Storie di città
Storie di [ittà t mGa Storie di [ittà t mGa [wmmmmmmmmmmmmm t Bruno Gambarotta brucia dell'incenso che impregna del suo profumo la stanza. Se entri trovi due inginocchiatoi da chiesa, nessuno ti obbliga a inginocchiarti ma ti consiglio di farlo se non vuoi che ti prendano per una che non capisce niente di arte moderna. Se lo fai davanti a te puoi contemplare cinque monitor disposti a croce. Su quello in alto è riprodotta una famosa natura morta di Caravaggio e nei due sotto sono ripresi altrettanti tentativi maldestri di rifare il quadro con frutta e foghe vere. I due televisori laterali mostrano una ragazza che mangia la frutta e la riduce a succo in un frullatore. Dalla parte opposta della stanza c'è un sesto televisore che trasmette l'immagine ripresa di schiena del direttore di un'immaginaria orchestra che suona la Messa da Requiem di Mozart diffusa dagli altoparlanti, ma si capisce benissimo che con i suoi gesti abborracciati va dietro alla musica e non la precede. Si vede che affittare un maestro vero costava troppo, l'artista usciva dal budget. Questa forma di arte si chiama «videoinstallazione» e il suo bello è che non capisci quando devi smettere di vederla, cioè non sai quanto tempo devi stare nella stanza buia a inalare incenso perché se ne deduca che tu hai apprezzato a dovere l'opera d'arte. Nella mia personale hit parade, subito dopo la «Transustanzia azione», viene un, come chiamarlo?, un manufatto di Luciano Bertoli con un titolo che già dice tutto: «Il criterio fondamentale - Feed Back». E' composto da due lastre di acciaio alte quasi tre metri e larghe un metro, disposte verticalmente a formare una V maiuscola sopra una piattaforma che ruota lentamente. All'esterno delle lastre sono applicate delle scatole di alluminio con delle incisioni. Ma non basta: un computer dotato di una scheda con la sintesi vocale emette un suono che è una specie di ansito, il respiro di un mostro con il sonno appesantito da una peperonata che non ha digerito; quando ti sei abituata all'ansito, ecco che scoppia un urlo soffocato, ogni volta diverso dal precedente. Quella povera signorina addetta alla sala rischia l'infarto; se sopravvive fino alla chiusura, cosa che non le auguro di cuore, giustizia vorrebbe che al suo stipendio fosse aggiunta un'indennità «Feed Back». Terza nelle mie preferenze viene un'opera di Ernesto Janniri intitolata «Panchina Ca¬ vour»: hai presente la panchina dell'allenatore al bordo dei campi di calcio? Uguale identica, solo che questa qui è lunga cinque metri e ha i sedih in plexiglas illuminati internamente da tubi al neon. Sulla panchina sono posati da una parte un paio dì scarpette con i tacchetti e dall'altra un chepì da soldato del Risorgimento, un ritratto di Cavour e la piantina del quadrilatero di Villafranca con i movimenti delle truppe. Non è un'idea malvagia farfare l'allenatore al conte Cavour, dal momento che il patriottismo ha trovato la sua nicchia di sopravvivenza nella nazionale di calcio. Questi che ho cercato di descriverti sono solo tre pezzi di quello che l'assessore Ugo Perone nella sua presentazione chiama un «variegato puzzle». Il curatore della mostra, Edoardo Di Mauro, scrive nella sua introduzione al catalogo che i suoi avversari potrebbero accusarlo di indulgere a una sorta di «nostalgismo». Ma si può? Il nost.algismo deve essere come il tabagismo e l'etilismo, un brutto vizio tipico di chi ogni mattina deve farsi la sua dose di nostalgia come se fosse un bicchierino di Fernet. Dopo aver visitato la mostra senza farmi distrarre, anche perché quel mattino ero l'unico, mi sento di garantirti che l'egregio Di Mauro non è affetto da nostalgismo. Ti saluta il tuo affezionatissi- mo VENERDÌ'
Luoghi citati: Caravaggio, Villafranca
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