Einaudi, il ritorno dell' «americano» di Andrea Di Robilant

25 Parla Luigi, «nipote del George Washington italiano», che si dedicherà alla Fondazione torinese Einaudi, il ritorno dell'«americano» Dai vertici della diplomazia «yankee» WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE L'odore umido delle colline, l'odore dei vigneti... Io credo nel richiamo della terra». Luigi Einaudi fissa la grande fotografia a colori appesa al muro e si riempie i polmoni d'aria come se davvero si trovasse lì, nella campagna di Dogliani, piuttosto che nel suo ufficio al settimo piano del Dipartimento di Stato. In questi giorni il «richiamo della terra» è più intenso del solito. Tanto che ha portato il nipote americano del grande economista e statista piemontese a prèndere una decisione drastica: il 3 luglio lascerà il Dipartimento di Stato, dove è stato uno degli artefici della politica estera americana negli ultimi vent'anni, per dedicarsi alla Fondazione Luigi Einaudi a Torino. «E' un ritorno alle mie origini, alla mia infanzia», dice di questa svolta. Ma è anche l'osservanza di un patto sottoscritto con suo padre Mario, il primogenito di Luigi Einaudi che nel 1964 diede vita alla Fondazione - uno dei maggiori centri di ricerca per l'economia in Italia, con una biblioteca di oltre 200 mila libri. Mario - fratello di Giulio, l'editore, e di Roberto, l'imprenditore dell'acciaio (Techint) - emigrò con la moglie Manon Michels negli Stati Uniti nel 1933, dopo aver rifiutato di firmare l'adesione al fascismo. Ebbe una lunga e proficua carriera accademica alla Cornell University ma riuscì a mantenere sempre vivo il rapporto con l'Italia. «Dopo la morte di papà tre anni fa il rapporto della Fondazione Einaudi con gli Stati Uniti si è interrotto», dice Luigi, 60 anni, a sua volta primogenito (un fratello, Roberto, è architetto a Roma; l'altro, Marco, insegna geologia alla Stanford University). «Tocca a me ristabilire quel rapporto. Del resto mio padre ed io ne parlammo a lungo. Ed è ora che mi assuma la mia responsabilità. Ho procrastinato anche troppo». Questo «ritorno alle origini» ha un che di paradossale. Luigi Einaudi è un americano a tutto tondo, un perfetto yankee. E' nato a Cambridge (Massachusetts), è cresciuto nelle migliori scuole e università americane (licenza alla Phillips Exeter Academy, laurea e dottora- to alla Harvard University). «E mia moglie Carol ha rafforzato ancora di più la mia americanità», dice ridendo. Ma sotto la pelle yankee, il sangue non ha mai mentito. «Crescevamo in America e l'America cresceva in noi, eppure l'Italia era sempre presente». Attraverso il padre Mario, naturalmente, ma soprattutto attraverso il famoso nonno, di cui Luigi porta il nome con evidente orgoglio. «Ogni estate andavamo in Italia per le vacanze a bordo del Saturnia o del Vulcania. Stavamo con mio nonno al Quirinale, oppure a San Giacomo, la tenuta a Dogliani. Era molto legato ai suoi nipotini americani. Mi portava nel suo studio dove insieme leggevamo Alexis de Toqueville e il Virgilio delle Georgiche». Dopo la morte del nonno nel 1961 i viaggi di Luigi in Italia si diradarono. Per un giovane americano fresco di laurea quel cognome importante era talvolta un peso. «La gente pensava che avessi chissà quale influenza, chissà quali contatti». Non girò mai le spalle all'Italia, ma nel costruire la propria strada «il nipote del George Washington italiano» - così lo chiamavano gli amici scherzando - finì per cercare nuovi orizzonti. Il primo contatto con l'America Latina, nel 1955, era stato del tutto casuale. «Mi trovavo a Harvard. Bisognava mandare un rappresentante ad un congresso studentesco in Cile. Nessuno parlava spagnolo. Io parlavo italiano e così decisero di mandare me... Ero ancora in Cile quando cadde Juan Perón. Mi spo¬ stai a Buenos Aires. Dove si sparse la voce che il presidente Einaudi cioè io - era arrivato in Argentina in incognito». Da allora non ha mai smesso di occuparsi di America Latina. Prima a Harvard, poi alla Rand Corporation, l'influente think tank in California, e infine al Dipartimento di Stato, dove arrivò nel 1974 dopo aver pubblicato Beyond Cuba: Latin America takes charge ofits future, un testo classico che ha portato alcuni a definire Einaudi «il George Kennan dell'America Latina» (Kennan fu l'autore del celebre articolo' apparso su Foreign Affairs nel 1947 con la firma «Mr X» che disegnava la strategia americana del contenimento rimasta in vigore per tutta la Guerra fredda, ndr). Ambasciatore degli Stati Uniti all'Organizzazione degli Stati Americani (1989-93), consigliere speciale del Presidente Clinton per l'America Latina, il mese scorso Einaudi ha ricevuto dal segretario di Stato Madeleine Albright la Robert FrasureAward, una delle più alte onorificenze del Dipartimento, per aver riportato la pace tra Ecuador e Perù «con straordinaria destrezza». Oggi Einaudi sostiene che il suo successo come diplomatico americano è dovuto anche alle sue origini. «Riesco a dialogare con i popoli dell'America Latina con una facilità che un vero wasp non potrà mai avere. I miei interlocutori mi hanno sempre visto come la "faccia buona" della politica americana, non come la "faccia cattiva" del rnilitarismo. Ma parto con un vantaggio rispetto ai miei colleghi: le mie radici italiane». E forse proprio il sentimento di avercela fatta, di aver fatto onore alla memoria del nonno in terra americana, lo spinge oggi a contemplare quelle radici con serenità. «Non mi sento affatto spaesato. Sento invece di appartenere a qualcosa di più grande degli Stati Uniti, che abbraccia l'Europa e l'America Latina. L'Occidente, insomma. E lo dico sapendo benissimo che parlare di cultura occidentale oggi non è politically correct. Abbiamo praticamente ignorato 0 500° anniversario della scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo perché ormai lo consideriamo solo un torturatore di indiani. Ma così facendo finiamo per perdere di vista gli aspetti unificanti della nostra comune cultura». Einaudi ama definirsi «un interprete» delle tre grandi componenti della civiltà occidentale (Europa, Nord America, Sud America). Ed è con questo spirito che prepara le valigie. Ci tiene a chiarire che non viene a Torino per fare tutto da solo: «Non voglio certo impadronirnù della Fondazione». Ma sa che la sua esperienza in questo campo - tutta la vita ha lavorato con centri di ricerca e fondazioni americane - può essere utile. Per arricchire questo fortilizio della cultura occidentale. E completare così l'identità di Luigi Einaudi, americano di Dogliani. Andrea di Robilant Luigi Einaudi, figlio di Mario, primogenito del Presidente della Repubblica. A destra, il nonno con la moglie