L'altra vita di Angelo «Da tortona al giro della cocaina»

L'altra vita di Angelo L'altra vita di Angelo Da Tortona al giro della cocaina TORTONA. «Future hope» mercantile battente bandiera liberiana, alla fonda nel porto di Genova con 120 chili di coca. «Speranza nel futuro» quella che il tortonese Angelo Veronese, ha sempre avuto, già da prima del '91, data ufficiale del «pentimento», consegnando a «Titti la rossa» (allora sostituto procuratore a Savona) quarantacinque complici, spacciatori, narcos colombiani, e un pediatra di Voghera, Giorgio Cevini. Tutti coinvolti nel traffico di coca, il primo luglio dell'89 furono condannati complessivamente a 575 anni di carcere e cinque miliardi di multa. Gli inizi della «carriera». E' il 1982, il tortonese già contrabbandiere di sigarette tenta «il salto» di qualità. Con qualche amico di Tortona e Voghera «viaggia» tra Italia e Colombia. Nell'88 le indagini della Parenti con la Dea americana e l'Fbi portano alla raffineria di Tovo San Giacomo, un paesino sopra Pietra Ligure. Veronese intuisce qual è la strada migliore: c'è un carabiniere infiltrato nell'organizzazione della «Future hope» e con lui si accorda. Ricorda che il 6 gennaio di quattro anni prima, a Trieste, era finito in manette dopo una «soffiata» (allora non era in uso il pentitismo), gli inquirenti infatti non avevano mai rivelato i particolari dell'operazione: si era saputo che da Milano la coca arrivava a Trieste, nel basso Piemonte e a Voghera. Allora Veronese era solo un corriere. Ci riprova con la «Future hope». Con lui lavorano i coniugi Pietro Mogliati e Norma Carignano: ed è probabile che allora decidano di «pentirsi» insieme. Finiscono alla sbarra l'anno successivo, ma Veronese non farà mai un giorno di carcere. Una tranquilla vita da pentito. In città torna e vive quasi normalmente, cambia solo casa: da corso Montebello, alla destra del Tribunale dove la suocera ha un negozio da fiorista, passa in una via di fronte al palazzo. Cinquanta metri, più o meno, dalla porta d'ingresso dei magistrati. Il posto più sicuro, al centro della città, e più che mai controllato. Sicuro come lo è Veronese, che il 15 giugno si infuria quando un giornale locale pubblica una sua vecchia foto, e la storia della coca e del pediatra. Piomba nella redazione e minaccia di chiamare i carabinieri. E l'anonimato? E il programma di protezione? Ma non era in una collina dispersa nelle valli? «Per soldi farebbe qualunque cosa»: i concittadini hanno poca stima nei suoi confronti, ricordano che il negozio della famiglia della moglie è stato venduto per far fronte al ritmo di vita preferito da Veronese. Bei vestiti, poca fatica e potersi muovere liberamente. In quella via stretta proprio di fronte al Palazzo di giustizia, sul citofono c'è il nome della moglie. E sarà proprio una conversazione telefonica con la moglie a incastrarlo in questa vicenda. Al secondo piano di una vecchia casa ristrutturata vivono le due fighe e la suocera. Le ragazze difendono ciò che resta: «Non parleremo con nessuno, non voghamo fare la fine dei Furlan». Lui e i Ros. Veronese sembra abile tanto da diventare infiltrato per conto dei Ros, così nel '91 blocca il tentativo del clan dei «Fidanzati» di entrare nel mercato milanese della cocaina: al secolo operazione «Pinacolada». Nel «giro grosso» quello dell'importazione diretta dalla Colombia era entrato col mercantile «liberiano», e aveva millantato credito spacciandosi per un raffinatore di pasta bianca. Ricorda a Riccio che le attrezzature sequestrate nell'88 a Tovo non sono state distrutte. Vengono portate nella caserma di corso Europa - così nei verbali del colonello Riccio - e con quelle Veronese tenta di analizzare la «roba» che aveva ottenuto da Fi danzati. Ma lo stesso colonello smentisce l'abilità di Veronese: «Non riuscì a recuparare droga dalle raffinazioni, in realtà il vero chimico era Mogliati, Veronese era un apprendista stregone». Antonella Marietti Angelo Veronese in una foto di qualche anno fa