«Non è poi andata tanto male» di Pierangelo Sapegno

«Non è poi andata tanto mele» «Non è poi andata tanto mele» / Serenissimi non si disperano: temevamo peggio MESTRE DAL NOSTRO INVIATO Al bar non c'era nessuno, il marciapiede vuoto, un telefono che squillava e il Tonio che s'asciugava la pelata sotto al sole. «Questo è un paese di fifoni», diceva Gino Peroni, infermiere professionale in pensione, il papà di Luca, 59 anni senza splendore e senza brillantina. Lui alle 17 stava accanto al telefono ad aspettare una chiamata. Guardava le mura di pietra da Colognola ai Colli, le balze di vigne, i colori accesi dell'estate. A quell'ora, nell'aula bunker di Mestre, la presidente Graziana Campanato s'affacciava alla porta, dietro agli scranni dei giudici. Un'occhiata fra le sedie quasi vuote, una sbirciatina all'orologio. Il figlio di Gino, Luca Peroni, era nella stanza con gli altri ragazzi della Serenissima, il Vecio, l'Amigo, il Bocia, Fantolin, Veronesi, Ufo, tutti i loro nomi di battaglia. Luca è Pasque, non sappiamo perché. «Io sono fiero di mio figlio», diceva Gino, il babbo, «sono fiero di quello che ha fatto». Anche se lo condannano? «Anche se lo condannano». Adesso, quando sono due minuti dopo le 5, gli 8 entrano in aula, in fila indiana, awoiti da un silenzio un po' irreale: il primo è Cristian Contin, poi Buson, l'ultimo è Barison. Luca Peroni detto Pasque è il sesto. Ha un sorriso storto in faccia, forse di paura. Nessuno di loro si volta a guardare indietro, a cercare le mamme, le sorelle, gli amici. Nell'aula ci saranno cento persone, non di più, e 50 sono giornalisti. La storia dell'assalto di San Marco sta per finire qui, in un mercoledì qualunque di piena estate, con il pulmino verde della Lega che correva chissà dove sull'autostrada, e la gente che correva al mare, e Venezia assalita dai turisti, e Tonio che bagnava la testa nella fontana. Erano le 5. Alessandra Buson, la moglie di Gilberto detto Amigo, chiacchierava con una signora bionda che le stava seduta di fianco, pasticciando la sua mano, accarezzando i capelli, fissando lo scranno ancora vuoto del giudice. Come si chiama quello?, chiedeva la signora. «Lo so, ma non ricordo», rispondeva Alessandra Buson. «Non gò altri pensieri che mi girano in testa, non ci riesco, non chiedermi niente». Al suo paese, al bar. Al telefono, non c'era nessuno, tutto chiuso, tutto piatto, il sole che inseguiva le ombre dei platani, il cielo dei padani sopra le teste, questo cielo come una piana, questo cielo di noia. Con la colletta del bar hanno raccolto due milioni e mezzo per «gli eroi della Serenissima», come c'è scritto sulla carta stagnola. Da lunedì comincerà il presidio del Comitato, a Cartura, e daranno uno stipendio al mese, di due milioni, alla signora Buson. Intanto, bisogna arrivarci, bisogna passare da qui, da questa sentenza. «Speriamo bene», diceva Alessandra, la moglie del Gilberto, alle 5 e 4 minuti. In quel momento, è entrata la corte. Graziana Campanato, la presidente, ha cominciato a leggere la sentenza, nello stesso silenzio di prima, appena sfiorato da una penna che cadeva, dallo scatto di una macchina fotografica. Ci mette sei minuti. Luca guarda il suo avvocato, non capisce. Sei anni ai veci del gruppo, 4 anni e 9 mesi ai bocia. Poi, il presidente, dice che per loro, per i ragazzi, ci sono gli arresti domiciliari. Alessandra piange dall'inizio, da quando il giudice ha detto «condanna». Si abbatte sulla sedia. Anche la signora bionda piange, mentre le telecamere le inquadrano e i fotografi si avvicinano. «Bestie», soffia verso di loro. Roberto Chiaranda, del comitato sostenitore, fa il giro delle sedie, si mette davanti per coprirle: «Per favore, ma fate proprio schifo, stanno piangendo, che cosa volete fare?», Poi fa segno all'Alessandra di alzarsi, «dai, andemo via, se no qua facciamo tardi. Nessun commento». Non c'è bisogno di dirglielo. Lei non finisce più di piangere. Moreno Menini, nome di battaglia bocia, sussurra al suo difensore: «Ma non è andata male...», guarda gli altri per capire bene. Forse è vero. Pure l'avvocato Fadalta, il difensore di Buson, alla fine racconterà ai giornalisti che gli imputati erano «sollevati», alla lettura della sentenza: «Si era partiti da 25 anni a testa, si è arrivati a un massimo di sei». Forse è vero, o forse no. La fidanzata di Fausto Faccia si avvicina alle transenne, lo chiama: «Stai forte, stai su». Forte, gli risponde Faccia. L'Alessandra va anche lei alle transenne, suo marito adesso sorride, non c'è più paura, non c'è più niente: «Gilberto, ci vediamo domani, al colloquio». Sì, domani, dice lui. «L'avrei mai detto», singhiozza l'Alessandra. Fabio Padovan, presidente della Life, urla: «Grazie». Buson si gira, «grazie», gli dice Padovan, «grazie a tutti». Alessandra esce scortata, assalita dai fotografi, qualcuno urla «bestie», lei quasi ringhia: «Vai a fotografare Scalfari». Sono le cinque e un quarto. E' a quell'ora che squilla il telefono di Gino Peroni. Stasera Luca toma a casa: «Non so ancora se verrà qui, o da Graziella, sua moglie. Mi si è aperto il cuore quando me l'hanno detto. E io sono orgoglioso di quello che ha fatto. E non mi frega niente se mi sente Papalia». E' il magistrato delle mdagini sulle secessioni, Papalia. E in paese?, gli chiedono: faranno qualcosa adesso in paese? «Ma no, in paese sono tutti fifoni. Penso che non faranno niente». Ma adesso, lì fuori, su questa stradina che muore nei campi, davanti all'aula bunker affogata sotto al sole, ci sono solo 30 persone, un po' di amici, un po' di parenti, i carabinieri che guardano, le telecamere che ronzano. C'è Fabio Padovan che tiene concione, elice che «è una sentenza infame, terribile. Oggi lo Stato è morto, lo hanno suicidato. Noi però dovevamo dare di più, dovevamo essere in tremila oggi qui, e non abbiamo fatto abbastanza. Vuol dire che il Veneto non è capace di alzare la testa quando ce n'è bisogno». Ci sono gli avvocati che escono accerchiati dai cronisti, e qualcuno come Franco Antonelli ripete che «loro sono moderatamente soddisfatti». Fadalta gli fa eco: «Beh, temevamo peggio». Dice: «Da veneto, penso che una sentenza di questo genere serva a stemperare le frizioni di ordine sociale». Ma Padovan sta dicendo il contrario, osserva qualcuno. «Non so. Io non mi occupo di politica». Sono le sei, il cielo della Padania è tutto sgombro. E nei paesi della Bassa, da Cartura a Conselve, da Agna a Monselice, sono tutti arrabbiati. Come Gelindo Merlin, smdaco di Agna che dice: «Siamo sconcertati», come Silvestro Bazza, smdaco di Cartura e Giorgio Gradella, di Conselve: «Gli hanno dato troppi anni. Era solo un atto dimostrativo». Don Renato, il prete di Casale Discodosia, soffia come se fosse in preghiera: «Hanno esagerato a dar tutto questo peso alla pericolosità dell'azione. Queste vite ora saranno segnate per sempre». Non c'è un alito di vento sulla bassa. Dal bunker, esce il cellulare con gli otto serenissimi e sfila davanti a un gruppetto. Urlano: «Liberi liberi», Roma ladrona, Roma stalinista, urlano Viva Venezia, urlano Grazie. L'ultima voce è ironica: «Viva Stalin». Pierangelo Sapegno I familiari piangono Gli avvocati: sono abbastanza soddisfatti Padovan: giudici infami Ma oggi i veneti non han saputo alzare la testa Flavio Contin e Luca Peroni, dietro le sbarre, attendono la entenza ifoto errebi