Il dolce sorriso del Male. Una carriera avvolta nelle tenebre

Il dolce sorriso del Male Il dolce sorriso del Male Una carriera avvolta nelle tenebre IN apparenza, l'opposto dello squilibrato, del fanatico illuminato. «Carismatico», diceva di lui Norodom Sihanouk, parlandone come di una persona tranquilla che emanava serenità e sicurezza in se stesso. Del resto, la natura stessa del regime Khmer rosso non richiedeva esuberanze nella pratica della dittatura: niente folle da arringare, perché non ce n'erano dove si esercitava il potere. Era stato insegnante, e aveva un debole per le citazioni di Verlaine. «Piove nel mio cuore come sulla città», è uno dei versi prediletti da Saloth Sàr (allora docente di francese), come ricorda Soth Polin, ex professore di filosofia a Phnom Penh. Proprio la capitale, meglio, la sua disincarnazione è il luogo di nascita della tragedia polpotista, quando i Khmer rossi ne sgomberarono gli abitanti (era l'aprile del '75) costringendoli a tornare alle «origini Khmer», in risaia o nella giungla, con la scusa che Phnom Penh appena conquistata poteva essere bombardata dagli «imperialisti». Da quel momento in poi pochissimi incontrano l'uomo che si fa chiamare «Fratello numero uno» e regna con il nome di Poi Pot, e che a lungo non verrà collegato a Saloth Sàr, il noto guerrigliero cui l'esercito di Sihanouk e poi quello di Lon Noi davano la caccia nella giungla. Né all'inizio Saloth Sàr giudicò utile farsi pubblicità come leader del Kampuchea Democratico, il regime nato dalla vittoria del 17 aprile 1975. La sua prima apparizione pubblica risale soltanto a due anni e mezzo dopo, quando si presentò appunto con il nome di Poi Pot come capo del partito comunista del Kampuchea. Nel '77 compare a Pechino, dove è ricevuto con grandi onori dai fratelli cinesi: si vede un uomo infagottato in un tetro abito alla Mao, un volto enigmatico che ostenta riirrinunciabile sorriso khmer, fonte di tanti equivoci. Quando si scopre la tragedia cambogiana l'Occidente trasecola: come ha potuto quel popolo così dolce, così gentile, quel popolo dalla cultura così raffinata, lasciarsi trascinare in una simile follia omicidia, cospargere il Paese di ossari, automassacrarsi in nome della purezza ideologica? Bisogna risalire al '62 per trovare il primo indizio dei metodi sbri- gativi cari a Poi Pot. Tou Samouth, fondatore dell'allora Partito dei lavoratori del Kampuchea, viene assassinato in circostanze non ancora chiarite ma di cui il Vietnam accuserà Poi Pot personalmente. Questi, che fino a quel momento era il numero tre del partito, ne assume la guida e fugge da Phnom Penh. In un'area controllata dalla guerriglia alla frontiera con il Vietnam del Sud ha un'illuminazione: le potenzialità della leva del nazionalismo, sul quale costruirà la sua filosofia della rivoluzione. Ha al suo fianco Ieng Sary: i due sono legati dal matrimonio con due sorelle della buona società di Phom Penh. Alcune testimonianze attribuiscono alla moglie del capo supremo dell'«Organizzazione» un'influenza particolarmente isterica sul marito. Ma forse è soltanto l'invenzione di chi rifiuta la logica dell'orrore e privilegia un problema psichiatrico. Comunque, è impossibile saperlo con certezza: i pericoli della guerra si sommano ai motivi che impediscono ormai a Poi Pot di uscire da quell'ombra dalla quale stermina il suo popolo e lo spinge in un conflitto suicida con il popolo vicino. Si rifugia in Thailandia, poi torna nella giungla (dove riceve una sola troupe di giornalisti di una tv giapponese di sinistra), continuando la sua sinistra carriera a cavallo della frontiera in un isolamento quasi assoluto che esaspera il mistero su quel vortice di follia collettiva che egli stesso ha istigato. La fine di Poi Pot incomincia con la perdita della carta monarchica: in seguito agli accordi di Parigi per un regolamento politico della guer- ra, le elezioni del marzo '93 vanificano il messaggio di cui gli Khmer rossi tentavano di restare detentori assoluti: il pericolo vietnamita. Sihanouk torna sul trono a Phnom Penh, la Thailandia prende le distanze dall'uomo cui Pechino chiedeva da tempo di «sparire». Il male che il potere di Poi Pot ha inflitto alla Cambogia è, secondo lo stesso Norodom Sihanouk, il risultato di una pulsione mortale che ciclicamente ne spinge il popolo all'autoflagellazione: «Più volte nel passato il popolo khmer, che ha costruito Angkor, ha provato un morboso bisogno di distruggersi con le sue mani», disse il sovrano alla fine degli Anni 80, quando lottava disperatamente per mantenere l'attenzione della comunità internazionale sul Kampuchea Democratico e impedire la legittimazione del fatto compiuto vietnamita. A costo di mandar giù le critiche per la sua alleanza tattica con l'uomo simbolo della persecuzione, al quale però non ha mai pensato di concedere la minima amnistia: più di venti membri della famiglia rea¬ le, tra i quali quattordici figli e nipoti del principe, sono stati vittime dell terrore Khmer rosso. Poi Pot non finisce da condottiero. Negli ultimi anni è stato soltanto un uomo braccato nella giungla, i cui ultimi fidi, non potendo fuggire all'estero, sognavano sempre più come negoziare un modus vivendi con il governo. Per errore l'anno scorso ne è stata annuciata la morte. Era malato da anni della terribile malaria della giungla cambogiana, ed era effettivamente in pessime condizioni: si spostava soltanto in barella, e sotto ipodermoclisi. Francis Deron Jean-Claude Pomonti Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa» C'è chi attribuisce alla ruolo diabolico, ma forse moglie un è leggenda Golfo di Thailandia Una delle rarissime fotografie di Poi Pot Risale probabilmente al 1989