MONTANELLI giornalista per vocazione bandito mancato di Mario Missiroli

L'INTERVISTA. Leawenture L'INTERVISTA. Leawenture dell'«antitaliano» che riceve domani il Premio Ischia MONTANELLI giornalista per vocazione bandito mancato MILANO I NDRO Montanelli è I sempre più magro, I sempre più sottile, acu_AJ minato nelle parole, negli umori, nei ricordi. Sembra una baionetta. A 88 anni s'è ricostruito il suo «habitat», come lo chiama lui, nella nuova casa: un salottino-studio con una libreria a vetri, una poltroncina e una scrivania di ciliegio fatte da quel nonno che di mattina faceva il sindaco a Fucecchio. Circondato dalle foto di familiari e di amici, da Missiroli e Afeltra allo scrittore Jùnger e all'asso tedesco Galland, che nell'ultima guerra abbatté 160 aerei, lì Montanelli è Montanelli, continua a fare il giornalista. E' una vita che lo acclamano. E domani gli danno il premio internazionale Ischia di giornalismo: un premio speciale, alla carriera, perché quello normale l'ha già vinto. Direttore, si guardi indietro: qual è stato il primo giornale che ha letto? «Mio nonno un giorno mi mise davanti due portacenere, uno con la pubblicità della Nazione e l'altro del Corriere. "Bada, bambino - mi disse -. A scrivere su questo della Nazione ci arriverai, ma qui, sul Corriere, non ci riuscirai mai". E io: "Arriverò anche qui". Non sapevo quello che dicevo. Avevo sette anni». Perché voleva fare il giornalista? «Ce l'ho in corpo. Ci sono istinti che non hanno perché». Non è mai stato tentato da un'altra professione? «Una sola volta: volevo fare il bandito. A Nuoro divenni amico del ciabattino Stocchino che mi dava la colla per fare gli aquiloni, servizio che ripagavo scrivendo per lui biglietti d'amore per Peppedda, la nostra domestica. Una sera il ciabattino accoltellò il suo interlocutore in una bettola e fuggì. Per me fu un lutto. Scappai di casa due volte per raggiungerlo, senza trovarlo». Che cos'era per lei il giornalismo? «Lo capii più tardi. Era vita d'avventura, partecipazione ai fatti, comunicazione col pubblico. Era la gloria. Co minciai come correttore di bozze alla Nazione, poi passai a un quindicinale, L'Universale, dove c'erano Rosai, Bi lenchi, Pratolini. Mussolini ci convocò tutti a Palazzo Venezia e a un certo punto domandò: "Chi ha scritto l'arti colo contro il razzismo?" "Duce, io", risposi. Mi si avvi cinò e fissandomi negli occhi disse: "Vi elogio. Ricordatevi che l'Italia fascista non potrà mai essere razzista. Il razzi smo è roba da biondi". Era il '32. Nel '38 questo bischero fece poi le leggi razziali». Dai primi giornali agli ul timi. Che cosa ha letto og gi? «Oggi li sfioro. Non mi interessano più. Su questo Paese ho perso ogni speranza: tutto quello che ho sperato che fosse, cioè una nazione, uno Stato, lo ha fallito. L'Italia ha corrotto qualunque regime: ha corrotto i barbari, ha corrotto Gesù Cristo riducendolo alla Chiesa cattolica, ha corrotto il totalitarismo (in confronto a nazismo e comunismo), e ha corrotto la democrazia riducendola a partitocrazia. Ho visto tutto e ho visto marcire tutto». Che cos'ha l'Italia di tanto nefasto? «E' il popolo che non mi piace. Soprattutto mi delude la cultura: mi dà la nausea, mi fa schifo. E' cultura controriformistica sempre al servizio di un Principe, prima il Duce poi i partiti, e sempre nel conformismo più abietto». L'Italia la fa soffrire? «Mi ha fatto soffrire». Si sente isolato? «Rispetto alla corporazione, alla mafia accademica, agli intellettuali, sì; rispetto ai giornalisti, no. Attribuisco al giornalismo il grande merito di avere tratto la cultura dai bunker in cui è stata ridotta e da cui pretende di dominare l'Italia. I servizi resi dai gior¬ nalisti sono stati immensi: hanno dato una lingua alla cultura perché questa parlasse alla gente, hanno abituato gli scrittori a interessarsi di problemi veri». E oggi dove siamo finiti? «Non abbiamo saputo contrastare quel maledetto aggeggio che è la tv, gli facciamo anzi da altoparlante. E il nostro è un mondo conformista dominato dal marketing e dalle tecnologie». Lei è mai andato su Internet? «Mi rifiuto: ho orrore. Sono troppo vecchio». Usa mai il computer? «Non ho ancora capito che cos'è. Il mio top tecnologico è la Lettera 22, sempre quella, sempre di colore verde-azzurro. La prima la presi negli Anni 30 quando scrivevo per Omnibus: Longanesi e Ansaldo mi tolsero il saluto. Si sentirono traditi». C'è una foto famosa: lei seduto col cappotto su un mucchio di giornali, una Lettera 22 sulle ginocchia, lì che scrive. «Niente di romantico. Ero appena tornato dalla Finlandia al Corriere della Sera e trovai la mia scrivania occupata: appena alzi il culo, qui ti rubano il posto. Mi misi a scrivere senza accorgermi che c'era il fotografo Toscani, il padre di Oliviero. Fu nel '40». Montanelli, qual è la sua tecnica per scrivere un articolo? «Lo parlo mentre lo scrivo. Non mi faccio una traccia, un appunto, nulla. Cavo dalla memoria, anche in caso di interviste, perché la memoria seleziona. E quando non scrivo di getto, smetto. Aveva ragione Longanesi: "La foga dà stile". E scrivo come se parlassi a miei commensali a cena, cercando di stupirli e di tenerli stretti con l'ironia e la suspense. A volte invento qualche battuta, attribuendo¬ la per esempio a Clemenceau o a Talleyrand, due mie vittime». Vale ancora la pena fare il giornalista? «Non è una scelta, ma una condanna. Tre giorni fa ho avuto un grave colpo. Sono incappato in un gruppo di donnette e una mi dice: "Noi la seguiamo sempre, continui così, signor Biagi". Ho telefonato a Enzo: "Senti, chiudiamo i conti: chi si deve arrabbiare, tu o io?"». Tornerebbe a fare il giornalista? «Il giornalismo d'oggi non m'attira. Farei piuttosto il professore di liceo, come mio padre. Io so benissimo che di me non rimarrà assolutamente nulla. Aveva ragione Ojetti quando mi disse: "Figliolo, ricordati che viviamo in un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri". Gli italiani non hanno memoria». Perché è rimasto in Italia? «Sono antitaliano, ma sono italiano. Il nostro giornalismo poteva comunque fare di più: gli è mancato il senso della missione». Vuol dire che è stato connivente col potere? «Come tutti. Ci sono state eccezioni: Albertini, Frassati, Pannunzio, Longanesi. Ma sono quarant'anni che non ci sono più eccezioni». E' una condanna morale? «Non ho un tale rigetto, neppure la tentazione. Io devo continuare a fare questo mestiere. Cosa farei se non lo avessi? La gente mi infastidisce, detesto la vita mondana. Scrivo per restare solo. No, non ho ceduto. Ho rifiutato la direzione del Corriere e della Stampa non per l'età che ho, ma proprio perché avrei dovuto barcamenarmi, venire a patti coi politici, diventare un po' diplomatico. Io non ci riesco. Sono per le posizioni nette, taglienti». Qual è stato il momento più amaro della sua carriera? «Mi hanno ghettizzato per dieci anni al Giornale. Mi ricordo un articolo di Scalfari (te lo raccomando, quello lì; ma ora siamo amici): un editoriale contro la Rai perché mi aveva intervistato per tre minuti: "Una tv pubblica non doveva farlo", scriveva. Furono però anni anche esaltanti: essere solo contro tutti! Come mi piaceva! E alla Voce ho perso oltre la metà dei miei lettori, che mi hanno odiato e continuano a odiarmi: avrebbero preferito vedermi al servizio di Berlusconi. Non avevano capito che io non servo». Che rapporti ha con Berlusconi? «Ogni tanto andiamo a cena. Mi dispiace del nostro litigio perché gli voglio bene per il suo comportamento di editore: non ha mai interferito. Ed è una persona divertente, dotata di risorse infinite, che mi affascina per la fantasia e il coraggio». Riconosce in giro un nuovo Montanelli? «Di bravi ce ne sono, ma sono prodotti in serie, senza stile personale». Ha sanato le antiche liti? Con Giulia Maria Crespi e Piero Ottone, per esempio, editore e direttore del «Corriere» nel '73, quando lei andò via. «L'Avvocato Agnelli vuole farmi incontrare con Giulia Maria. Ormai siamo vecchi tutti e due. Accetterò». E Ottone? «Mai trovato un cinico come Ottone! Per lui è come se non fosse mai avvenuto nulla: "Caro Indro, come stai?". Io sono affettuoso, lascio perdere. Siamo a fuochi spenti; prima di morire si liquidano queste faccende. Quello che non riesco a perdonargli è di aver dato al Corriere un andazzo incompatibile col suo passato. Bisognava rispettarlo, perdio! Dopo, ahimé, non l'ha più recuperato... Comunque ricordati: il giornalismo è l'unica passione a cui sono rimasto fedele. Sempre». Claudio Altarocca «Sanare le antiche liti? L'avvocato Agnelli vuole farmi incontrare con Giulia Maria Crespi: ormai siamo vecchi tutti e due, accetterò» A S Mg con la sua celebre Lettera 22; qui sopra Mario Missiroli