IL CONSIGLIO
IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Marco Vozza SI è soliti attribuire a Nietzsche la paternità dell'idea di una profondità insita nella superficie, nel mondo delle cose prossime e contingenti: lo stesso oltreuomo assume il profilo di un soggetto ormai libero dallo spirito di gravità, di un temperamento che accoglie con favore, senza nostalgie reattive, la dimensione epidermica dell'esistenza. Si è anche soliti pensare che la cultura viennese abbia raccolto l'eredità di questa trasvalutazione antropologica dei valori finora esistenti: a tal proposito si cita spesso l'aforisma di Hofmannsthal secondo cui la profondità va nascosta e tutelata in superfìcie. Grazie alla meritoria pubblicazione de II piacere dell'odio di William Hazlitt (Fazi, pp. 176, L. 22.000), critico e libero pensatore inglese, biografo e ammiratore di Napoleone, possiamo retrodatare la primogenitura di un'idea così feconda nella filosofìa e nella letteratura contemporanee (ad esempio, in Benn, Savinio e Tournier): già nei primi anni dell '800 infatti, la profondità veniva individuata nei tratti superficiali dell'eleganza e della sottigliezza dell'impressione, nella forza del sentimento che non si lascia neutralizzare dal pensiero astratto. Scena da un banchetto (Napoli, Museo nazionale). Dai Greci al '700, Curi discute «La cognizione dell'amore», Feltrinelli e ineffettuale. Non resta dunque, per avvalorare tutto ciò, che una didattica dell'amore: il richiamo a una esperienza di condivisione, di incontro. «Non è, questa mia, una scienza come le altre», scrive il vecchio Platone nella Lettera VII, «essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s'accende da fuoco che balza: nasce d'improvviso nell'anima dopo un lungo periodo di discussioni sull'argomento e una vita vissuta in comune». Non un metodo, né un oggetto, né ima competenza professionale, ma dunque «un fuoco», che (chissà mai perché) all'improvviso «si accende nell'anima». Di questo stesso paradigma, spiega Curi, fanno parte due componenti di rilevanza simbolica inequivocabile: il nesso di reciproca incompatibilità e reciproca derivazione tra natura e cultura che si esprime esemplarmente nel mito dell'androgino; la problematica dello scacco, del fallimento teoretico che sempre aleggia intorno alla verità (l'oggetto proprio dell'amore filosofico), e di cui ci parla il mito di Orfeo, storia dell'amore «oscuro» che si annida nella luce stessa del vedere, e del voler conoscere. La vicenda di Euridice perduta, ritrovata e di nuovo perduta, è in certo modo la chiave di lettura del libro. Essa simbolizza il va-e-vieni dialettico della verità: concludendo la prima parte del volume con la scomparsa definitiva di Euridice, Curi sottolinea la propria adesione a una idea non pacificata, asintotica di amore filosofico. Ma proprio qui si dischiude il nuovo scenario, in cui domina quel singolare pervertimento del soggetto amoroso che si trova nelle varie figurazioni del Don Giovanni, da Tirso de Molina a Mozart. Qui siamo di fronte a mi mito negativo, o anzi a una narrazione che esemplifica ed esalta ciò di cui non parla, ciò di cui tace. «Sullo sfondo della vicenda di Don Giovanni», scrive Curi, si trova «la paradigmatica perfezione dell'agape cristiano». Nella storia fallimentare della sensualità aritmetica rappresentata da Don Giovanni, grande collezionista di corpi femminili, si celebra il primato dell'amore cristiano, che ama indifferentemente tutti i corpi, ma sempre e solo soddisfacendosi del suo dono. Al difettoso infinito matematico di Don Giovanni si contrappone la febee totalità filosofica dell'amore autentico. Quale è allora il rilievo simbolico del «giovane cavaliere estrema-
Luoghi citati: Hofmannsthal, Napoli, Scena
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