«Anche chi ha fotografato è colpevole» di Vincenzo Tessandori

// cappellano: educati al coraggio, non alla crudeltà INTERVISTA IL CONFESSORE UE! PARA' «Anche chi ha fotografato è colpevole» // cappellano: educati al coraggio, non alla crudeltà La verità? «Sono ancora perplesso e ancora sconvolto al pensiero che della gente possa arrivare a far cose del genere», dice monsignor Giuseppe Mani, 61 anni, fiorentino, vescovo ordinario militare, il capo dei preti con le stellette. «E mi domando perché. Ma, prima di tutto, mi domando se si sia arrivati a una cosa del genere...» Vuol dire se sia vero? «Sì, se sia vero. Perché io conosco questa gente e alcuni molto bene, tra l'altro il generale Loi. Gente piena di dignità, con delle belle famiglie alle spalle, persone normalissime, serene. Ora, io rifiuto di credere che questa gente fosse consapevole, sapesse, o addirittura avesse stimolato a far certe cose». Però ci sono le foto... «Ecco, a questo punto la mia perplessità aumenta. Com'è possibile che degli uomini fotografino orrori di quel calibro, cinicamente? Perché, è da tenere presente, sono due i colpevoli: chi fotografa e chi fa le cose da fotografare». Però, torturare è diverso che guardare. «Ma io mi rifiuterei di fotografare chi picchia, gli salterei addosso. Oppure, se ho paura, lo fotograferei per dire, domani: "Guarda che cosa ha fatto questo". Ma a chi ha manifestato un cinismo unico, a chi dopo quattro anni, si è pentito di tutto cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze tanto da dire "Guardate, abbiamo fatto questo!", a costui voglio domandare: "Che cosa ti capitava, che cosa ti succedeva dentro, quattro anni fa?" Come Vesco¬ vo a me non interessano le punizioni: a me interessa l'uomo. Com'è possibile che un uomo sia potuto arrivare a far questo? Ecco, che cosa domando a quelli che hanno fatto le fotografie, gli unici che c'erano, e che sono colpevoli come gli altri». Ritiene che reati di questo genere, possano essere provocati da un'educazione militare sbagliata? «L'educazione alla crudeltà porterebbe a far gesti del genere: i gian¬ nizzeri venivano educati per questo, mi pare. Però io conosco bene tutta la Folgore, ho finito ora là visita pastorale, ho trascorso un giorno in ogni reparto e ho visto l'addestramento di questi ragazzi, la serietà con cui vengono preparati. Sono decisamente ragazzi formati al coraggio, li ho verificati a Sarajevo, a 20 gradi sottozero: i para erano là in primo piano, a lavorare e impegnarsi». E allora, non crede a un malinteso senso del dovere? «L'educazione al coraggio non comporta minimamente l'educazione a questo genere di crudeltà sull'uomo. E questo io l'ho potuto verificare. I para sono educati al coraggio, come dovrebbe essere educato ogni uomo: non ogni soldato, ogni uomo. E questa educazione al coraggio non mi pare assolutamente sia collegabile a una formazione alla crudeltà». Lei è anche un militare: che reazione ha avuto di fronte a queste notizie? «Di grande stupore, perplessità, sconcerto. Ovviamente sono cose che possono avvenire, avvengono e sono sempre avvenute anche fuori dal mondo militare». Ma i soldati, queste cose le confessano al cappellano? «Questo lo ignoro. Sicuramente, se lo hanno fatto, nessuno verrà mai a saperlo, neppure il Vescovo». Se le raccontassero a lei, li assolverebbe? «Se sono pentiti, sicuramente: mi sono fatto prete apposta per perdonare». Finora hanno parlato soprattutto i testimoni, cioè quelli che lei definisce complici. Dai presunti torturatori solo parole di giustificazione, non di pentimento. Perché? «Leggo e seguo attentamente la vicenda e ho avuto la sensazione che costoro non avessero molto il senso della gravità di una cosa del genere, che non si rendessero conto. E quello è il mio problema, il mistero che vorrei sciogliere: come un uomo, messo laggiù in Africa, con quel caldo da morire, senza orari, senza mangiare, senza niente, in un momento di guerra, possa arrivare a queste forme di crudeltà». In guerra: è la giustificazione. Ma che cosa significa? «Questo non lo so neppure io. Sicuramente si scatenano forme di difesa, forse impensate in tempo di pace, in uomini sereni e tranquilli come siamo noi, ora. Una cosa però è chiara: che ho trovato in tutti riprovazione per le cose in se stesse e questo vuol dire che ero dinanzi a persone oneste, rette e sincere». I cappellani che erano in Somalia, ma anche gli altri hanno mai accennato a una possibile fragilità psicologica di alcuni giovani chiamati ad assolvere un compito in realtà molto pesante? «Questo è difficilissimo perché non si sa sin dove arriva la difficoltà oggettiva e dove arriva la fragilità psicologica. Sono giovani, è vero, come i miei cappellani, quelli che mando io in Bosnia, li ho mandati io in Albania, li scelgo io per andare là. Però ancora non l'ho trovato un Rambo che parta entusiasta: "Vado io, faccio... " No, no, è tutta gente in timore e tremore, insomma. Sono persone serie che vanno tenendo conto in che situazione si troveranno. Io sono stato a verificare, vedere, studiare. L'altro giorno ero a Venzone a dare il Vangelo a tutti gli alpini che giovedì partono per la Bosnia: ho visto ragazzi motivati, seri, tutti di leva, che hanno scelto loro di andare. Però non ho trovato Rambi ma giovani molto normali, consapevoli». Ragazzi hanno raccontato che alcuni ufficiali ordinavano di non trattare i somali come esseri umani... «Bisogna vedere come, chi e in che circostanze lo hanno detto. Io non riesco a immaginare il generale Loi, all'alzabandiera, che dice: "Trattate i somali come se non fossero persone". Nemmeno l'avessi sentito. Si può dire qualsiasi cosa, ma che ufficiali e sottufficiali... e chi l'ha detto?». Ora c'è un'inchiesta. «E io credo che si farà molta, molta chiarezza». E chissà, forse si vedrà verità. Vincenzo Tessandori Monsignor Giuseppe Mani, capo dei cappellani militari

Persone citate: Giuseppe Mani, Loi, Vesco

Luoghi citati: Africa, Albania, Bosnia, Sarajevo, Somalia, Venzone