CERCANDO I SUSSURRI DI CITTA E COLLINE

IL CLASSICO IL CLASSICO di Alessandro Fo LA preziosa collana «Minima» dell'editore Salerno editore propone, accanto a un divertente pamphlet «mondano» sugli abbigliamenti di moda a metà del '600 (Andrea Genuzio, Satira ed antisatira, a cura di Girolamo de Miranda, pp. 136, L. 14.000), gli austeri Salmi penitenziali del Petrarca (a cura di Roberto Gigliucci, pp. 84, L. 11.000). Sono sette composizioni latine scritte di getto in un unico giorno (forse del 1347 o 1348), ad emulazione delle sette composizioni estrapolate dal Salterio come «penitenziali» nella tradizione liturgica. Petrarca compete qui con le nuove bellezze stilistiche che sente di aver scoperto in testi prima da lui avvertiti come troppo disadorni rispetto ai suoi classici. Roberto Gigliucci introduce l'opera con efficacia e ne propone una traduzione che attinge al Petrarca volgare, venandosi anche di dantismi che chissà se il poeta avrebbe interamente gradito. Per Petrarca comunque, corrono tempi d'oro: oltre alla magnifica edizione delle opere italiane diretta da Marco Sant'Agata per i «Meridiani», pregevoli tascabili come questi Salmi o le assai interessanti Lettere di viaggio egregiamente curate da Natascia Tonelli per Sellerio (pp. 122, L. 15.000). IL VAGABONDO Nels Anderson Donzelli pp. 240, L. 22.000 Un convegno a Roma domani, 4 luglio ORME sotto le stelle, tra le lenzuola di cartone e non sa di essere un eroe. Proprio lui, il balordo, il «cavaliere della strada» è il reuccio ispiratore di tanta moderna etica (dei barboni parleranno domani 4 luglio Portelli, mons. Di Liegro, Fofi e Rauty, all'interno della rassegna «Culture metropolitane», organizzata dall'assessorato alla Cultura di Roma e da Maria Ida Gaeta; mentre Donzelli ristampa un classico dell'argomento, Hdbo il vagabondo di Nels Anderson, a cura di Rauty). C'è il vagabondo in sella, ovvero il cow-boy, c'è Charlot, il barbone dalle smisurate scarpone e ci sono i bighelloni di Robert Walser, di Knut Hamsun e di Hermann Hesse; ci sono i figli dei fiori e i nevrotici peripatetici del regista Wim Wenders. Ma tra i vagabondi di ieri e i pìcari straccioni profumati di cassonetti, com'è cambiata l'immagine dell'itinerante che non ha un tetto e non lavora? Per l'appassionata testimone e studiosa della letteratura americana, Fernanda Pivano, i beat sono stati gli ultimi rappresentanti della frenesia deambulatoria. L'età dell'oro termina con loro: «Vagabondaggio è sinonimo di libertà. Kerouac e Neal Cassidy, per esempio, ne hanno ben rappresentato l'epos. Ma la spinta propulsiva di una cultura che ha segnato gli Anni 60 e 70 si è esaurita. E' finita con la morte dell'autostop». Fernanda Pivano: i beat fiwono gli ultimi deambulatori. Beltin: attenzione, adesso ci sono gli immigrati Eppure a smentire l'opinione dell'americanista, c'è l'esercito dei diseredati che ha fatto la sua apparizione in questi ultimissimi anni: per esempio sono dedicati agli immigrati le inchieste e i romanzi di Mario Fortunato, Oreste Pivetta e di Edoardo Albinati; zingarelle randagie e stuprate sono le protagoniste dei racconti di Susanna Tamaro e Melania Mazzucco. In cosa consiste l'appeal del disperato? «Esiste una splendida tradizione narrativa che non manca di suggestionare chi scrive. I modelli letterari vanno da Orwell, autore di A Parigi e a Londra senza una lira, a Nabokov - commenta Antonio Debenedetti, di cui uscirà tra breve da Rizzoli una raccolta di racconti con al centro il dramma di vagabondi ed esuli provenienti dai Paesi dell'Est -. I Déracinés di oggi sono il simbolo del moderno individualismo, della fine di ogni utopia collettiva». Ma nel romanzo italiano il fannullone libero e sventato è ancora alle prime armi, deve crescere e acquistare forza evocativa: lo sostiene Gianfranco Bettin, narratore e autore di reportage: «Ci vuole qualcosa di più, in modo che la narrativa rappresenti non solo un Fernanda Pivano: i beat fiwono gli ultimi deambulatori. Beltin: attenzione, adesso ci sono gli immigrati microframmento di vita desolata, ma lo riempia di echi e di richiami. Forse saranno proprio gli immigrati, come ha fatto per esempio Anif Kureishi, a scrivere libri più autentici sui vagabondi». Intanto il numero degli spostati in carne ed ossa in Italia sta avendo un pauroso balzo in avanti: «I barboni sono più numerosi al Nord e molto meno presenti al Sud, dove c'è grande ritegno nel confessare la povertà e dove i legami familiari sono più forti - avverte il sociologo Rauty -. Esiste però un dato inquietante: l'età media di quelli che si "perdono" oscillava in passato tra i 30 e i 50 anni e adesso tra i 15 e i 16 anni». Nell'ultimo libro di Giuseppe Culicchia i laceri commensali di banchetti a base di Kit Kat sono poco più che adolescenti: «M'interessava capire - dice Culicchia come si possa arrivare ad una lucida volontà di autodistruzione. Il barbone non impersona l'ultimo mito romantico. E' invece una presenza che ci deve far riflettere, sul bisogno diffuso di trovare la propria identità fuori da ogni schema». Mirella Serri CERCANDO I SUSSURRI DI CITTA' E COLLINE IL VIAGGIATORE IMMAGINARIO Attilio Brilli // Mulino pp. 160 L 18.000 AREZZO VIAGGIATORE IMMAGINARIO Attilio Brilli // Mulino pp. 160 L 18.000 N queste settimane di weekend e di vacanze giunge la voce di uno studioso che all'arte di viaggiare, di cogliere il volto, il genio di una pietra, di un monumento, di un paesaggio, ha dedicato alcuni libri tanto raffinati quanto di successo. L'ultimo, di due anni fa, si intitolava proprio Quando viaggiare era un'arte. Il romanzo del Grand Tour (Il Mulino). Lo studioso è Attilio Brilli, che insegna Letteratura americana a Siena: a questo tema del viaggio è arrivato come per curarsi, per disintossicarsi da un'overdose di satira, che è stato per anni il suo campo prediletto d'analisi. «La satira è tragica - racconta Brilli, 60 anni -. E' ben diversa dal comico. E m'aveva contagiato, m'aveva reso un po' troppo saturnino. Del resto già in epoca elisabettiana si consigliava, a chi precipitava nell'umore malinconico, di mettersi in viaggio». E così ha fatto Brilli: salutati Swift e compagni, s'è messo a navigare fra guide, diari e romanzi di celebri viaggiatori, soprattutto inglesi e americani, che negli ultimi secoli hanno amato l'Italia. Stavolta però il suo intento cambia. Non è più soltanto brillantemente rievocativo, non si esaurisce nell'analisi di un gusto, di una sensibilità, di una scoperta: ora di¬ viene, con discrezione squisita, quasi un invito, un'esortazione. Jl viaggiatore immaginario, appena uscito, è una specie di manifesto. Contiene un allarme, la denuncia di un pericolo che è già qui: i luoghi scompaiono, il mondo si ritira, diventa invisibile. Non soltanto perché è ormai noto, percorso e ripercorso infinite volte, e perché è scempiato dalla modernità e usurato dal turismo, dalla folla e dalla Esiliati per forza da Milosz a Herling fretta: ma perché siamo noi stessi che non sappiamo più né vedere né ascoltare. «Siamo vittime di una galoppante stereotipia del gusto - spiega Brilli-, Se per esempio andiamo ad Assisi, tutto si riduce a vedere il corridoio da Santa Chiara a San Francesco. Invece già Goethe ci insegnava che l'Assisi più affascinante era quella romana, che nessuno va più a vedere. Non si vuol più fare fatica nel visitare qualcosa, ma senza fatica non c'è viaggio vero». Che cos'è un viaggio vero? Come lo si realizza? Qui scatta l'arte, secondo Brilli. Sostiene che «il viaggio bisogna prima costruirselo facendosi accompagnare dai viaggiatori del passato» : poi magari me ne dimentico e faccio scoperte tutte mie, ma intanto comincio a impadronirmi di altre inquadrature, di altre chiavi di penetrazione; capisco che ogni luogo è un palinsesto, una serie di memorie e di interpretazioni. «Il viaggio è anche un'escursione nel tempo, non solo uno spostamento nello spazio», diceva ieri Aldous Huxley, ripete og¬ gi José Saramago. E imparo la tecnica dell'approccio: un luogo, che sia un paese, una collina o una vallata, esige di essere riconosciuto come un'individualità, richiede un rituale, un corteggiamento specifico. E allora da una crepa, da un muro, da ima prospettiva inizio a intuire la sua particolarità, il suo genio, e posso godere delle forme, dei colori, dell'aria e delle storie che vi affiorano. In un certo senso il viaggio è un'esperienza iniziatica. Se il viaggiatore sa anche abbandonarsi, sa fare quasi il vuoto dentro di sé e si apre realmente a ciò che lo circonda, allora fa tutt'uno con il luogo: ma non perché vi si immerge e ci si dimentica dentro, come avveniva per i romantici, ma perché semplicemente lo sa guardare e capire. Attilio Brilli propone itinerari concreti, sulle tracce dei suoi amati viaggiatori-scrittori. Va da Vallombrosa e Camaldoli a Borgo San Sepolcro, e da Arezzo s'inoltra verso la Valtiberina seguendo la via di Trollope; ed ecco la valle del Metauro, ecco le strade e i paesi che ESULI a cura di Paolo Mattei Minimum Fax pp. 230 L 18.000 ESULI a cura di Paolo Mattei Minimum Fax pp. 230 L 18.000 SULE e vagabondo. Un morbo li accomuna. Gli specialisti la chiamano «dromomanìa» o «wanderlust», la malattia del perenne movimento. Primo ad esserne colpito il clochard, ma non si sottrae alla sindrome anche l'esule («Il destino dell'espatriato - ha detto Brodskij è simile a quello di un uomo o di un cane catapultato nello spazio dentro una capsula»). Pochissimi soldi, una valigetta scalcinata, in tasca una lettera-passaporto per la libertà: avendo ottenuto una borsa di studio il filosofo Emile Cioran spiccava il volo e nel 1937 fuggiva dalla Romania per la Francia. Quel battito d'ali che lo portava lontano finiva per apparirgli come un'aberrazione: «Darei tutti i paesaggi del mondo per quello della mia infanzia... Ma in realtà siamo tutti perseguitati dalle nostre origini; i sentimenti che m'ispirano si traducono nel linguaggio dell'autopunizione... Un patriottismo simile è di competenza della psichiatria». Anche un altro grande «emigrato», il polacco Czeslaw Milosz, visse con angoscia la nuova vita all'estero, quando nel '51 chiese asilo politico in Francia: aveva il terrore di non riuscire più a scrivere, di essere tagliato fuori dalla storia, sia del proprio Paese che della patria di adozione. Le fosche previsioni del futuro Nobel verranno poi smentite. Brodskij diceva: «L'espatriato è come un uomo o un cane che venga catapultato Un altro suo celebre connazionale anche lui espatriato, Gustav Herling - introducendo le testimonianze di narratori contemporanei raccolte da Paolo Mattei in Esuli - osserva: «Nella nostra scelta non c'era nulla di particolarmente drammatico... Nei nostri pensieri non dominava affatto la paura della morte, civile e artistica». Qual è il vero volto dell'esilio per uno scrittore attuale? Gli ultimi peregrini eredi di Ulisse e di Dante subiscono o celebrano la loro condizione? «Nei primi anni in cui ero fuori dal mio Paese - dice Herling incontrai un caro amico di Varsavia. Durante una delle nostre conversazioni lui pronunciò una frase che mi restò scolpita nella memoria: "La vostra libertà di esuli è vera, sì, ma inutile, nel senso che è piena di valori nobili, ma non porta ad alcun sbocco immediato"». Questo senso d'impotenza non durò però molto per Herling. Ma il tormento e l'estasi per avere una doppia patria spesso non si placano: abitare in un posto reale e in uno immaginario può diventare un'ossessione. L'esule indossa i panni del vagabondo: «Il rischio più grande per l'esiliato è di ritrovarsi prigioniero della nostalgia», osserva il viaggiatore instancabile Luis Sepùlveda. E che bisognasse fuggire la nostalgia lo confermava anche Brodskij diceva: «L'espatriato è come un uomo o un cane che venga catapultato nello spazio» un altro scrittore itinerante, Juan Carlos Onetti. Mentre Brodskij si faceva un vanto della sua «schizofrenia», Solzenicyn reagiva alla disperazione del rientro in un mondo che non riconosceva imbarcandosi sulla Transiberiana alla ricerca del suo Paese perduto. «Anche per chi, come me, non ha avuto nessuna precisa costrizione storica e l'esilio è stato una scelta volontaria, esisteva un conflitto che non si risolve - osserva Vincenzo Consolo, che da anni ha abbandonato la Sicilia per Milano -. Lo rappresenta bene Ulisse, il primo esiliato della nostra storia. Dopo essere approdato all'isola dei Feaci, luogo accogliente e ideale, vuole, nonostante tutto, continuare a viaggiare, rientrare a Itaca. Chi si sradica, s'immerge in una specie di cristallizzazione, non avverte lo scorrere del tempo, pensa che la vita si sia fermata in quel posto della memoria, dove non esiste il degrado, l'imbarbarimento. Naturalmente è destinato alla disillusione. Il narratore diviso tra due patrie finisce per guardare sempre altrove. Ma in questo perenne movimento c'è anche un elemento positivo, lo scrittore dall'essere "fuori" riceve una spinta ulteriore». [m. s.] Attilio Brilli lascia la satira e si mette a navigare tra guide, diari e romanzi di celebri viaggiatori: il risultato è una serie di itinerari sulle tracce dei grandi, da fiero della Francesca a Dickens Piero della Francesca attraversava fino a Urbino, dove s'era inerpicata Vernon Lee nel 1883. Poi c'è Siena e le sue interpretazioni, come quella fulminante di Dickens: Siena sarebbe una specie di Venezia, «ma senza l'acqua»; e un visionario Camus avrebbe voluto arrivarci a piedi di notte, senza denaro e solo, per dormire vicino a una fontana. E c'è la malfamata Radicofani di Ghino di Tacco, ci sono Viterbo, l'Etruria, Lucca... Importanti non sono però i luoghi collinari della mirabile Italia centrale, ma il metodo suggerito, e cioè questo saper ascoltare i viaggiatori di ieri e questo svuotarsi e aprirsi al «sussurro dello spirito del luogo», un sussurro che addirittura diventa - drammaticamente - «l'ultima delle finzioni», l'ultima immaginazione, in un mondo omogeneizzato in cui troppi vedono le stesse cose senza più l'estro, la curiosità di deviare dalle autostrade e dai comodi percorsi illustrati dalle guide standardizzate. In Brilli si aggira segreta questa disperazione, questo amore per le estasi e i racconti che si perdono, sprigionati dalle bellezze dei luoghi. «Hawthorne, ad esempio, seppe vedere la doppia natura di Perugia, luminosa e oscura, nel suo romanzo Il fauno di marmo - racconta lo studioso -. E James avvertiva lo scricchiolio delle pietre e il gemito delle travi in piazza del Campo a Siena, e immaginava d'essere accompagnato da coorti di fantasmi sulle rive del Trasimeno, dalle ombre dei soldati di Roma e d'Annibale. Dovremmo anche noi riscoprire l'immaginazione nel viaggiare. Per questo la letteratura di viaggi incontra oggi tanta fortuna: i viaggi effettivi diventano sempre più deludenti; bisogna allora sopperire e arricchire con l'immaginazione, il desiderio, il sogno. Perché il viaggio è inquietudine, ricerca di se stessi: mentre il turista consuma ogni luogo, il viaggiatore, come diceva Bowles nel Tè nel deserto, non pensa mai di tornare». Claudio Aitarocca