L'ISTRUZIONE IN ITALIA POCA E POCO REDDITIZIA

RICERCA RICERCA L'ISTRUZIONE IN ITALIA: POCA E POCO REDDITIZIA INDIVIDUO MADE IN USA: DEMOCRATICO EGOISTA? L'ISTRUZIONE IN ITALIA: SOLO UN PEZZO DI CARTA? a cura di Nicola Rossi // Mulino pp. 510. L. 50.000. Il ministro Berlinguer Solo il 6% ha la laurea E per fare carriera k origini familiari continuano a pesare più del pezzo di carta Sono quattro milioni gli analfabeti di ritorno* HE piaccia o no, che ci si creda o no, siamo un Paese ancora ignorante. La sesta potenza industriale del mondo (o la quinta secondo Romano Prodi) conta oltre un milione di analfabeti in senso stretto e quattro milioni di analfabeti di fatto. Con gli analfabeti di ritorno, non siamo lontani dal dieci per cento della popolazione italiana. Ma non basta. Nella popolazione attiva (compresa tra i 24 e i 65 anni) solo il trenta per cento ha finito le scuole superiori, contro quote dell'83 per cento in America e dell'82 per cento in Germania, mentre l'istruzione universitaria riguarda il 40 per cento degli americani e il 20 per cento dei tedeschi (sempre fra i 24 e i 65 anni), ma soltanto il 6 per cento degli italiani. Questi bassi livelli di scolarizzazione non riguardano soltanto le vecchie generazioni, ma anche le classi più giovani. E' il verdetto di una ricerca promossa dall'associazione «Etica ed Economia» pubblicata dal Mulino: L'istruzione in Italia: solo un pezzo di carta?, a cura di Nicola Rossi, che insegna Analisi dell'economia all'Università Tor Vergata di Roma (ed ha appena pubblicato, dallo stesso editore, Meno ai padri più ai figli, sulla riforma del Welfare State). Si tratta di tredici saggi, firmati da una ventina di studiosi, divisi in tre parti: quanta istruzione abbiamo, a che cosa serva l'istruzione e come possiamo migliorarla, con un bilancio finale di Tullio De Mauro sulle prospettive del rapporto tra studio e lavoro. In tutto cinquecento pagine, fitte di dati statistici, che rappresentano un punto di vista eccentrico rispetto alla tradizione italiana degli studi su scuola e formazione: gli autori sono o economisti o sociologi. Il sistema istruzione è analizzato e ponderato con criteri socio-economici, alla ricerca di ciò che è più utile per il futuro del Paese. Gli italiani dunque sono ignoranti in misura superiore a quella di altri Paesi industriali. Queste sono le conclusioni della prima parte della ricerca, non molto gratificanti. Ma perché dovremmo cambiare condizione? A cosa serve il «pezzo di carta»? Non avranno ragione tutti i giovani che dopo la scuola dell'obbligo preferiscono lavorare in fabbrica? I tassi di abbandono sono tuttora molto elevati: su mille alunni della prima classe della scuola media, 891 si iscrivono alla seconda e 654 arrivano al diploma (dati del 1994). Il disagio spiega soltanto una parte di questi abbandoni. La maggioranza di chi rinuncia agli studi lo fa perché non considera l'istruzione un investimento redditizio. Hanno ragione? Hanno torto? I criteri in base ai quali calcolare il tasso di rendimento dell'istruzione sono soprattutto due: gli effetti sul reddito personale e l'influenza sulle scelte occupazionali. Nel lavoro dipendènte, la ricerca stima che un anno aggiuntivo di istruzione scolastica possa valere uh aumento della retribuzione fra 6 e 7,5 per cento. Quanto alla scelta del posto di lavoro, è condizionata dalle origini sociali e dal background familiare. In particolare la ricerca dimostra che l'istruzione, con buona pace di Adriano Olivetti, non serve per acquisire lo status di imprenditore. Decisivo è il peso delle origini sociali. Ciò che conta è il controllo che le famiglie esercitano sulle imprese. L'istruzione non riesce ad eliminare questa disuguaglianza di partenza. Soprattutto nel settore delle piccole imprese, non si diventa imprenditori perché si è istruiti. Semmai perché si è figli di imprenditori. Naturalmente la ricerca considera anche l'utilità dell'istruzione come fattore di sviluppo generale della società italiana, ma restando bene coi piedi per terra. In questa chiave propone dieci obiettivi di riforma. Una parte sono compresi nei programmi del «ciclone Berlinguer» (obbligo a sedici anni, autonomia degli istituti scolastici, ecc.). Gli altri hanno il senso di una svolta che faccia dell'istruzione una questione centrale, come lo era per Gramsci e per Giolitti, un progetto di formazione dei cittadini adatto a una società complessa, che pensa il presente in funzione del futuro. Fra i più significativi, se non rivoluzionari, un piano nazionale di lotta all'analfabetismo, un sistema di valutazione unico e nazionale, un uso sistematico delle borse di studio, l'abolizione del valore legale del titolo di studio. I guasti della scuola, secondo il libro, non sono dovuti solo alla distrazione del potere politico. C'è qualcosa che non funziona nelle sue strutture, se metà dei nostri studenti prende sessanta alla maturità, ma non sa dire che percentuale è 3 su 25. «7 have a dream, dobbiamo dire ancora oggi - scrive De Mauro -. Potremo presto coniugare il verbo al passato?». Alberto Papuzzi INDIVIDUALISMO DEMOCRATICO Emerson, Dewey e la cultura politica americana Nadia Urbinati, Donze//i pp. 214, L. 32.000. WaltWhitman Come educare i cittaauii alla politkaF Due anime della cultura americana: lo spirito comunitario da Emerson a Dewe}1' e ^antistatalismo in nome del possesso N'AUTENTICA cultura liberale e repubblicana, capace di coniugare individualismo e patriottismo costituzionale, stenta ad attecchire, così almeno un ricorrente lamento, nel nostro Paese. La sua riproposta, alimentata soprattutto dai recenti dibattiti d'Oltreatlantico, fa fatica ad amalgamarsi con il nostro lessico politico e spesso suona vuota perorazione retorica. Il libro di Nadia Urbinati, docente alla Columbia University, Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, aiuta a capire il perché di questa difficoltà. Il suo non è solo, infatti, un saggio storico sulla vicenda dell'individualismo democratico negli Stati Uniti di ieri e di oggi, sulle sue radici puritane e sulla metamorfosi politica del calvinismo in terra di frontiera, sulle diverse anime - romantica e conformista - della cultura politica americana, è anche un lavoro che met te a confronto l'interpretazione che del Nuovo Mondo fornisce un acuto osservatore europeo come Tacqueville con l'interpretazione proposta da Ralph Waldo Emerson, lo scopritore della geografia spirituale dell'America, di «quel nuovo continente morale americano» di cui parla con rapimento Walt Whitman. Originariamente, nella cultura postrivoluzionaria europea, di destra e di sinistra, individualismo sta per una condizione negativa di egoismo, atomismo, disordine e disgregazione sociale. Negli Stati Uniti, invece, l'associazionismo riscatta con motivazioni morali l'anarchia degli egoismi, combinando con successo l'iniziativa imprenditoriale allo spirito comunitario predicato dagli utopisti e dai profeti della frontiera. «Ogni uomo - così Emerson nel 1841 - non è tanto uno che operi nel mondo, ma è piuttosto un suggerimento di ciò che vorrebbe essere. Gli uomini camminano come profezie di un'età a venire». Nella terra in cui cristianesimo e democrazia sono destinati a sancire una nuova alleanza, l'uomo è insieme «un cartesiano istintivo e.un credente»,'un razionalista e un missionario. Al rifiuto dell'atomismo si accompagna quello dell'astruso dottrinarismo europeo, che porta alla nascita dell'unica autentica filosofia americana, il pragmatismo. In una cultura politica assai meno satura di presupposti ed elaborazioni dottrinarie, filosofia e democrazia non si implicano a vicenda, come taluni interpreti, da Tacqueville a Rorty, hanno riconosciuto. «Se ci fossero molti filosofi, il mondo andrebbe a pezzi», annota Emerson nel suo Diario. Oggi che la filosofia politica americana è all'apogeo, quella società s'interroga con preoccupazione sul venir meno dei legami, delle appartenenze, delle identità, f cui tanto dispendio di sofisticate teorie non sembra in grado di porre rimedio. Il libro ci invita così a raffrontare le due anime della cultura politica americana, quella dell'individualismo possessivo e dell'antistatalismo utilitaristico (che chiede meno Stato, e possibilmente uno Stato solo guardiano notturno) e quella dell'individualismo idealista e missionario. Ne risulta l'immagine di un composto chimico instabile, capace di nuove sintesi ma forse poco adatto al mutamento dei contesti ambientali, quando questi siano tradizioni cariche di storia. Sarebbe infatti ingenuo pensare che da un innesto dell'individualismo democratico di stampo americano possa venire il rimedio al nostro disordine morale e politico. Intanto, non vi è dubbio che l'individualismo possessivo sia qualcosa di più facilmente esportabile della cultura democratica dell'individuo e del repubblicanesimo. E' lui infatti a vincere nel processo di americanizzazione del mondo. Inoltre, sarebbe bene chiedersi quanto quell'individualismo democratico, che tra Emerson e Dewey ha originato una specifica tradizione, sia ancora davvero rappresentativo della cultura politica americana. Come non c'è una ricetta made in Usa per le istituzioni, così (e ancor meno) ve ne può essere una per la cultura democratica. L'individualismo è stato il figlio di una società che poteva permettersi il lusso di essere aperta (laddove non discriminava e segregava). Le società europee, a dispetto delle ideologie del libero mercato e del dialogo interculturale, si prepaparano invece a una stagione di chiusura e di accerchiamento. Dosare le opportunità e i costi dell'inclusione e dell'esclusione sarà sempre più la posta di una cultura democratica del futuro: e su questa frontiera noi europei dovremo trovare da soli la via. % > Pier Paolo Portinaro