BENTORNATA SIGNORA RIMA

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Umberto Piersanti E9 un volume illustrato, con tavole grandi e disegnate in modo nitido e preciso, magari un volume per ragazzi d'una volta, la raccolta poetica di Ennio Cavalli, Libro di storia e di grilli, che pure ci si presenta nella sobria e composta veste editoriale tipica di Campanotto. La storia come miniera di racconti e ritratti, semplici sì, ma anche capaci di divenire emblematiche stazioni figurate del cammino umano da Lucy in poi. E prima, addirittura, compare una cartografia dell'universo primitivo a partire dalle galassie, «mandorle sbiancate». Ci sono i grandi, Alessandro e Aristotele, Mozart e Piero della Francesca, ma anche colui che, .chissà con quali grilli per la testa, scopre la polvere nera, o lo sfortunato e sconosciuto Giovanni Miani che muore nel 1872 a un passo dalle agognate sorgenti del Nilo, lasciando il suo nome scritto su un tamarindo. E spesso gli uomini sono soli e orfani, persino chi non lo sembrerebbe affatto: «Mose e Maometto, orfani graziati / rinascono profeti». Alberto Asor Rosa ROMA NA corposa raccolta di sette ampii ed analitici studi dedicati ad altrettanti classici italiani: Boccaccio, Guicciardini, Sarpi, Verga, Collodi, Michaelstaedter, Campana, Calvino. Un titolo e sottotitolo particolarmente attraenti: Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria nel corso del tempo. Ma con Alberto Asor Rosa non c'è mai da stare tranquilli. Sono passati trentadue anni da Scrittori e popolo, Asor era per l'appunto trentaduenne, e cominciò sin da allora a far discutere: di criteri interpretativi, di metodi d'approccio alla letteratura. Genus italicum ha, guarda caso, un'introduzione inedita che si intitola La nuova critica. Sono quindici pagine fitte fitte, colme di note su interventi proprii e altrui: quanto basta per attizzare polemiche (e qualche intervento, tra il complice e l'indispettito, c'è già stato) e per indurci ad un, sia pur minimo, colloquio con l'autore. Lei esorta la critica a farsi daccapo intermediaria tra letteratura e pubblico, tra passato e presente, dopo aver parlato troppo a lungo solo per sé. «Sì. Questa è in effetti una mia persuasione. Non ho mai avuto troppa simpatia per una critica che utilizzava i testi come pre-testi per una esercitazione di tipo saggistico. Naturalmente - e questa precisazione vale anche per altri aspetti del di- " scorso -, anche questo si può fare. Ma io tenderei a distinguere tra il saggismo, che in sé e per sé è cosa serissima, e la critica. Questo mi sembra ancor più vero oggi, quando, se non m'inganno, c'è bisogno che la critica torni ad una sua funzione maieutica e comunicativa, alla maniera socratica. E' evidente, poi, che si può parlare di se stessi, anche scegliendo i propri «autores» e parlandone in un certo modo. Non mi sfugge che anche a me capita questo in questo libro (come in altri). Ma bisogna stare attenti, nel caso della critica, a non sacrificare il dialogo al monologo». Secondo lei è nata di recente una critica al femminile, di cui quella «maschile» dovrà tener conto. «Io prendo atto (non potrei fare altro) che esiste ormai da tempo, in Europa e in America, una critica che guarda al testo letterario (oltre che ad altro) con l'occhio delle donne. Si tratta di un fenomeno ormai consolidato, che si può anche criticare, ma che a mio giudizio va recepito con attenzione ed interesse, perché allarga il campo delle possibilità critiche. Non potendo cooperarvi in prima persona, constato che ne potrebbe risultare modificato anche l'asse di una critica che continui a guardare ai testi (per ovvii motivi) con occhio maschile. Se anche quest'occhio non presume più di presentarsi come totalizzante e neutrale, al di sopra delle parti, posso vedere anch'io cose che prima non vedevo. Penso di aver assunto (molto parzialmente e imperfettamente, s'intende) un'ottica del genere in alcuni dei saggi raccolti in questo volume: quello su Dino Campana, ad esempio». Gli studiosi dovrebbero, a suo avviso, riappropriarsi della crìtica come atto conoscitivo, che insegna a distinguere tra l'incerto e il probabile. «Non ho dubbi: l'atto della critica è fondamentalmente conoscitivo, non ideologico né retorico né persuasivo. E' un grande critico colui che aggiunge seri elementi di conoscenza al testo, anzi all'opera letteraria. Naturalmente, attraverso questo incremento di conoscenza dell'opera si può conoscere meglio l'autore o un periodo letterario o un frammento di società o, anche, un sistema ideologico, all'interno del quale quell'opera si colloca: ma tutto ciò è secondario e indiretto rispetto all'operazione primaria della critica, che è la conoscenza dell'opera». Oggetto dell'analisi letteraria è il «testo»: ma lei preferisce a questa nozione quella di «opera». «Penso che testo sia nozione fondamentalmente linguistica. Quando il testo si pone nell'ambito di una progettazione di tipo letterario, diventa un'opera: cioè un individuo dotato, se posso esprimermi così, di caratteri umani. Non siamo più di fronte ad una specie, ad una classe, ad un genere: siamo di fronte a individui determinati e inconfondibili, e per giunta irripetibili. Sappiamo bene che a determinare la fisio¬ nomia degli individui entra anche la specie, e di ciò va tenuto conto nel ricostruire quel processo di conoscenza, di cui ho già parlato: ma se non arriva all'individuo, la critica fallisce il suo compito». Confessa d'esser rimasto colpito dalla ricerca stratigrafica degli archeologi e dei paleoetnologi e la vorrebbe veder applicata alla crìtica letteraria. «Non è esattamente così. Con i miei riferimenti all'archeologia e alla paleoetnologia io ho voluto dire due cose. Primo, che per essere dei buoni critici bisogna saper imparare dappertutto: si può apprendere di più dal lavoro e dalle procedure di un archeologo geniale che dalle considerazioni scolastiche di un mediocre teorico della letteratura. Secondo, che esiste effettivamente, a mio giudizio, una certa convergenza delle varie procedure di ri¬ cerca attualmente dispiegate nei vari settori umanistici. Ciò si verifica poi in un più generale processo di riconsiderazione della natura e delle finalità della ricerca scientifica, che si muove in una direzione sempre più critica e distaccata verso una concezione oggettivistica e «neutrale» della scienza. Wittgenstein è un autore che, secondo me, ha insegnato (o dovrebbe insegnare) qualcosa anche ai fisici». Lei traccia due binari, che Ìtossono anche correre parateli, in un ideale percorso della crìtica. Il primo va dall'antropologia alla semantica, da questa alla filologia e quindi alla linguistica. Il secondo riparte dalla linguistica per attraversare la stilistica, il rap- {torto tradizione-innovazione, a comunicazione e approdare infine al pubblico. «Sì, questi sono secondo me i due binari della critica, che in parte procedono paralleli, in parte si susseguono l'uno all'altro. Si parte da quelle misteriose stratificazioni di senso che si manifestano nelle caverne antropologiche, per arrivare processualmente alle prime, provvisorie sistemazioni linguistiche. Si riparte da queste prime sistemazioni linguistiche per arrivare allo stile, alla forma, all'individuo e di qui, attraverso la comunicazione, a quella fruizione dell'opera, che anch'essa può modificarne la fisionomia, attraverso stratificazioni ad¬ dirittura secolari. Ma forse è meglio leggere i saggi del Genus che cercare di spiegarne la dinamica. Potrebbe anticipare al lettore quali sono i «caratteri fondamentali» della nostra italicità letteraria, dal Decameron alle Lezioni americane di Calvino? E spiegare perché, tra queste, s'accampa il pessimismo? «Non esiste una sola "italicità" letteraria ma molte, ovviamente. Anzi, questa è una delle tesi di fondo del libro: l'identità italica è molteplice, non una (l'italiano-nazione, che infatti è un'astrazione, è uno solo, gli itali-popolo sono molti). Io credo però che, al tempo stesso, le diversità siano tenute insieme da una rete, molto spesso intenzionale e fortemente voluta, di aspetti, anzi di tensioni e pulsioni comuni. Tra questi, ovviamente, la lingua, che è un formidabile fattore di unità, soprattutto se, più che come banale strumento di comunicazione, la s'intende come uno dei geni, probabilmente il più potente, di questo essere italico nel mondo. Il pessimismo? Sì, è vero, a partire da una certa data - la catastrofe della libertà italiana nei primi decenni del Cinquecento - il pessimismo entra a far parte a pieno diritto dei più appariscenti e consolidati caratteri di questo Paese e di questa cultura. Guicciardini, Sarpi, Leopardi, Verga e tanti altri: è nel destino italiano non vedere e non trovare scampo al fato. Persino un politico, e per giunta «progressista», come Gramsci, che però era anche molto, molto italiano, è stato costretto a bilanciare il suo programmatico ottimismo della volontà con uno sconsolato pessimismo della ragione». BENTORNATA SIGNORA RIMA La poesia riscopre il classico TUTTE LE POESIE Giovanni Raboni Garzanti pp. 388 L. 35.000 TUTTE LE POESIE Giovanni Raboni Garzanti pp. 388 L. 35.000 RIMO Levi lo aveva previsto, in un articolo di dodici anni fa su «La Stampa»: la poesia tornerà alla rima. «La sua eclisse odierna mi pare inspiegabile, ed è certamente temporanea. Ha troppe virtù, è troppo bella per sparire». Non aveva previsto che insieme con quelle «dame di San Vincenzo», come le rime erano chiamate da Montale, sarebbero tornate le quartine, le sestine, le ottave; le forme più chiuse, e più classiche, della nostra tradizione letteraria. Del tutto morte, per la verità, non erano. Basta pensare ai sonetti, ben truccati, ma riconoscibili, che proprio Montale disseminava nella «Bufera»; o agli altri, in cui il Caproni del «Passaggio di Enea» aveva saputo sublimare i ricordi più feroci della guerra. Maestro di musica, e quindi anche di metrica, Caproni ne aveva inserito, silenziosamente, quattordici; come i versi che ogni sonetto chiede. Un calcolo al quadrato. Più di recente, Andrea Zanzotto ha controbilanciato le più rischiose escursioni verbali di Galateo in bosco con un gruppo di sonetti perfettamente ritmati, pur nella grumosità della parola («terre e radici plumbee faccio viridi»). E Sanguineti alterna da vent'anni il laboratorio dell'avanguardia con l'officina delle più antiche clausole retoriche, in esercizi spericolati dove la sestina si complica con l'acrostico e l'ottava con il lipogramma, come ha mostrato in I sonetti di Giovanni Raboni, le cento quartine della Valduga, il Canzoniere di Roberto Piumini La città dagli amori in salita onora Fautore di «Res amissa»: un convegno di studi e due libri Da sinistra: Giovanni Raboni, che ha raccolto per Garzanti, «Tutte le poesie», e Giorgio Caproni (lo ricorderanno tra gli altri Bo, Luzi, Natta) esiti stupefacenti anche nell'ultimo Corollario (Feltrinelli). Ma ora la poesia in forme chiuse viene proliferando, si fa scoperta, quasi provocatoria. Non è più il recupero, tardivo e magari ironico, del relitto classico, scelto per la forza d'urto che è in grado di sprigionare fuori dal suo tempo. E' una sfida al moderno in. nome del modernissimo, che si crea un nuovo alfabeto scomponendo un antico linguaggio, per ricomporlo in una luce tagliente, vivificata dall'obliquo. La sua forza è la geometria della parola, che dà scacco alla consumabilità della lingua d'uso, condannata all'insignificanza. La vena carsica della rima aggira, ignorata, la generaziome degli Anni 70; riemerge imprevedibilmente fra i più giovani. Due anni fa abbiamo letto, con gradevole sorpresa, le capriolanti Lime del napoletano Gabriele Frasca (Einaudi): in rime fin dal titolo, che sottintende un nodo retorico densissimo (rime-lime-limae labori. Un libro di nero umore beckettiano, espresso in versi sempre quadrati, tornanti puntuali su se stessi, pezzi disposti con cura matematica sulla scacchiera. Oggi tenta ancora di sorprenderci Roberto Kumini, già autore di filastrocche e di romanzi, che gioca la partita più impegnativa con un Canzoniere in cento sonetti: L'amore in forma chiusa (Il melangolo, pp. 118, L. 12.000). Piumini usa un linguaggio su due registri, mescolando l'immagine alta («il cielo in cui gli uccelli in ampio volo / trapuntano la chiara lontananza») a espressioni di basso quotidiano, con rischio di scivolate nel banale («ignobile, ridicola e vigliacca, / da sempre io lo so, è la gelosia»). Ma ha anche momenti di schietta inventività linguistica («smarassami di te, carne alleluja / sconvolgi di lucenza l'ar- ca buia»). E, soprattutto, un forte senso della struttura; sa concepire il libro come un poema, sotto il segno del numero. Con la centuria si cimenta anche Patrizia Valduga, forse la scrittrice che più ha rivalutato, in questi anni, la forma nella poesia; fin dal suo ungulante esordio, nel 1982, con i sonetti di Medicamento (Guanda). Cento quartine e altre storie d'amore, appena uscito da Einaudi (pp. 170, L. 18.000) si apre con un poemetto chiuso non solo nella forma, ma anche nel tema. E' un dialogo fra lei e lui, in 400 endecasillabi a rima alternata, che si inabissa sempre più nella carnalità per sottolineare meglio l'opposta tensione verso lo spirituale. L'autrice non arretra alla soglia dell'osceno, e spesso la oltrepassa, con effetti più grevi che necessari. Ma sa anche salire alla metafora verticale, dove il gioco erotico si libera, e si riaddensa, nell'immagine: «Terra alla terra, vieni su di me: / voglio il tuo vomere nella mia terra, / fiorire ancora traboccando e / offrire il fiore a te, mio cielo in terra». Il fiume carsico risale all'indietro, ci porta a Giovanni Raboni. Il volume ora edito da Garzanti, Tutte le poesie è l'occasione per ripercorrere l'itinerario quarantennale di uno fra i maggiori poeti del secondo Novecento. E u punto d'approdo è una raccolta di sonetti: Ogni terzo pensiero, il libro del 1993, dove l'autore ha trasfigurato una esperienza dolorosa nella forma più chiusa, ma per sé e per noi più illuminante. Giorgio Calcagno GENOVA PER CAPRONI DOPO Montale, Genova onora Giorgio Caproni: il, poeta che ha dato più amore alla «città dagli I amori in salita». Lo onora a Genova e in Val Trebbia, dove Caproni ha scritto tanta poesia e dove è sepolto, accanto alla sua Rina. Le manifestazioni, promosse dalla Provincia, in corso dall'inizio di giugno, culminano con il convegno di studi, domani a Genova, nella sala del Consiglio provinciale e sabato in Val Trebbia, al santuario di Montebruno. Interventi, fra gli altri, di Carlo Bo, Giulio Ferroni, Maria Luisa Spaziani, Bernard Simeone, Hanno Helbling, Alessandro Natta. Al centro, la presentazione del volume «Pier Giorgio Caproni», in uscita da San Marco dei Giustiniani, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, con i contributi di 51 critici, traduttori e poeti (pp. 490, s.i.p.). Come osservano i due curatori, non solo «la figura di Caproni va sempre più conquistando lo spazio di protagonista», ma, segno più evidente della sua mo¬ dernità, «consistenti tracce di moduli caproniani si trovano frequentemente tra i poeti più giovani». La prova, avvertono, è «la rinnovata fortuna della rima nella poesia italiana dell'ultimo decennio», che proprio all'influenza di Caproni va riferita. Non è un caso che alcuni dei saggi presenti nel volume puntino al tema della rima: da Ginevra Bompiani («La Bestia e la rima») a Elio Gioanola («Dio per Caproni? La rima con io»), a Silvio Ramat («Poeta della rima», più direttamente). Ma il libro mira a cogliere l'intero universo di Caproni, con interventi su aspetti globali della sua opera (come Giorgio Agamben, Giorgio Bertone, Biancamaria Frabotta, Valerio Magrelli); o su luoghi specifici della poesia (come Franco Contorbia, Giorgio Barberi Squarotti, Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Croce). Importanti le testimonianze dei poeti, da Luzi a Bigongiari, da Zanzotto a Raboni, dense di affetto, e insieme di stimoli critici. A completare il panorama, esce ora da Garzanti un «Giorgio Caproni» di Giuseppe Leonelli (pp. 153, L. 25.000). L'autore, fra i più attenti lettori del poeta, e già presente nel volume genovese, dice di aver voluto fare un percorso di lettura, lungo un'opera di oltre cinquant'anni. Ma ha scelto un percorso che si muove «fra musica e retorica»: e la sua guida va diretta al cuore del problema, [g. ci »

Luoghi citati: America, Europa, Genova, Roma