REMMERT LE NOTTI DELLE MERAVIGLIE

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Alessandro Fo DOVENDO scegliere una parola per fissare la cifra narrativa e stilistica della raccolta di racconti di Laura Barile, Oportet, (Marsilio, pp. 164, L. 28.000 (Premio Italo Calvino IX edizione, finalista Premio Viareggio 1997), si potrebbe optare per «garbo». Nelle sue undici storie l'autrice - per usare una frase che riguarda alcuni personaggi di La finestra - ama mettersi fra parentesi e, da questa collocazione di presenza appartata, studiare gli avvenimenti e le loro molteplici implicazioni per i personaggi. Caratteristica è la capillare attenzione ai particolari di quella realtà che fa da teatro. Un gatto che passa è il transito della sua «coda ritta dopo un trenino di schiena»; altrove è «qualche stilla dalla paletta dei remi» a rievocare, accanto all'alba su un piccolo golfo, tutto un mondo di infanzia e adolescenza. Elegante e raffinata nelle scelte linguistiche e nella tessitura delle trame allusive, la Barile sembra quasi «dipingere il suo diario di viaggio» con colori che attingono anche alle colonne sonore della vita, dalla ninna-nanna delle coscine di pollo ali'Azzuno di Paolo Conte. > HE cosa accade a Torino? Come mai in questa città di Savoia che parlavano in dialetto, di santi pragmatici, di ingegneri intraprendenti, di industriali illuminati, di pionieri ardimentosi, di eccentrici singolari, da un po' di tempo in qua quasi non passa settimana che non si debba commentare la comparsa di un nuovo scrittore? Sembrava tutto finito. Finita la grande stagione di Pavese che era rimasto legato alla città come Venere alla sua preda, la stagione successiva aveva mostrato scrittori meno propensi a risiedere. Natalia Ginzburg a Roma, Lalla Romano a Milano, Calvino a Parigi e Soldati un po' dovunque, restavano in sede - a varia modulazione di frequenza - solo Primo Levi e Arpino. Due scrittori diversissimi e diversamente indisponibili a giocare con i panorami e le cartoline di Torino (abitavano a pochi isolati di distanza, sono morti a pochi mesi l'uno dall'altro). Quasi improvvisamente, pro¬ prio mentre con la morte di Levi e di Arpino molti sarebbero stati pronti ad abbandonarsi al funebre compianto di un vuoto definitivo, un'altra città è spuntata dalle ceneri delle proprie demolizioni o dal ricambio delle sue stesse generazioni. Tant'è che nell'ultimo anno e mezzo non bastano le dita delle due mani per citare esordienti d'ogni età. Dopo Margherita Giacobino, dopo Gianni Farinetti, dopo Sergio Astrologo, proprio in questi giorni Giancarla Pinaffo esordisce a cinquant'anni pubblicando da Piero Marmi II caso Blanc, romanzo della metamorfosi di una donna da bianca a nera. Ma soprattutto numerosi sono gli esordienti giovani: trentasette anni per Fabrizio Rondolino con Un così bel posto (Rizzoli), trentatré per Alessandro Perissinotto che fa in questi giorni la sua prima comparsa con L'anno che uccisero Rosetta (Sellerio), trentadue per Giuliana Bertolo che ha esordito l'anno scorso (dopo aver vinto il Mont Blanc) con Una vasta distesa bianca (Mondadori), trentadue anche per Andrea Demarchi con Sandrino e il canto celestiale di RobeH Plant (TranseuropA, poi Mondadori), doppiato quest'anno dai Ritorno dei Granchi Giganti (Theoria), trentuno per Enrico Remmert - ancora un esordio degli ultimi giorni - con Rossenotti (Marsilio), ventisette l'anno scorso per Alessandra Montrucchio con i racconti Ondate di calore (Marsilio) che avevano vinto il «Calvino». Ventotto aimi ha Augusto Gauthier che pubblica racconti promettenti in edizioni quasi alla macchia attendendo editori meno autarchici, ventisei ne ha Enrico Pellegrini che con La negligenza (Marsilio) è entrato nella recente cinquina del Campiello mentre l'anno scorso ha vinto lo Strega un altro giovane esordiente torinese, Alessandro Barbero, con Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, uscito da Mondadori. Un vero e proprio boom, specie se si fa riferimento ai Baricco, ai Voltolini, ai Culicchia, ai Canobbio, che sono autori giovani ma già più che collaudati. Resta difficile per ora disegnare le mappe di un dominio così fitto e frastagliato d'età, generi, argomenti, scrittura (si va dal laboratorio postindustriale di Voltolini alla cauzione postfemminista della Giacobino, dal tondellismo di Demarchi al candore sperimentale di Remmert alla ricerca inquieta ma classicamente composta della Bertolo). Naturale invece indagarne le ragioni. Intanto la maggiore disponibilità delle case editrici a cercar voci per un pubblico che si rinnova. E poi l'esistenza di scuole di scrittura (dalla «Holden» alla «Sképsis» alle iniziative del bibliotecario Eugenio Pintore) che se di per sé non servono a svelare scrittori finiscono però a volte per rivelare gli scrittori a se stessi, di certo a misurarsi con una realtà collettiva e gregaria (gli autori giovani lavorano spesso insieme, si scambiano letture, esperienze, pareri). Anche l'espansione di premi letterari ad hoc (il prestigioso «Calvino», promosso da «L'Indice») fa la sua parte. Così come la fa la diffusione di osservatori giova¬ nili (come quello dell'assessorato alla Gioventù del Comune), di riviste per esordienti (ad esempio L'Inedito), di gruppi di lavoro (come «Scriptorium» e «Parole moleste», di antologie generazionali (ultimo, a cura di Andrea Demarchi, il volume antologico n. 1 di Coda II. Fifth per TranseuropA). E tutto questo in una città che ha nel Salone del Libro un evento di grande visibilità e di trazione. Torino, del resto, ha nelle sue vene una profonda vocazione ai risorgimenti e nel momento in cui la vista un tempo proverbialmente snebbiata dei suoi ingegneri perde qualche diottria, mostra di saper alimentare vo- Dopo la morte di Levi e di Arpino, la città non si è abbandonata a un funebre rimpianto cazioni più latenti e segrete. Da sempre aggregata e aggregatile intorno a realtà forti e unitarie, a confronto con la nuova società dei «diversi» lancia a modo suo l'allarme più acuto. Il disagio, la sofferenza, l'intolleranza, mostrano qui ferite forse più difficili da risarcire e la letteratura può diventare più che la protesta una via di denuncia e di riflessione. Se c'è un dato che tanti esordi siano lì a confermare, questo è la distanza da ogni moda cannibale. Gh esordienti torinesi, giovani o meno giovani, il sangue lo usano per pensare. Giovanni Tesio - SCRITTORI " Leggi & trappole UNA legge per la letteratura? Ecco una buona idea, per milioni di benpensanti. Era ora di mettere a posto questi scrittori, da sempre recalcitranti all'ordine, quando non apertamente eversivi. C'è una situazione di tale anarchia, nel mondo del libro, un proliferare di iniziative così sviami da giustificare qualche sano intervento in alto. Ben venga una legge, che ripristini il principio di autorità, con questi riottosi exlege, come nei bei tempi. Sorpresa. La proposta non viene da qualche commissione Cultura della destra, nostalgica di antiche direttive e magari desiderosa - la tentazione è ricorrente - di resuscitare l'Accademia d'Italia. Ahimè, viene da un gruppo di scrittori, da quelli che con la legge hanno sempre avuto un sacrosanto contenzioso. Paradosso dei paradossi, nasce nella rossa Bologna, fra personaggi che vantano una leale vocazione ribellistica: Roberto Roversi, Pino Cacucci, Claudio Lolli, come leggiamo nell'elenco dei firmatari, perfino Francesco Guccini. Dateci regole, sembrano reclamare al governo questi personaggi, la nostra attività non si può svolgere senza decreti, l'avvenire del romanzo e della poesia può essere garantito solo da punti fermi sulla Gazzetta Ufficiale. Si rivolgono, fiduciosi, al ministro Veltroni, che è buono, come sanno anche gli ex lettori di Cuore, e ha già preso provvedimenti analoghi per il teatro e la lirica. La sua bontà non può fermarsi al palcoscenico, ne vogliamo la giusta porzione anche per il libro: fatta-si suppone - di sovvenzioni agli autori, incentivi ai premi, sussidi alla creatività. Se poi, per scegliere fra i letterati da sussidiare, il ministro buono dovrà anche chiedere conto di che cosa metteranno nelle loro opere, pazienza. Alla bontà del governo bisognerà pur rispondere con analoga bontà da parte di chi scrìve: insomma, senza che dall'alto ce lo dicano proprio a chiare lettere, adeguarsi un po'. Non succedeva così anche nei bei tempi? Giorgio Calcagno REMMERT: LE NOTTI DELLE MERAVIGLIE ROSSENOTTI Enrico Remmert Marsilio pp. 167 L. 20.000 TORINO Enrico Remmert Marsilio pp. 167 L. 20.000 ON sei Dostoevskij» lo ha raffreddato il padre, se mai ce ne fosse stato bisogno. Perché non ce n'è bisogno. Enrico Remmert, esordiente a 31 anni con Rossenotti, da sempre respira l'aria salubre che tira in biblioteca, un antidoto contro la presunzione, l'alterigia, le ruote pavonesche. «Buzzati, ad esempio, così magistrale, scoperto negli scaffali del nonno materno, ogni titolo una dedica ad hoc». Fu Buzzati il «cronista» della tragedia in cui il nonno, Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, morì: Superga, Grande Torino. «Però l'arte giornalistica non mi è successo di ereditarla. Non che non vorrei. E' più facile attraversare la cruna di un ago». E così, laureatosi in Scienze politiche, è passato da un mestiere all'altro, sino ad approdare nell'ufficio marketing di una ditta di cosmetici. Ma non è una Torino di cipria lo scenario di Enrico Remmert, forse il primo scrittore dopo tanto tempo, dopo gh antichi maestri, che non teme di nominare la città, che si prova a identificarla, riscattandola dal ruolo di semplice comparsa, di pallido scenario. «Qui sono nato, salvo "emigrare" subito: prima in Cile, poi in Kenya. Le radici, ora solide, convinte, ho cominciato a metterle intorno ai sette anni. E' un luogo che prediligo, è la città per me». Passeggiando qua e là: «Di notte Torino è femmina e le piace far intravedere l'armonia delle sue forme, ha linee dolci e voglia di tenerezza». «Chissà se hanno occhi da pittore, se riescono ad apprezzarla, la tua Torino, se riescono a coglierla, ordinata come un teorema, astratta come una scacchiera, enigmatica come una cabala». E' una definizione mutuata pari pari da Febee Casorati: «Vero. "Chissà se hanno occhi da pittore" è una traccia per arrivarvi. Un gioco, non l'unico. Rossenotti, ad esempio: è 2 cognome del protagonista e, insieme, un anagramma, non lo svelo, lo scopra il lettore (possiamo dire che cela una nota di malinconia crepuscolare, ancorché aggiornata?, ndr). E il dialogo tra Vittorio e Giulia che rinvia al Lewis Carroll di Alice nel paese delle meraviglie (non a caso nei capoversi seguenti appare il Cappellaio Pazzo)». Un romanzo generazionale? Ci sono le discoteche, c'è la droga, ci sono gh amori strani, c'è una noia talvolta di grana fina, c'è dominante - la confusione, «una sorta di stordimento, di appannamento, di fronte a una realtà incomprensibile, di fronte all'impossibilità di incasellare molteplici esperienze in un disegno sensato». Affilato, gh occhiali cerchiati, acceso e sorretto da una febbre melvilliana, alla Bartleby, Enrico Remmert è sicuro: «Rifuggo le etichette anagrafiche, i ghetti, le riserve. I miei personaggi non formano una tribù a sé, si muovono tra la gente, vedono ciò che li distingue e insieme ciò che h unisce, non passano il tempo a contemplar- PERISSINOTTO: DELITTO AD ALTA QUOTA Enrico Remmert, 31 anni, laurea in Scienze Politiche, nipote di Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport si, si tengono a bada dandosi - capita a Vittorio - del tu». Il disperato lucido, il picara involontario che è Vittorio. L'editore Marsilio è il capolinea di un lungo girovagare: «Ho spedito Rossenotti, sulla cui stesura ha vigilato Eugenio Pintore, autentico maestro di scrittura, un po' ovunque. Dall'impasse sono uscito grazie a Dario Voltolini, il ponte con la Cherchi. Alla signora era piaciuto, con riserva. Si riprometteva di sottoporre la storia a un editing meticoloso e quindi di offrirla a Feltrinelli. La morte glielo impedì. E così sono emigrato a Venezia». Calvino è il mentore di Enrico Remmert (tra gh italiani lo affascinano anche Bianciardi e Mastronardi, all'estero lo calamitano gh americani «sporchi», «non Bukowski, un falso sporco, righe limatissime, ricamatissime»). Calvino, dunque. Il Calvino delle Lezioni americane («Mandate a memoria») e il Calvino di Palomar, che, nell'epigrafe, dà il «la» a Rossenotti: «Solo dopo ava- conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile». Per il Bartleby subalpino il lavoro è immenso. Fin da pagina 16 lo sa: «Il Nulla avanza. Coraggio, si torna a casa». A mettere nero su bianco. Bruno Quaranta L'ANNO CHE UCCÌSERO ROSETTA Alessandro Perissinotto Sellerio pp. 192 L. 12.000 TORINO CHE UCCÌSERO ROSETTA Alessandro Perissinotto Sellerio pp. 192 L. 12.000 A vai di Lanzo e, lassù, le Levanne, la Ciamarella, la Bessanese e poi la Francia, ma soprattutto l'Alpe del mese di Agosto: «La chiamano così perché è così in alto che ci si va solo d'agosto, quando le bestie hanno mangiato tutta l'erba in basso» dice l'anziano sindaco, che paila senza soste, grumo di tutte le presenze del paese, vere e leggendarie, dei morti e dei vivi, unico personaggio reale insieme al commissario, un acculturato con sindrome di inadeguatezza, mandato in incognito a scoprire chi, Giovanot o Gnasio o Mini o Maciste?, abbia ammazzato quella povera Rosetta. La ragazza era stata trovata con la testa a pezzi, non a caso davanti al castello del soculé, lo zoccolaio, dove alla fine del '300 forse aveva dormito il Conte Rosso; dove nel '500 era stato mandato in esilio il misterioso nobile Ippolito Berta; e dove vanno cercate le ragioni del delitto, L'anno che uccisero Rosetta, il giallo che Elvira Sellerio ha ricevuto tempo fa a Palermo con il mezzo più ineffabile, la posta, da Alessandro Perissinotto, trentenne semiologo torinese a lei sconosciuto e al suo primo romanzo, e che l'ha talmente interessata da mandarlo in libreria in questi giorni, è un anno lontano, il 1944. Lontani anche quelli delle indagini, i Sessanta, ma determinanti in questo puzzle colto quanto godibile. Perché «rappresentano la frontiera che ha segnato la fine del mondo paesano o meglio della percezione di questo mondo "altro"». E in particolare il '68, però non quello della rivolta giovanile, ma la sua faccia apparentemente fuori dalla Storia, quella «delle Olimpiadi di Grenoble vinte da Killy» a dimostrazione di «come la cultura proceda a velocità diverse, sicché nell'anno dei rivolgimenti strepitosi in tutto il mondo, esistevano enclave in cui non ne giungeva neppure l'eco. Una riflessione anche per i nostri giorni su come le culture spariscano non tanto perché qualcuno le colonizza, ma perché dimenticate». «Se c'è qualcosa che Lotman ci ha insegnato - rinforza l'autore - è che la cultura è insieme di testi, ma questi testi smettono di essere un modello culturale se nessuno li ascolta più». Que viva lo strutturalismo. E Perissinotto, vero studioso, tesi sulla figuratività nella fiaba popolare, dottorato di ricerca in Teoria e analisi del testo, non poteva certo dimenticarselo, ma, per fortuna, dietro lo stampo «bachtiniano» del suo pastiche linguistico, brucia la passione del piemontese che racconta la propria terra. «La semiotica è servita a dominare il mio folle amore per la montagna» e per organizzare linguisticamente, «il pensiero è linguistico», le storie nella storia, le leggende, i miti del paese legati per generazioni anche alla sua famiglia. «Gente cittadina piccolo borghese, con un passato di imprenditoria vecchio stampo anche se il mio bisnonno aveva cominciato lu- llfll Alessandro Perissinotto, 30 anni, semiologo, un grande amore per la montagna e i pastiche linguistici cidando i palchetti, allora si diceva "baie i palchet" perché si lucidavano con i piedi, però legata a radici alpine, tra Ala di Stura e Ceres». Il giovane Perissinotto non traligna, sci, alpinismo, snow board. «Quello che mi interessava raccontare non è però la mitolo già delle grandi imprese, ma dei personaggi minuti, strani, che hanno qualcosa di eroico o almeno di fantastico. Chi conosce l'ambiente paesano sa che un personaggio non è vero solo quando è in carne e ossa ma vive in una continua affabulazione, una persona non è mai Gioanin Ala ma è Gioanin '1 fieul d'I panate... Mi pareva necessario arricchire il no stro immaginario anche letterario di un'alte rità che poteva non essere cercata lontano». Vicinissima al suo autore. La storia di Rosetta che il commissario dipana con un finale colpo di scena molto abile se pur amarissimo per lui, Perissinotto l'ha scritta proprio su, nelle valli, «dove mi ritiravo periodicamente per studiare. Ma la sera andavo in osteria a riempirmi di discorsi. Poi, dopo l'osteria, c'e rano quattro, cinque ore intensissime di la voro dove la realtà era filtrata secondo quei ritmi e quelle cadenze. Un romanzo che po trei dire a più mani: io ho messo le mani a disposizione di queste voci». Mirella Appiatti