lasciarla libera. Il patto funzionò, e in cambio di qualche visita formale alla casa avita di Annie, che firmava i suoi romanzi e le sue poesie con lo pseudonimo di Bryher, McAlmon si trovò con le tasche piene di denaro e l'Europa a disposizione: e sfruttò l'occasione per darsi al bel tempo e mescolarsi con alcuni dei talenti più brillanti e disinibiti della sua generazione, a Parigi ma anche a Londra, a Berlino e a zonzo per l'Europa. Scrisse, anche, racconti e poi romanzi che suscitarono attenzione, e convinse il suocero, se non a aiutare artisti come Wyndham Lewis, a finanziare imprese editoriali che si sostanziarono nella rivista «Contact» e nella pubblicazione, in edizioni limitate e oggi preziosissime, di opere di William Carlos Williams, Hemingway, Gertrude Stein e via dicendo. Alla lunga però non mantenne le promesse, il suo matrimonio naufragò, la sua lingua si fece acida, e gli amici impararono a temere le conseguenze aggressive di quella che se¬ condo alcuni era diventata una vera e propria mania di persecuzione. In ogni caso, Being Geniuses Together, raccolta non troppo ordinata delle sue reminiscenze sul caotico decennio 1920-30, oggi per la prima volta tradotta in italiano, rimane un repertorio classico di notizie su quella che Hemingway avrebbe definito la «festa mobile». Glissando sui particolari del proprio privato - ad eccezione di qualcosa sull'eccentricità dei suoceri, verso i quali neanche a dirlo non nutre la minima riconoscenza - McAlmon allinea qui una serie di episodi quasi tutti riguardanti personaggi rimasti molto famosi, nei confronti dei quali si mantiene tutt'altro che deferente. Con alcuni dei più illustri, come T. S. Eliot e W. B. Yeats, entrambi dei quali è lui a cercare ma verso i quali confessa di non aver mai provato inte¬ resse, è inutilmente sarcastico; ma di altri di cui fu più intimo fornisce ritratti convincenti e seppur parziali, non oziosamente riduttivi. Joyce, del quale esalta il genio verbale, considerandolo piuttosto l'ultimo strepitoso esponente di una tradizione morente che l'alfiere di una letteratura nuova, è il simpatico, spiritoso, ingenuo conviviale che ama far festa ma regge male l'alcol, e ogni volta bisogna riportarlo a spalle fino al quinto piano, dove lo accolgono le recriminazioni di sua moglie Nora. Gertrude Stein è la vanitosissima ex ragazza ricca e viziata, incapace di riflettere per più di dieci secondi di fila ma convinta della profondità delle proprie idee faticosamente formulate con un vocabolario inadeguato ma forte di una disarmante ripetitività, analoga a quella dei bambini. A Hemingway McAlmon finanzia una gita in Spagna, quando vedono insieme la loro prima corrida, fortificandosi con del whisky per reggere allo spettacolo dei cavalli sventrati. Lì per lì ne restano abbastanza stravolti entrambi, ma in seguito, una volta diventato esperto, l'autore di Morte nel pomeriggio si farà beffe, senza chiamarlo per nome, della delicatezza dell'amico, il quale dal canto suo non fa mistero di quanto trovi fasulla la prontezza con cui nel suo ostentato machismo l'ex giornalista del Midwest esalta prima lo sci, quindi i tori, poi la caccia grossa, infine la pesca di alto mare, sempre atteggiandosi a unico padrone di tutti i loro segreti (quanto a Joyce, si sa che espresse il fondato sospetto che della coppia lo svenevole McAlmon fosse in realtà il duro, e Hemingway, il sentimentale). Altri, troppo numerosi per nominarli tutti (alla rinfusa: Brancusi, Pound, Ford Madox Ford, Radiguet, Dos Passos...), sono spesso visti attraverso una nube alcolica, che la costante perenne del decennio sembra sia stata l'immensa quantità di vino, birra e liquori tracannata. Per concludere su di una nota positiva, ricorderò le rare persone su cui McAlmon ha da dire solo bene, quasi tutte appartenenti al sesso femminile. Una è la surricordata Nora Joyce, graziosa, allegra assennata, e nella sua solidarietà senza venerazione, autentico puntello e spina dorsale del marito; altre sono le affascinanti Mary Reynolds, Minia Loy, Djuna Barnes, eleganti e scintillanti più di famose bellezze del varietà. Se uno Ziegfeld avesse cercato donne straordinarie per un suo spettacolo, dice ammirato il memorialista, non avrebbe potuto scegliere di meglio. Masolino d'Amico I SONNAMBULI DENUNCIANO LA PIGRIZIA DELLO SPIRITO I SONNAMBULI Hermann Broch trad. di Clara Bovero introduz. di Luigi Forte Einaudi pp. 694 L. 70.000. I SONNAMBULI Hermann Broch trad. di Clara Bovero introduz. di Luigi Forte Einaudi pp. 694 L. 70.000. ITE la verità: anche voi, come pochi altri, ardimentosi, avete in passato fatto proponimento di trascorrere un'intera estate con un solo romanzo: Alla ricerca del tempo perduto, Ulisse, L'uomo senza qualità... Se, almeno una volta, avete mantenuto la promessa, ecco una splendida occasione per rinnovarla: un grande affresco narrativo, una trilogia-capolavoro, con cui potrete accingervi a ricombattere il trimestrale agone della lettura: Isonnambuli di Hermann Broch, poco meno di settecento pagine, che Einaudi ripubblica nella gloriosa biancorossa Universale, nella ben nota traduzione di Clara Bovero, con un'introduzione-saga di Luigi Forte, di cui dirò in calce a questo mio, del tutto inadeguato (basti dire che non sono un germanista), invito alla lettura. Il primo motivo per immolare la vostra estate a I sonnambuli è l'estrema simpatia che ispira la personalità dell'autore. State un po' a sentire: un viennese, classe 1886, eredita dal padre, un ebreo moravo di modestissime origini, che s'è fatto tutto da sé, una filanda a Teesdorf, in prossimità di Vienna. La eredita e deve dirigerla. Ma della filanda, sotto sotto, non vuole proprio saperne: «Vorrei essere un poeta e avere uno stile sciolto», annota in un dario. A quarantini anni l'industriale-letterato vende l'azienda, annuncia ai famigliari esterrefatti che vuole studiare filosofia e matematica (si fa nove semestri filati all'università di Vienna), che ha anche qualche freccia al suo arco come critico letterario (scriverà, tra l'altro, un magnifico saggio su Joyce), e che vorrebbe, se avrà tempo, occuparsi di psicologia delle masse. Abbiamo tratteggiato la prima parte della vita di Hermann Broch: la seconda non è meno singolare: un volontario esilio in Tirolo, un po' di carceri naziste, l'emigrazione negli Stati Uniti nel 1938, la cittadinanza americana, la cattedra di letteratura tedesca a Yale, sino alla morte nel 1951. Se ancora non siete attratti da una simile esistenza schizofrenica, portatevi in vacanza anche il gioco degli occhi di Elias Canetti, dove leggerete un rabbrividente ritratto del collega-maestro: un maestoso, affascinante uccello dalle ali tarpate, tormentato da un'indifesa timidezza, eppure vorace d'ogni nutrimento intellettuale, la cui unica difesa era la fretta. Ed ora aprite, senza farvi sgomentare dalla mole, 1 sonnambuli, affresco incomparabile della non resistibile caduta di un'intera civiltà, l'austrotedesca, dall'ascesa al trono di Guglielmo II nel 1888 alla fine della prima guerra mondiale, scritto e pubblicato, tra il 1929 e il 1932, da un coraggioso e sfortunato editore, Rhein Verlag. Aprite e leggete, sapendo che anche in Italia sarete tra «i felici pochi»! Tre libri in uno -1888 Pasenow o il romanticismo, 1903 Esch o l'anarchia, 1918 Huguenau o il realismo - come a dire (ma badate che sto banalizzando) l'agonia della civiltà occidentale, attraverso l'abdicazione dai proprii elitari valori da parte dell'alta borghesia e dell'aristocrazia (primo pannello del trittico), la ricerca di un'ansiosa, vendicativa rivalsa, tra utopie soffocate sul nascere, da parte della piccola borghesia impiegatizia e artigiana (secondo pannello) e, nel terzo, l'erompere spavaldo di una nuova Torna la trilogia di Broch, introdotta da Luigi Forte: la crisi della cultura viennese, l'agonia dell'Occidente il tramonto dei valori borghesia dai traffici apertamente loschi e dalle speculazioni baldanzosamente illecite (sulla quale, ma questo lo aggiungo io, l'Imbianchino Hitler farà i suoi bravi calcoli...). Ho francamente ammesso d'essere negato ai riassunti: ma I sonnambuli non s'affidano, sostanzialmente, all'intreccio, pur essendo, sul piano narrativo, fitti di molte storie. E' alla struttura polifonica della trilogia che dovete guardare, che consiste in una strepitosa mistura di stili e tecniche: lirica, aforisma, reportage, saggio, tronche teatrale, per non dire dell'innesto di poderose divagazioni (per esempio, quella sulla disgregazione dei valori, che in sé sola riassume l'asse tematico del triplice romanzo). Chi sono, infatti, i sonnambuli del titolo? Sono i viaggiatori di un universo tra il fantasmatico e il chimerico, lungo un itinerario che trascolora di continuo tra luce e ombra, tra un'incerta aurora e un (purtroppo) certissimo tramonto. E' l'universo della frantumazione d'ogni ideale, del dissolvimento d'ogni certezza: «Il libro consiste in una serie di storie - ha serenamente precisato lo stesso Broch, in una lettera al suo editore - che trattano in modi diversi lo stesso tema, cioè l'uomo ricacciato nella solitudine...». Un uomo - aggiunge in un altro appunto, non meno crudele che si è macchiato del peccato per eccellenza, la «pigrizia spirituale». i eccellenza, la «pigrizia spirituale». Di questo indistinto territorio, narrativo e antropologico, Luigi Forte traccia una mappa dall'affascinante complessità e dalla stupefacente ricchezza di riferimenti in una introduzione-saga di oltre 40 fitte pagine. Attenti a non ometterla: è la più completa guida alla cultura viennese, ed europea in generale, tra le due guerre, che mi sia accaduto di leggere in questi anni. Vi si diramano una moltitudine di sentieri, ma tutti poi vengono a intersecarsi tra loro: il sentiero Kraus, quello Wittgenstein, quello Carnap, quello Weininger. E, in noia, ma sempre per agganci perti nenti, fanno capolino nomi-chiave Lukacs (che Broch conobbe, temen do gli rubasse la «sua» teoria dei valori), Benjamin, Adorno... Faccio punto qui: mi direte, dopo l'estate, se vi ho dato un cattivo consiglio Guido Davico Bonino FELTRI: TUTTA COLPA DEL BARBIERE FELTRI RACCONTA FELTRI intervista di Luciana Baldrighi Sperling & Kupfer pp. 149 L. 24.500 FELTRI RACCONTA FELTRI intervista di Luciana Baldrighi Sperling & Kupfer pp. 149 L. 24.500 TU' dei giornalisti, ama i cavalli. «I cavalli mi danno soddisfazione. Sono meglio degli asmi che trovo nei giornali». Ama anche, e molto, i giornali. Da gestire come se fossero il suo bilancio domestico, ma con l'occhio ai contenuti: «Nei giornali ho sempre cercato di raggiungere il pareggio economico. L'editore non deve intervenire per ripianare i debiti e perde ogni potere di ricatto nei miei confronti. Ma non si scappa alla prova dell'edicola». Feltri celebra Feltri: a 54 anni di età, non in articulo mortis e mentre, senza troppa modestia, si ritiene «il direttore più popolare d'Italia». Una lunga intervista che traccia l'identikit del «direttore scomodo», di uno dei «maestri italiani della provocazione». Feltri ha fatto la gavetta all'Eco di Bergamo, curando le recensioni cinematografiche. Proprio lui, che «il cinema lo ha sempre odiato». Poi, passando di testata in testata, è arrivato alla guida di Bergamo oggi, quindi dell'Europeo e dell'Indipendente. Si è insediato al Gior¬ nale nel '94, quando Montanelli uscì sbattendo la porta in faccia a Berlusconi. Dose giornaliera di lavoro, quindici ore. «Non concepisco le vacanze, proprio non le capisco». Se ha fatto il giornalista, «la colpa è del parrucchiere: anziché comprarmi un fumetto da leggere nell'attesa, la mamma raccattava tra le riviste sparse una Domenica del Corriere». Oggi, da direttore, non sopporta «i redattori che si adagiano sulla ruotine e diventano impiegati statali». Il buon giornalista, e ancor più. il buon direttore - sostiene Feltri - deve «leggere la realtà e interpretarla». Quanto alla politica, però, egli non si appassiona «troppo». Da ragazzo «si sentiva comunista, affascinato com'era dall'Unione Sovietica e dal pei»; ma nel '62 si iscrisse al psi. E, nel '68, cominciò a spostarsi a destra. Oggi, si definisce «un anarchico liberale». La prima Repubblica: Giulio Andreotti? «Non è un picciotto, né un mammasantissima»; Bettino Craxi? «Il cinghialone in realtà è un caprone espiatorio»; Francesco Cossiga? «Ha continuato a parlare come se fosse un alieno nel mondo politico italiano». La seconda: Prodi? «Un personaggio da teatrino di par> rocchia. Il bagonghi di Palazzo Chigi che governa il Paese come una pesca di beneficenza dell'oratorio»; D'Alema? «Il politico italiano più abile e avveduto»; Bossi? «Un cretino di talento». Feltri privato: la mamma, le donne. «Una volta, con le donne, io praticavo il mordi e fuggi. Secondo il mio psichiatra questo comportamento derivava dal vuoto lasciato da mia madre neu'infanzia». Da ragazzo ha amato ((tantissimo» Napoleone. Poi, è rimasto affascinato dall'imperatore Adriano: dal senso dell'onnipotenza umana, all'incapacità dell'uomo di risolvere i suoi problemi. Gli piacerebbe «morire fucilato». Ma, prima, vorrebbe togliersi imo sfizio: «Dirigere il Corriere della Sera». Anche se ha un dubbio: «Mi è parsa vagamente iettatoria la proposta di un volume sul Feltri-pensiero, alla mia età. Poi, la notizia che chiedevo notizie sulla pensione m'ha consentito di leggere i necrologi su di me senza spingermi al suicidio. A quel punto, mi stava bene anche il libro, senza pensarlo come post mortem». Mario Tortello