L'addio del nipotino di Brandt di Mimmo Candito

PERSONAGGIO PERSONAGGIO I/addio del nipotino di Brandt Gonzàlez, profeta della Spagna che ha dimenticato Franco BELLO EVINCENTE QUANDO Felipe arrivò al potere, nell'ottobre dell'82, per la Spagna fu come se la grande lastra di marmo che chiude la tomba di Franco, lassù, nelle montagne grigie del Valle de los Caidos, si fosse assestata definitivamente. Il tonfo sordo di quella pietra ebbe un'eco profonda nella coscienza di una società ancora incerta sulla propria identità collettiva. La vittoria di Gonzàlez, giovane avvocato sevigliano e leader del nuovo psoe, non era soltanto il passaggio del governo nelle mani di un partito d'opposizione; quel trionfo, soprattutto, cancellava l'ideologia che aveva guidato la storia della Spagna negli ultimi quarant'anni. I «rossi» ora avevano vinto, una rivoluzione culturale si faceva davvero realtà. Quella rivoluzione, quand'era cominciata l'avevano chiamata «el destape», che è come dire di ima bottiglia quando si tira via il tappo e sotto c'è il vino, vivo, forte, brillante, che vuole l'aria e ha un'energia repressa da sfogare senza più controllo. Così era la società spagnola in quegli anni, mentre i fantasmi della guerra civile andavano a rincantucciarsi negli angoli bui della memoria, e la voglia di nuovo, il desiderio del vivere, il bisogno della libertà, trovavano sempre più spazi: il tappo della dittatura era saltato via, e ora i quarant'anni di repressione avevano un lungo recupero da rivendicare. Di questo recupero, di questa voglia senza limiti, di questo bisogno di trovare gli itinerari sui quali marciava già il resto d'Europa, Felipe fu l'interprete perfetto: bello come nemmeno Manolete era stato, la sonorità dell'accento andaluso appeso alla sua dolce parlata d'avvocato, alto e nero come un verso di Garda Lorca, il nuovo capo del socialismo spagnolo aveva tutti i requisiti che la nascente società dello spettacolo imponeva alla nuova tribuna delle Cortes democratiche. Era «rosso» quanto bastava per alzare la bandiera della libertà (ma non per essere confuso - peccato ancora imperdonabile - con un comunista), ed era giovane e fiero proprio come la nuova società spagnola amava rappresentare se stessa. Sembrava un prodotto della Procter & Gamble (e come tale molti di noi all'inizio lo presero. Ma ci sbagliavamo). Felipe fu un politico vero, un grande politico della storia del suo Paese, alla pari di un Cànovas e di un Pablo Iglesias. Non voleva essere confuso con le cariatidi che rappresentavano il passato, la Ibàrruri, don Santiago, lo stesso Tierno Galvan; no, lui era la «nuova» Spagna, europea, democratica, alternativa, e con un unico programma, che aveva poco di ideologia e molto di pragmatismo: la modernizzazione del Paese. In quegli anni andai a intervistarlo, facevamo un confronto tra la vecchia Italia lenta e appesantita e la nuova Spagna leggera e veloce. Mi disse: «Oggi siamo come voi negli Anni 60, al tempo del boom. Stiamo avendo il nostro boom, ma - al pari di voi in quel tempo - ci mancano ancora le infrastrutture, economiche e umane». Il suo progetto era di far uscire la Spagna dalla propria antica profondità e portarla nel tempo d'oggi. Erano, in fondo, gli stessi progetti del socialismo democratico europeo, ma quello mediterraneo però, non quello del Nord: e quando dico «mediterraneo» richiamo alla nostra comune memoria collettiva la spregiudicatezza nell'esercizio del pote¬ re e l'indifferenza, alla fine, per quei valori ideali che comunque stavano sempre alla base del vecchio canto dell'Internazionale. Al primo congresso del nuovo psoe, nella grande sala dove tutti eravamo emozionati perché l'ombra di Franco stava ancora seduta in qualche poltrona dell'ultima fila, l'Internazionale fu cantata in coro, il pugno in aria, le lacrime negli occhi. Poi, però, quel pugno e quelle lacrime scomparvero: Felipe volle cancellare ogni accenno al marxismo, nello statuto del partito, e s'impose guadagnandosi la stima definitiva del suo grande padrino, Willy Brandt. Il psoe si fece un partito moderno, come la Spagna che si fece una società moderna. Ma l'orgoglio, la presunzione, il convincimento della impunibilità, trasformarono in un equivoco affare la gestione del potere, che spesso fu assoluto e senza controllo, un potere in qualche modo «caudillesco», tipico della cultura politica spagnola. E l'orgoglio venne alla fine punito, l'anno scorso, con la sconfitta di Felipe e la vittoria di «Aznarmo», il piccolo Charlot della destra economica spagnola. La Spagna stanca della corruzione si consegnava ai nipotini di Franco, ma ora non più fascisti, non più corporativi, non più liberticidi: la destra moderna di un Paese moderno. Paradossalmente, perdendo Felipe celebrava il proprio trionfo, quello di aver fatto della Spagna isolata, della Spagna differente, un Paese d'Europa come tutti gli altri. Questo è il posto di Gonzàlez nella storia. Tutto quello che verrà dopo, sarà soltanto cronaca. Mimmo Candito

Persone citate: Brandt Gonzàlez, Cortes, Franco Bello, Pablo Iglesias, Tierno Galvan, Willy Brandt