Amore e odio sotto la Mole di Giuseppe Mayda

Amore e odio sotto la Mole Amore e odio sotto la Mole Da culla della dinastia a capitale tradita UN LEGAME LUNGO 9 SECOLI BTORINO ASTA scorrere gli augusti atti di nascita conservati a Palazzo Reale, prima reggia sabauda, per scoprire l'antico legame fra la dinastia dei Savoia e Torino. Qui, già all'alba ieU'Anno Mille, quando la loro ^asa cominciava ad affacciarsi dalle Alpi Occidentali sulle fermili plaghe piemontesi, il figlio lèf leggendario Umberto Biancamano, conte Oddone, aveva sposato una marchesa torinese, Adelaide di Susa, che portava in dote vasti domini. Torino era stata la culla dei quattro più celebri Carlo Emanuele di Savoia, di cui gli ultimi due, dal 1730 al 1800, sarebbero diventati re di Sardegna; qui nacque Carlo Alberto, il sovrano che concesse lo Statuto, e qui - ricorda ancora oggi una targa sul frontone di Palazzo Carignano inaugurata il 9 gennaio 1884 vide la luce Vittorio Emanuele II; il monarca che tenne a battesimo l'Unità. Fu proprio Torino, infine, la città natale di Umberto, figlio del «re galantuomo» e della sua consorte, Margherita, prima donna a salire sul trono d'Italia. Legami di sangue ma anche politici, Possedimento dei Savoia dal XIII secolo, che vi avevano insediato l'Alto Consiglio di giustizia, Torino ebbe un salto di qualità attorno al 1560: Emanuele Filiberto, detto «Testa di Ferro», decise di trasferire la capitale del regno sabaudo da Chambéry a Torino, un «borgo fortificato» che all'epoca contava solo 19.845 abitanti (ed erano così pochi, rispetto alle proporzioni della città, che il duomo di San Giovanni eretto un secolo e mezzo prima sull'area di tre demolite basiliche, lungo 62 metri e largo 25, riusciva a contenere gran parte della popolazione). I Savoia che vennero dopo e che si impegnarono a rendere bella la loro capitale (Torino venne cintata da bastioni e protetta da una cittadella e sul tracciato di sei lunghi viali andò sviluppandosi, geometricamente, un grande centro urbano) rimasero però sempre distanti dai loro sudditi, anche quelli dei livelli sociali più alti; la vita della Corte fu costantemente tenuta celata dietro un velo di riserbo e di mistero: solo sul finire del '700, dopo la sconfitta subita dalla Francia rivoluzionaria, i Savoia aprirono la reggia alla piccola nobiltà per fare un bilancio della sfortunata guerra contro i francesi e, anticipando di 150 anni Mussolini, invitarono i sudditi a una sottoscrizione patriottica, donando oro e argento alle dissanguate casse reali. Tuttavia, dalla caduta della Repubblica napoleonica, Torino accolse con entusiasmo il ritorno dei Savoia che significava per la città il ritrovato ruolo di capitale di un regno non soltan¬ to restaurato ma ingrandito. E così si comprende perché, quando nel 1865 la capitale venne trasferita a Firenze, scoppiarono a Torino violente manifestazioni al grido di «viva Garibaldi», «viva la Repubblica» e, persino, «morte al Re», mentre le carrozze che andavano a Palazzo Reale per un ballo furono bersagliate di uova marce e bottiglie d'inchiostro. Se Vittorio Emanuele II mantenne la Corte a Torino, nel castello di Moncalieri (dove, in fondo al parco, c'era un villino che ospitava la sua amante di turno), se la vedova di Carlo Alberto, la regina Maria Teresa, trascorse la vita a Torino per dedicarsi a opere di beneficenza in soccorso dei sudditi più miseri, Umberto I cominciò a trascurare la sua città natale, le preferì ostentatamente Roma e persino per la villeggiatura, pur conoscendo la passione di Margherita per le Alpi e la Valle d'Aosta, scelse la reggia di Monza (che gli sarebbe stata fatale). Suo figlio, Vittorio Emanuele III, non amava Torino e la evitava non appena poteva: una delle rarissime volte che salì in treno per venire nella città dei suoi avi fu quando morì il principe Brancaccio, che era forse il suo solo amico personale, e malgrado i pesantissimi bombardamenti aerei del 1941- 1942, Vittorio Emanuele III non sentì mai il bisogno di fare una visita a Torino. Il figlio, Umberto II, che sarà l'ultimo re d'Italia, era nato nel castello di Racconigi, nel Cuneese, ma per Torino nutriva un profondo affetto, per il vero ricambiato dalla città. Qui trascorse i cinque anni più belli della gioventù, fra il 1925 e il 1930, tenente ventenne nel 91 ° Reggimento Fanteria, qui conobbe quella «soubrette» Milly Mignone che si dice essere stata il suo più tenero amore, qui tenne una piccola corte di giovani spensierati come lui e di bellissime ragazze alle quali era solito donare una spilla d'oro con una «U» di diamanti (ma il padre, quando riceveva i conti dai gioiellieri, lo ammoniva dicendogli in dialetto piemontese: «Bepo, fa nen '1 grandius»). Umberto fu sempre legatissimo a Torino e nel 1981 a un intervistatore espresse questo suo amore citando un verso di Neruda: «Se mille volte dovessi rinascere - là vorrei nascere». Giuseppe Mayda