«Spero che Dio abbia un posto per me»

«Spero che Dio abbia un posto per me» «Spero che Dio abbia un posto per me» Un'intervista con Guevara, trentasei anni fa a Cuba CHIESI se sapessero chi fosse quel tipo col basco e quelle risposero che era «un combattente della libertà han detto ch'è morto ma forse è ancora vivo». Osvaldo Soriano ha scritto che l'esempio del Che è stato frainteso al punto da portare alla morte molti giovani nel mondo; al punto da trasformare piccoli ragazzi incauti in terroristi (che oggi invocano pietà). Malato di «volontarismo», cultore di una utopia romantica (ma feroce), Guevara è stato ammazzato dalle sue stesse contraddizioni generose più che da un lurido sottufficiale ubriaco. Uomo-simbolo, il Che ha scatenato la generazione del benessere: ogni sfilata, ogni comizio degli esaltanti Sessanta (e dei terribili Settanta) porta l'impronta di Guevara. Quegli anni, ha scritto Maurizio Chierici, erano cominciati con i Beatles, il volo di Gagarin, la pillola antifecondativa e finiscono «nel segno di una giovinezza sacrificata che contamina ogni cosa». Perché? Forse - è la risposta possibile -, perché a far da battistrada a Guevara è un fenomeno importantissimo per il successo della sua immagine: la Pop Art-Andy Warhol. Guevara fu un eroe tragico perché i fatti gli han dato torto. «No disparen, soy el Che», dice ai soldati boliviani che gli puntano addosso il mitra. Brandisce la carabina con una mano sola poiché l'hanno ferito. Mal coperto da una sorta di giacca a vento bluastra che non riesce a celare una camicia lacera, senza più bottoni; i calzoni kaki a brandelli, rozzi mocassini ai piedi coperti da calze di lana verde a righe gialle, tenta di portarsi a ridosso d'un pietrone, tirandosi dietro il tascapane. «Soy el Che», ripete fiero ma senza arroganza, rassegnato oramai, eppure il «berretto verde» boliviano che lo cattura dirà che quelle parole («Soy el Che») gli trapassano le viscere. Il comandante Guevara e i suoi ultimi guerriglieri sono in rotta dal 26 di settembre del 1967: sfuggiti all'imboscata all'Abra del Batan, consumano il conto alla rovescia. Lucidamente. Un testimone dirà a Lucio Lami: «Li vedemmo arrivare a La Higuera in tarda serata, verso le otto, mas o meno. Il Che, claudicante perché ferito al polpaccio destro, procedeva appoggiandosi a due soldatitos. Dietro, scortato, veniva Willy il boliviano. Seguivano alcuni campesinos con in spalla i morti». Chiudono il Che e Willy in un'aula della scuoletta. Mentre la radio convulsamente ripete all'alto comando: «Papa està con nosotros» (Papa è lui, Guevara), un caporale redige pignolescamente l'inventario del «materiale trovato indosso al prigioniero e nella borsa a tracolla del medesimo catturato»: un altimetro, quattro orologi di compagni caduti, una pistola calibro 45, un coltello da caccia Solingen, una pipetta da mate con relativo recipiente, mezzo sigaro, 20 mila pesos, 1500 dollari, 2 agende del diario, sussidiari di storia e geografia della Bolivia, la fotografia dei figli, una carta topografica annotata di pugno del Che, un passaporto di servizio. A un tenente che viene a trovarlo, il comandante Guevara chiede un'aspirina e intanto gli spiega come medicarlo. Si vuole che sussurri, quasi a se stesso, queste parole: «Abbiamo fallito... per il momento... ma la causa rimane, rimane...». La mattina del 9 di ottobre gli slegano le mani: arriva infatti il colonnello Ramos («quello della Cia»). «Tu mi prendesti a calci, fu a Cuba, ricordi?», dice Ramos. «Vendicati, che aspetti», dice il Che, ma l'altro: «Non ne sono capace» sorride e gli tira la barba: dapprima con (finta) dolcezza, poi a strappo ed il Che lo schiaffeggia: «Sei un verme, non sei cambiato Ramos». Forse con quella frase Guevara ha firmato la sua condanna a morte, chissà, ma di lì a poco, nel catoio dov'egli consuma il suo ultimo tempo di vita, irrompe un sergente col mitra spianato. S'è ubriacato per darsi coraggio e tuttavia non riesce a sparare finché il Che: «Mutarne, hijo de puta», gli ordina. E quello finalmente spara. Il resto è storia nota: portano il Che e gli altri con l'elicottero a Vallegrande, e lì lo seppelliscono: ai margini della pista di volo, esattamente dove, ora, hanno riesumato le sue ossa, frammiste a quelle degli altri guerriglieri rimasti fedeli al loro comandante davvero sino alla morte. Povere ossa, se le stanno disputando: per motivi turistici, già perché laggiù, in quella terra disgraziata, l'unica «attrattiva» è la fossa comune del Che. Ma a Castro, a Fidel basterà una tibia del suo vecchio compagno dimenticato per celebrare, una volta ancora, se stesso. Quando il 14 di gennaio del 1961, all'Avana, incontrai il Che, ebbi l'impressione che non stimasse poi tanto Fidel Castro. Trascrivo dei miei appunti: «Secondo lei, comandante Guevara, Fidel è un buon marxista? Ha un moto di fastidio poi, irritato esplode: "Ho scritto che la nostra posizione quando ci viene chiesto se siamo o non siamo marxisti è la stessa che adotterebbe un fisico o un biologo al quale si domandasse se è newtoniano o pasteuriano. Ci sono verità così evidenti e prepotenti, tanto legate alla conoscenza dei popoli che è del tutto superfluo discuterne". Ma allora come spiega che proprio l'altro ieri, nella cucina dell'Hilton, Fidel ha detto a me e ad altri quattro giornalisti, e ripetuto: "Noi non siamo né comunisti né anticomunisti. Siamo umanisti"? "Castro ha detto questo? Umanismo?, è roba passata. Né capitalismo, né comunismo: questo è parlare astratto", dice gelido, sprezzante il Che. (La sua collera dev'essere terribile). "Perché riesumar reliquie? Siamo oramai in un'altra epoca, oggi noi e i Paesi socialisti abbiamo un nemico comune: il capitalismo". S'accende un sigaro, aspira ingnignito ma infine sorride. L'ultima domanda: Dio. Ci ha creduto, ci crede, non ci ha mai creduto? Il Che lascia raffreddare la domanda, poi, quasi assorto, dice: "Quello dell'esistenza di Dio è un problema che, francamente, non mi sono mai posto. E tuttavia voglio dirle, forse perché sono un provinciale argentino mezzo spagnuole ecco, voglio dirle che se Dio esiste, come sostiene mia madre, ecco tutto sommato non mi dispiacerebbe che nel suo cuore, sen¬ z'altro grande, ci fosse un posto, magari piccolo, per me, per le persone che amo"». Sono passati 36 anni da questa risposta, il 9 di ottobre saranno trent'anni dalla sua morte atroce segnata dal fallimento dell'utopia e dalla violenza superstiziosa che fece sì che gli tagliassero le mani e lo seppellissero in mezzo metro cubo di terra passandogli sopra lo schiacciasassi, scaramanticamente. Oggi il Che va a passeggio sulle camicie dei ragazzi che han di lui vaga contezza ma ci sono ex ragazzi tuttora in galera per averlo voluto imitare, ignorando ch'egli scrisse testualmente: «Crediamo in tutta sincerità che il terrorismo sia un'arma negativa». Guevara, tragico eroe della nostra storia, dopo essere stato a lungo il poster di se stesso, «trent'anni dopo» torna finalmente uomo. Non da imitare ma da ricordare. Un uomo vecchio morto giovine, un uomo pulito da ogni peccato poiché il tempo ha «dolci nebbie e profonde rive», e la terra è il probabile paradiso perduto, come canta Garcia Lorca. (E il vecchio cronista osa pensare che don Ernesto avrà finalmente trovato quel «piccolo posto» nel cuore grande di Dio, dove consumare la memoria di se stesso). Un simbolo di rivolta per una generazione come i Beatles e la Pop-Art di Warhol Molti lo fraintesero e scelsero il terrorismo che lui condannava

Luoghi citati: Avana, Bolivia, Cuba