Ma per maugham è un lungo incubo di Maurizio Cucchi

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Maurizio Cucchi LA nuova longevità» di Carlo Vergani (Mondadori, pp. 230, L. 18.000) è un libro che ci riguarda tutti, senza distinzione di età o mestiere. E' vero che il suo autore (che risponde alle domande di Manuela Grassi) è un uomo di scienza, un illustre geriatra, ed è vero che il tema centrale è la vecchiaia. Ma La nuova longevità, pur nel rigore dei suoi dati, è un'opera nella quale Vergani espone anche il risultato delle sue riflessioni su questioni fondamentali riguardanti la ricerca di un equilibrio vita-morte, affermando che l'età avanzata è o sarà come ognuno la prepara nel corso degli anni. Siamo abituati fin da piccoli a considerare l'anziano, meccanicamente, come un individuo che ha varcato per sempre una soglia di appartenenza piena alla società, quasi un diverso che può vivere solo di ricordi e rimpianti, di una saggezza da elargire pedantemente e quasi dall'esterno del mondo, nell'attesa della morte. Invece quello dell'anziano è uno • dei vari volti dell'individuo (che è al tempo stesso uno e molti) nel percorso e nel fluire dell'esistere. E' un volto mutante, lieto o sofferente secondo come è stata la sua vita e come la società ha saputo e saprà autoeducarsi ad assorbirne positivamente la presenza. Carlo Vergani ce lo fa capire, attraverso la sua scienza, ma anche, e molto, attraverso l'equilibrio forte del suo pensiero e della sua solidità morale. ER tutta la vita Franz Hessel tentò di leggere fino in fondo la fiaba del Facchino di Baghdad tratta dalle Mille e una notte. E' la storia di un pover'uomo che segue e aiuta una misteriosa dama velata nei suoi acquisti al bazar e viene quindi introdotto in uno splendido palazzo dove vivono tre belle sorelle. Il bambino Franz s'addormentava sempre a questo punto. L'adulto Hessel intuì che penetrare nelle stanze segrete delle tre ragazze era come cercare il paradiso perduto dell'infanzia nel mondo dei grandi. E identificò quell'utopia col suo mestiere di scrittore. Perfino il fascino di Marlene Dietrich egli l'attribuì, in un suggestivo ritratto dell'attrice, all'dnfanzia salvata», ad un'anima che sapeva conservare l'eco lontana della propria origine. Lui invece, nato a Stettino nel 1880 e trasferitosi qualche anno dopo a Berlino con la famiglia, era destinato a vivere con profonda consapevolezza e senza grandi traumi il destino di un outsider, che guarda la vita da una Da sinistra: Franz Hessel, autore di «Romanza parigina», e William Somerset Maugham («Una vacanza a Parigi») certa distanza e si pone come meta ciò che Goethe definiva la «felicità di chi conduce un'esistenza da puro osservatore». La fiaba orientale divenne agli occhi dell'ebreo Hessel, cresciuto in una famiglia di ricchi commercianti e banchieri, la metafora stessa del proprio destino: riscoprire le tracce di un'identità perduta, ripercorrere i luoghi di una memoria che la vita moderna sembra aver cancellato per sempre. «Io abito le rovine di mondi scomparsi», confessa alla sua giovane amica Lotte il protagonista del romanzo di Franz Hessel, Romanza parigina, uscito recentemente da Adelphi nella morbida traduzione di Enrico Arosio. E' una testimonianza che racchiude l'ineluttabilità del tempo e il gesto appassionato dell'archeologo-scrittore che da ogni minuta traccia, da ogni frammento ricostruisce la civiltà del proprio cuore. Franz Hessel non fu un grande narratore, ma il malinconico e un po' appartato interprete di una modernità sfigurata dalle proprie angosce, di cui vorrebbe, alla stregua dei surrealisti, ricostruire il volto autentico. Come il suo amico Walter Benjamin, col quale tradusse parti della Recherche proustiana, anch'egli ha due amori: Berlino e Parigi. Non le scruta con l'occhio del viaggiatore e del turista, ma con quello del flàneur. Cioè di un passante che ha la dignità del prete e il fiuto del detective. Scopre dietro le rovine del presente la fisionomia ancestrale di una cultura, le sagome dei lari che occhieggiano fidati verso il viandante curioso. «Vediamo solo ciò che ci osserva», è la sua filosofia espressa in un capolavoro del girovagare come A spasso per Berlino (1929) a cui Benjamin dedicò parole entusiaste. Hessel ricerca vecchi legami, antichi connubi che legano l'anima alla città e quest'ultima alle sue fantasie di bambino. Più che nello spazio viaggia nel tempo, come l'amato Proust. Anche il narratore autobiografico di Romanza parigina ne è consapevole: «I muri di pietra, i vestiti di seta, gli stracci e i frutti dei mercati: ogni cosa, nel momento in cui la vediamo, è già lontana come un ricordo. Il nostro cammino per le strade è un trasognato scivolare, senza neanche dover muovere gli arti». C'è un'atmosfera fin de siècle in questa tenera storia d'amicizia e d'amore fra la bionda diciannovenne Lotte, arrivata a Parigi alla vigilia della Grande Guerra per migliorare il suo francese, e il suo casuale accompagnatore, che le amiche chiamano Madman. L'apocalisse è vicina, eppure Parigi, «la città più carnale che ci sia», scivola via sotto i nostri occhi come un gran teatro delle meraviglie. E' lei la protagonista di un libro che si apre alle suggestioni del Malte di Rilke, del Werther goethiano e anticipa la sottile trama lirica di Infanzia berlinese di Benjamin. Pubblicato nel 1920, Romanza parigina è la magica testimonianza di un congedo: da Lotte, dal mondo di ieri, dall'amico Claude. La guerra ha trasformato un simpatico giovanotto tedesco che conosceva Parigi come le sue tasche ed era di casa fra gli artisti e i bohémien di Montpar- nasse in una recluta del Reich, In attesa di raggiungere il fronte, da dove non tornerà, egli butta giù per l'amico un resoconto in forma vagamente epistolare di quei giorni felici. Ma nulla può essere come prima: la malinconia getta strane ombre su queste pagine aperte al senso tragico e commovente della vita. Tra la gaiezza e il lutto c'è una soglia impalpabile che Hessel attraversa con grande leggerezza. Così come tra l'amore e l'abbandono. E in un mondo vuoto resta la bellezza di Lotte: un'apparizione, una dea scesa dall'Olimpo. Ma anche una donna che suscita passioni e tormenti: si chiamava Helen Grund, divenne la moglie di Hessel e l'amante di Henri-Pierre Roche, l'autore del romanzo Jules etJim, che a molti anni di distanza racconta del loro ménage a tre. Era lei la Lotte a cui Jeanne Moreau diede un indimenticabile volto nel film di Truffaut. Nel romanzo di Hessel è ancora un'adolescente che s'interroga sulla vita. Una figura magica sulla soglia del piacere. Franz Hessel l'ammira e desidera senza sfiorarla. Come scrisse Roche (il Claude di Romanza parigina), gli amori infelici erano la sua specialità. E lui, da buon amico, fece di tutto perché Franz non cambiasse idea. Luigi Forte Ma per maugham è un lungo incubo

Luoghi citati: Baghdad, Berlino, Parigi, Stettino