LA CULTURA NASCE SULLA FRONTIERA

••3 ••3 FAULKNER William Faulkner Cavalli pezzati Sellerio pp. I30 L. 24.000 Tre racconti giudiziari del Nobel americano CAVALLI pezzati», «Domani» e «Fumo», tre racconti giudiziari del Nobel americano. «Nelle forme specifiche della saga paesana o del racconto giallo - avverte Remo Ceserani, autore dell'introduzione viene sfiorato più volte il tema della tragica inadeguatezza delle leggi, delle istituzioni e dei riti giudiziari che governano una comunità». Traduzioni di Alessandro Vescovi e Giuliana lannaccaro. Monousi! ( :.il\li(.-r ■ Tarda età Hortense Calisher Tarda età Lo Tartaruga pp. 136 L 20.000 CALISHER Routine di piacere nella tarda età I MMAGINO che non ci si aspetti ■ che molte coppie dell'età di Rupert e mia siano ancora pressate dal sesso». E' l'incipit del breve, tornito romanzo di Hortense Calisher, ottantaseienne scrittrice americana. Gemma e Rupert, architetto lei, scrittore lui, sono all'epilogo di una lunga, solida vita di coppia: ricordano, lottano, tengono a bada la morte. Traduzione di Marina Premoli. MOSLEY Walter Mosley La musica del diavolo Marcos y Marcos pp. 239, L 22.000 Un vecchio bluesman e la musica del diavolo UN vecchio negro, che ha suonato con il mitico Robert «RI» Johnson morto nel '38, si trascina lungo le strade di New York. Lo «salva» una giovane donna bianca. Grazie a lei - amica, infermiera - via via si riprende, mentalmente (almeno) riacciuffa le stagioni felici, riscopre la gioia di raccontare la storia del blues, la musica del diavolo che è sempre stata. Traduzione di Fabrizio Caròla. \v.\: Tra vr<iK. srv MORAND Paul Morand Campioni del mondo Passigli pp. 173. L. 24.000 La scommessa di vincere nella vita e nello sport L9 EDITORE fiorentino propone un nuovo libro del versatile scrittore francese scomparso nel 76. Quattro atleti della Columbia University - una staffetta - inseguono la vittoria nello sport come nella vita. Il romanzo è anche un confronto fra America e Europa negli anni che precedono e che seguono il primo conflitto mondiale. Traduzione di Mario Ferrigni. I VIAGGI MA MENTI LA CULTURA NASCE SULLA FRONTIERA Per superare confini e malintesi IL MALINTESO Franco La Cecia Laterza pp. 204, L 25.000 SIGNIFICATI DEL CONFINE Piero Zanini Bruno Mondadori pp. 183. L. 15.000. É MELVILLE NELLA NÀPOLI DI RE BOMBA SI intitola Napoli al tempo di Re Romba, è uno dei due lunghi frammenti in versi e in prosa (l'altro è Affa locanda) di Melville ancora parzialmente inediti in italiano (la parte in prosa è tradotta nelle Opere Narrative Complete a cura di R. Bianchi, edite da Mursia, voi. VII), dedicati a Napoli e nati in occasione del viaggio di Melville in Italia. Li ha pubblicati la piccola casa editrice Filema (Napoli, Parco Margherita 37, 80122 Napoli - Fax 081/881.0386; pp. 116, s.i.p. Con igÉÉÉÉflliÉì introduzione di Gordon Poole, ■BinBWltWllB traduzione di M . ... Marcella Boldrini, MeMlle M . ... Marcella Boldrini, MeMlle Gordon Poole e Raffaele Russo). Formano un poemetto sulla Napoli contemporanea di Melville, con ampi cenni alle vicende storiche e ai fatti artistici dell'epoca e molti spunti di pittoresco color locale. Traduzione originale e a volte brillante, come nella scelta di rendere in napoletano certi frammenti di frasi e dialoghi colti a volo. E' la prima (sia pur parziale) traduzione in napoletano di Melville: una scelta che all'autore avrebbe forse procurato divertimento e interesse. Uno dei motivi per cui forse il poemetto non è mai stato divulgato troppo è che contiene allusioni interpretabili in chiave omosessuale. Secondo taluni critici, in questi versi si possono cogliere immagini che anticipano immagini analoghe poi introdotte in Billy Budd, dove (guarda caso!) è a sua volta captabile qualche allusione all'omosessualità, da certi critici radicali ritenuta la «vocazione segreta» (ma in realtà mai esplicitamente negata o ripudiata) di Melville. I sono libri su temi di grande attualità, a cui si rivolge una attenzione immediata, come aspettandosi suggerimenti e soluzioni decisive, e che poi, forse proprio per questo, ci lasciano delusi e insoddisfatti. E' il caso, almeno secondo me, di due libri recenti sul problema dei confini, a cui non si può rimproverare nessuna specifica manchevolezza: sono anche troppo «theoretically correct»; discutono ampiamente e dettagliatamente la bibliografia più recente sul tema; sono scritti in modo chiaro, scorrevole, con uno stile del tutto alieno da certa pedanteria della saggistica accademica. Per questo non riusciamo troppo a spiegarci il senso di insoddisfazione che rimane alla fine della lettura. Denunciamo subito una possibile ragione di questa insoddisfazione, che tuttavia non spiega tutto. 1 due libri sono scritti da due autori che probabilmente hanno lavorato in stretto contatto fra di loro, o che per lo meno conoscono bene ciascuno gli scritti dell'altro; per cui, ovvia¬ l mente senza alcun sospetto di plagio, giacché ognuno dei due cita doverosamente le opere dell'altro, leggendoli insieme si prova per lo meno una certa sorpresa, e poi un po' di noia, nell'incontrare la stessa bibliografia, gli stessi riferimenti (talvolta, addirittura le stesse parole), gli stessi esempi tratti dalla ricerca antropologica. Un suggerimento che dunque ci sembra utile per i lettori è di cominciare con il leggere solo uno dei due testi, giacché le informazioni e le tesi che si trovano nell'uno equivalgono quasi del tutto a quelle dell'altro. Non vorremmo così aver semplificato troppo le posizioni dei sue autori. Il libro di Zanini si presenta, fin dal titolo, come un lavoro più sistematico, quasi una voce di enciclopedia che illustra i significati del termine «confine», a partire da quelli che si ricavano dallo studio etimologico della parola nelle varie lingue con le differenti sfumature che la distinguono, anzitutto, dalla parola «frontiera». Sebbene con qualche piccola diversità di accenti, sia Zanini sia La Cecia insistono sul fatto che «confine» indica un limite netto, più adatto a separare e a dividere, mentre il termine «frontiera» allude piuttosto a una zona ampia e vaga, sfrangiata e spesso mobile (così nella epopea della frontiera americana, la «conquista del West»). A ben vedere, la conclusione teorica più netta che si ricava da entrambi i testi sembra essere proprio una certa preferenza per la frontiera contro il confine, anche se la delimitazione netta non viene mai dichiarata inutile o dannosa, perché è indispensabile alla individuazione di una qualunque forma, come una cornice che entra in modo decisivo nella determinazione del significato di una cosa e la costituisce nella sua specificità. Proprio riflettendo sui confini, però, si finisce per riconoscere che le identità definite fissano limiti, appunto i confini, che sembrano esistere solo per esserè violati, o almeno messi continuamente in discussione. Passare i confini è un'operazione difficile e rischiosa, ma anche nella nostra esperienza più banale tutti abbiamo spesso avuto modo di riconoscere che la gente più interessante, in ogni campo, è quella che si muove sulle frontiere, nelle zone di passaggio: ci annoiano gli specialisti di una sola disciplina (anche se spesso sono più tecnicamente efficaci), diffidiamo di chi professa, anche in morale, regole troppo rigide, le personalità che abbiamo apprezzato e che ammiriamo di più sono quasi sempre quelle che hanno origini, educazione, esperienze cosmopolite. La zona di frontiera, ci dicono Zanini e La Cecia, è anche quella dove si verificano i malintesi, legati a differenze di Nei due saggi dì La Cecia e Zanini: «Un luogo per sgranchire la nostra identità» In attesa che la zona si allarghi fino a coincidere con il nostro spazio quotidiano lingue e di culture; ma proprio riflettendo sulla ricchezza che appartiene alla frontiera siamo anche indotti a riconsiderare il nostro giudizio sul malinteso (che è il tema specifico intorno a cui lavora particolarmente La Cecia). Lungi dall'essere un fatto negativo da rimuovere ad ogni costo, il malinteso è, potremmo dire, il terreno di cultura in cui vi¬ ve e prospera una comunicazione rispettosa dell'alterità irriducibile dell'altro; se davvero, come sognano certe utopie comunicative, si potesse arrivare a una trasparenza senza residui nel dialogo con gli altri (altri individui o altro culture), la comunicazione finirebbe per negare se stessa, riducendo tutto a un monologo. Di qui, naturalmente, una serie di conseguenze teo¬ rico-pratiche che è facile immaginare: apologia di una società di identità deboli, caratterizzata da tolleranza e pluralismo, in cui si cerchi di evitare sia la scomparsa delle differenze, sia il loro irrigidimento in delimitazioni chiuse fino all'apartheid. Si potrebbe ragionevolmente sostenere una posizione diversa? Certo, sappiamo che ci sono ancora i teorici dell'apartheid, che la giustificano spesso con ragioni pratiche (evitare i conflitti riducendo i punti di attrito) 0 anche di principio (riconoscere la legittimità di ogni cultura, a casa sua). Ma, complessivamente, sono posizioni minoritarie. Voglio dire che, in teoria, tutti o quasi prolessano queste posizioni di tolleranza; e non per ipocrita accettazione di ideologie umanitarie, ma perché il mondo in cui viviamo o si modella su questo schema o scompare travolto dallo scontro di fondamentalismi, etnicismi, tribalismi. E' forse questa la ragione più vera di quella certa insoddisfazione che si prova dopo aver letto questi due, ottimi, libri. Sentiamo che dicono cose sacrosante, e tuttavia ne misuriamo l'enorme distanza dai problemi quotidiani: a cominciare da quello delle migrazioni con tutti 1 suoi strascichi di conflittualità sociale, di guerre fra poveri, di degrado metropolitano. Se abbiamo riconosciuto concettualmente la relatività dei confini e la ricchezza della frontiera, nella pratica quotidiana siamo ancora molto distanti dall'essere un'autentica umanità di frontiera. Per intanto, possiamo almeno seguire una delle indicazioni che, attraverso i giochi dell'etimologia, ci vengono da La Cecia (che qui riprende una indicazione di Giorgio Agamben): la zona di frontiera, è un luogo adiacente, e questa parola ha lo stesso etimo di «agio», facilitazione, comodità... La frontiera è una terrain vague adiacente in cui si va per trovare un certo alleggerimento o, scrive La Cecia, per «sgranchirsi l'identità», magari anche solo nel tempo libero dagli impegni che ancora ci legano ai luoghi della identificazione rigida. In attesa che la zona di frontiera si allarghi, fino a coincidere, un giorno, con lo stesso spazio della nostra quotidianità. Gianni Vattimo A CAPO HORN CON COLOANE CAPO HORN Francisco Coloane Guanda pp. 179 L. 20.000 ELLA, bella davvero, la collana «La Frontiera Scomparsa» diretta da Luis Sepùlveda per Guanda: una sorta di recupero in chiave visionaria di certe imprese editoriali ottocentesche, miranti alla scoperta di nuovi mondi esotici. Non essendo un ispanista, non posso identificare con certezza precedenti importanti, a cominciare dai diari di Mendana e forse prima ancora. Ma resta il fatto che, leggendo Capo Horn di Francisco Coloane, ritrovo situazioni familiari. Un segno, forse, che una certa letteratura trascende, pur rispettandola, la cultura dei luoghi ove si origina. Coloane, un cileno nato a Quemchi nel 1910, già noto in Italia per Terra del Fuoco (Guanda, 1996) e meritevole di altre traduzioni, ha vissuto una vita che ricerda quella di Herman Melville, pur se in altri contesti: pastore e caposquadra nelle haciendas della Terra del Fuoco, cacciatore di foche e di balene e, solo in un secondo tempo, narratore, come l'autore di Moby-Dick e dll l i di di ydelle Isole incantate, di mondi popolati da sagge e pigre testuggini; ma con in più un bisogno di sangue profondamente radicato nella cultura di ceppo neolatino, una cultura che non a caso ha inventato le più crudeli forme di morte legale, la corrida e la garrota. Sono, i suoi, racconti misteriori e feroci, senza conclusione e senza spiegazione. In «Capo Horn», il brano che dà il titolo alla raccolta, si assiste al massacro di foche appena uscite dall'utero materno. Ma con quegli innocenti neonati (e ne trarranno grande godimento i verdi) muore anche il fuggiasco misterioso che ha scoperto la grotta di delizie ove la natura si moltiplica inno¬ cente. E forse muoiono anche i due cacciatori che lo salvano per depredarlo del suo segreto. In «La voce del vento», uccidere una donna (anzi, la propria sposa) è soltanto liberarsi d'un fardello più ingombrante di una pecora, in un clima in cui il gregge è accecato da volatili in cerca di cibo. In «Flamenco» è invece uno stallone glorioso e apparentemente mansueto a eliminare un padrone che ha voluto domarlo. Mentre in «L'iceberg di Kanasaka», un racconto che fa pensare a prima vista al Gordon Pym di Poe, compare all'orizzonte un iceberg misterioso che non miete vittime solo perché una vittima l'ha già fatta: un indigeno destinato a diventare presenza fantasmatica e terrorizzante. Coloane è apatico ed inerte come la natura di cui parla e che si limita a registrare. Una natura spietata che s'abbandona alla legge della violenza e del sangue e per la quale l'uomo è una bestia tra altre bestie, con un coltello al posto degli artigli, ed ha come suo unico scopo mia sopravvivenza animale, con le sue regole e le sue consuetudini. Anche in questo caso, un mondo e mi clima che ricordano le Isole incantate di Herman Melville, dove gli uomini non regnano su altri uomini ma su cani e su belve c le testuggini dagli occhi spenti scuotono navi e persone con la propria cocciutaggine. Sullo sfondo, una Terra del Fuoco che è al di là di ogni civile consorzio e che impone a chi la frequenta un rapporto non dissimile da quello che con il bush hanno i nativi della Nuova Zelanda. E un Capo Horn che, versione aggiornata delle Colonne d'Ercole, sta in attesa con le sue sirene funeste, ad adescare nella propria logica selvaggia naviganti, esploratori e conquistadores moderni, condannati fatalmente a cadere nella sua trappola. Costretti ad adeguarsi a una vitalità apparentemente senza scopo e ad abbrutirsi per poter sopravvivere; per poi morire senza senso come un qualsiasi animale, secondo schemi cui la statistica non attribuisce peso né significato. Uomini che sono unicamente numeri, come le balene, le foche, le tartarughe e i volatili; e i cui valori etici, ammesso che esistano o che possano esistere, non hanno il minimo rilievo, nemmeno a livello ecologico. Ruggero Bianchi E CON IL PADRE IN BARCA A VE LA IL MIO VECCHIO E IL MARE David Hays e Daniel Hays Longanesi pp. 237 L 26.000 IL MIO VECCHIO E IL MARE David Hays e Daniel Hays Longanesi pp. 237 L 26.000 HISSA' per quale ragione i patiti della vela passano la vita a sognare di essere in mare, e quando ci sono fanno il possibile per arrivare in porto. Non si può dire che accada la stessa cosa a David e Daniel Hays nel loro viaggio dal Connecticut a Capo Horn e ritorno su un otto metri a vela, perché toccano terra pochissime volte. Tuttavia, quando dopo 178 giorni di navigazione lungo le coste del Sud America intravedono l'emozionante traguardo di Horn, anche loro non vedono l'ora di allontanarsene in fretta. Quel leone accovacciato alla base del mondo che ruggisce ad ogni onda, incute terrore ai marinai più esperti. Persino un duro come il Capitano Bligh, dopo 31 giorni di burrasca davanti al Capo, disse basta, invertì la rotta, e per raggiungere Tahiti, dove avrebbe perso il Bounty nell'ammutinamento, fece addirittura il giro del mondo. La storia di David e Daniel Hays, un padre e un figlio di 54 e 24 anni con una passione molto letteraria (il padre) e mol¬ to empirica (il figlio) per la vela, che partono per il viaggio più difficile a bordo dello Sparrow, ha avuto in America mia eco enorme. A lungo in testa alla classifica dei best seller. Il mio vecchio e il mare ha sedotto anche Spielberg che ne ha comprati i diritti cinematografici. La ragione, dopo avere letto la buona traduzione di Massimo Boccinola, è evidente: si tratta di una storia non convenzionale d'avventura e buoni sentimenti. Un padre e un figlio che si ritrovano nel momento in cui il primo comincia a invecchiare e il secando diventa finalmente adulto, in una lunga traversata a vela che è un maiden voyage e un rito di passaggio. Tutto comincia il giorno che David Hays, fondatore e direttore del celebrato Teatro Nazionale dei Sordi che ha sede in Connecticut, sfida la passione per il mare di un figlio neolaureato che guarda con incertezza al proprio futuro («Facciamo le cose in grande, Dan. Horn»), Comprano in Inghilterra un piccolo scafo e per due anni dedicano ogni momento libero, notte e fine settimana, a completarlo e equipaggiarlo per l'impresa. Dopodiché, con un gattino di nome Tiger, Daniel parte alla volta di Panama dove il padre lo raggiungerà per proseguire insieme. David Hays, si scopre a poco a poco, è perseguitato dal ricordo del rapporto difficile che ha avuto con il proprio padre. E non vuole commettere lo stesso errore con il figlio, che sembra chiuso e irrequieto. Prima tappa le Galapagos, dove le foche prendono il sole sulla poppa dei pescherecci. E poi, dopo molte albe rossastre nei turni di guardia di sei ore, l'isola di Pasqua, bella, turistica, ^differente. «Siamo come una corda tesa», scrive Daniel in questo diario a quattro mani, in cui si alternano i due protagonisti. «A un'estremità c'è il nostro amore paterno/filiale, all'altra il nostro modo di far gioco di squadra tra adulti. E la fune, un intreccio di tutte le cose che ci sono accadute, ci sostiene: in parte è il nostro passato, in parte è affetto, e in parte è la necessità di far navigare la Spar row veloce e sicura; e adesso è quest'ultimo il filo più resistente». Molte prove d'affetto lo renderebbero un libro sentimentale se ogni pagina non offrisse l'occasione per discutere argomenti diversi come le abitudini delle focene, la navigazione astronomica o le tecniche di navigazione a vela. 0 se non descrivesse la crescente militarizzazione delle Falkland che si preparano a diventare una base di partenza per il saccheggio dell'Antartide, non appena scadranno gli attuali trattati. Ma è chiaro che ciò che ha affascinato i lettori, al di là di tutto ciò, è il fatto che la vera azione di questa storia si svolga nei conflitti personali dei due protagonisti, il maggiore dei quali retrocederà, non solo simbolicamente, al momento del passaggio di Capo Horn. E dopo aver sognato quel momento per 40 anni si metterà alle spalle del proprio giovane figlio per lasciare che sia lui a tagliare il traguardo. Livia Maiiera