Il meo culpa dei secessionisti

Il rimorso di Contin: avremmo «Sì, ho commesso dei reati potuto fare in un altro modo E se c'è da pagare, pagherò» Venezia: per la prima volta parlano in aula gli otto protagonisti dell'assalto a piazza San Marco Il meo culpa dei secessionisti «Uno sbaglio l'atto dimostrativo contro Roma» VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Va bene l'ideale, il Doge e pure il Serenissimo leone di San Marco, ma adesso che manca solo il conteggio degli anni di carcere, gli otto del campanile tirano il freno. «Sì, abbiamo sbagliato», ammette esplicito Cristian Contili, 30 anni, operaio, camicia azzurra e le mani a muovere l'aria e rafforzare i pensieri. «Se potessi tornare indietro...»,. confessa il serenissimo patriota. Che in nemmeno due mesi di carcere, sembra aver digerito pure la voglia di indipendenza: «Eravamo d'accordo che il Veneto facesse parte dell'Italia, anche perché ufficialmente siamo italiani». A pochi giorni dalla sentenza, a 24 ore dalle richieste di condanna, le illusioni sono finite. Adesso - e chissà quanto sinceri - è arrivato il momento dei ripensamenti, dei distinguo, delle ammissioni. Non ci sono più né Dogi né gerarchie, dal primo all'ultimo serenissimo, è un coro solo. «Forse avremmo potuto fare in un altro modo», si rimangia tutto Cristian Contin, nell'aula bunker, davanti al giudice Graziana Campanato e al pm Rita Ugolini, che poi tireranno le somme. «Effettivamente ho commesso dei reati, se c'è da pagare si paga», aggiunge lui. Che anche se non lo dice apertamente si vede benissimo che spera di «pagare» poco, il meno possibile. E tornare, come dice, alla sua «famiglia, la terra e il Veneto». Tutti citano il Veneto e Venezia, tutti guardano a due secoli fa. Ma come allora, sul ponte sventola bandiera bianca. «Ma sì, la storia del governo veneto era soprattutto un fatto liturgico», giura l'altro Contin, Flavio, quinta elementare, elettricista di professione. Rinnega: «Non abbiamo niente contro l'Italia e gli italiani. Ce l'abbiamo solo con lo Stato burocratico delle tasse». Giusto, i soldi. Il vero motore forse - di tutte le inquietudini del Nord-Est, finite in una sera di maggio su una motozattera dal Lido verso piazza San Marco .'Con un blindato che si chiamava Tanko, un mitra Mab vecchio di cinquant'anni e otto disperati, quindici ore di lavoro al giorno a testa e una ribellione che vedeva in Damele Manin e Marcantonio Bragadin, l'ultimo Doge e il capitano del'popolo bruciato vivo a Famagosta, un passato da far risorgere. «La.molla che ci ha spinto sono le tasse e la burocrazia, sono un artigiano, non si può più lavorare», spiega Flavio Contin. Poi cerca di salvare almeno la faccia: «In linea di massima riconosco lo Stato italiano, ma ho le mie riserve. I mass media lo scrivono tutti i giorni che lo Stato è allo sbando. Noi abbiamo deciso di muoverci». Magari pagando il biglietto del traghetto sequestrato, come hanno fatto. Così oggi possono sperare che da questo arrivi un' altra atte nuante, che il giudice abbia la mano meno pesante. Anche perché, lo ripetono tutti e c'è davvero da ere derci: «Non avremmo mai fatto male a nessuno, non volevamo il sangue, volevamo far conoscere il Veneto Serenissimo al mondo». Luca Peroni ha 30 anni, la maglietta a righe bianche e nere. Al momento dell'arresto è stato il primo a dichiararsi prigioniero politico. Ma ammette che non ci credeva veramente: «Cercavo di difendere la mia persona, non volevo essere messo in una cella qualsiasi con qualche detenuto scalmanato, violento». E' lui che in viaggio di nozze è andato a Famagosta, in pellegrinaggio con la moglie sulla tomba di Bragadin. Oggi, a modo suo, rivendica antichi gesti: «Mi riconosco nella Repubblica veneta. Non sono solo un cane da lavoro come vuole la Repubblica italiana. Quello che ho fatto è stato per il mio popolo, mio figlio, la mia terra». Uno tra il pubblico applaude. Il presidente Graziana Campanato lo espelle. «Sono una veneta anch'io, qui siamo tutti veneti», dice il giudice che con mano di ferro e la velocità di un treno sta portando il processo in porto. Fausto Faccia parla per nemmeno un'ora. In piazza San Marco era il capo del commando, imbracciava il Mab che oggi vale l'aggravan¬ te di banda armata. Ora è l'unico che non si tira indietro: «Non mi sento né un eroe né una vittima. Credo nella libertà e nel Veneto, sono andato sul campanile per dare un contributo agli ideali e un senso alla mia vita». «Era simbolica la nostra liberazione di piazza San Marco, volevamo solo ottenere un certo effetto, smuovere chi ci ascoltava», spiega Antonio Barison. Che ammette che era proprio piazza San Marco il loro massimo traguardo. Andare sul campanile, sventolare la bandiera del leone con la spada sguainata e resistere almeno quattro giorni. Non poche ore, visto l'intervento dei Gis dei Carabinieri. Il comandante delle teste di cuoio, Fabrizio Monacci, chiamato come teste, riparato con un tendone come un pentito di mafia, rivela che gli imputati hanno fatto solo resistenza passiva. Il sindaco di Venezia Massimo Cacciari lo conferma: «Hanno fatto una dimostrazione senza rendersi conto delle conseguenze, ma non volevano far male alla città. Amano Venezia quanto me». Fabio Poletti Il rimorso di Contin: avremmo potuto fare in un altro modo «Sì, ho commesso dei reati E se c'è da pagare, pagherò» «Non ce l'abbiamo con l'Italia ma con lo Stato delle tasse» In alto il sindaco di Venezia Massimo Cacciari saluta Marilena Marin, leader storico della Liga Veneta, mentre esce dall'aula bunker dopo aver deposto al processo dei secessionisti