Tina una modella per la rivoluzione di Marco Vozza

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Marco Vozza MANS Blumenberg è morto l'anno scorso ed è forse ancora prematura la valutazione del suo rilevante contributo alla filosofia contemporanea, articolato com'è in una serie di indagini a vasto spettro su alcune di quelle che l'autore chiamava metafore assolute. quegli elementi originari del linguaggio filosofico non convertibili nella logica del concetto. Tale progetto, che valorizza la vichiana logica della fantasia, deve molto alla fenomenologia di Husserl, come risulta particolarmente evidente in quest'ultimo, impegnativo volume: Tempo della vita e tempo del mondo (il Mulino, pp. 432, L. 55.000), introdotto da un brillante saggio di Gianni Carchia che ne sintetizza il significato come «ricaduta della spinta all'idealizzazione nel peso della finitudine». Blumenberg scorge un'inconciliabile rivalità tra le due dimensioni del tempo, la prima circoscritta nell'orizzonte finito dell'esistenza, la seconda determinata da imperturbabili cicli cosmici. Al di là di ogni aspettativa escatologica, la forbice tra il palpitante tempo della vita e l'indifferente tempo del mondo si apre sempre di più. cose, ai mestieri, alle case, al cibo, dall'altra alle idee, alle passioni, alle sensibilità, all'immaginario, al punto da chiedersi se si possa far risuscitare il passato nella sua integralità e nella sua totalità. Questi interrogativi sono il cuore di due affascinanti libri che scandagliano il mestiere dello storico, scritti da due grandi studiosi, l'uno inglese, l'altro francese, che hanno rinnovato la storiografia europea, amati dai lettori sia per la profondità di analisi sia per la forza narrativa: Eric J. Hobsbawm, ottant'anni, interprete di una concezione mar¬ xiana della storia, autore nel 1995 del Secolo breve 19141991, del quale Rizzoli pubblica De Historia, raccolta di saggi che si occupano del rapporto fra il presente e il passato, e Jacques Le Goff, 73 anni, ammirato medievalista, formatosi alla scuola delle Annales, con Bloch, Febvre e Braudel, autore prolifico, di cui Laterza pubblica Una vita per la storia, intervista curata da Marc Heurgon. Anche De Historia, essendo una raccolta di scritti d'occasione, nella maggior parte testi di conferenze, contiene pagine autobiografiche in cui, per esempio, Hobsbawm ricorda quando studiava a Berlino e vide Hitler diventare cancelliere, o rievoca momenti della sua militanza fra i comunisti, ma è centrato sul senso che la storia ha avuto per i suoi maestri e per i suoi colleghi. D'altronde, Una vita per la storia segue passo passo le varie tappe della carriera di Le Goff, dalla giovinezza a Tolone, l'avversione a Pétain, la militanza a sinistra alla condirezione delle Annales, al rapporto con Dumézil, alla biografia di San Luigi uscita nel 1996, ma questo percorso s'intreccia con i movimenti e i conflitti che attraversano la storiografia francese. «Io difendo con forza l'opinione che ciò che gli storici indagano è reale - scrive Hobsbawm -. Il loro punto di partenza, per quanto possa essere lontano da quello di arrivo, è la distinzione fondamentale tra i fatti accertati e la finzione, tra le affermazioni storiche basate su prove soggette a verifica e quelle che tali non sono. In breve, io credo che, senza distinzione fra ciò che è e ciò che Due maestri, vite e metodi a confronto: la Storia è un «sistema» raccontare non basta non è, non può esserci alcuna storia». «Non solo è impossibile per lo storico resuscitare integralmente il passato - osserva Le Goff -, ma non è quello lo scopo al quale egli tende, perché la storia, anche se deve per forza ricorrere alla scrittura, alla narrazione, al ritratto, rimane lo sforzo di arrivare a una spiegazione. Immergersi nel passato nei termini in cui è insito nell'idea di una resurrezione integrale non è solo un'impresa vana e illusoria, ma anche antiscientifica». Ecco definiti lo scopo e il li- Jacques Le Goff, 73 anni, allievo di Bloch, Febvre e Braudel alla scuola delle Annales racconta «Una vita per la storia», edito da Laterza mite del mestiere dello storico così come vengono a galla nei due libri. Naturalmente Hobsbawm e Le Goff rappresentano tradizioni storiografiche del tutto diverse, benché il primo sottolinei le relazioni fra i marxisti e le Annales: «Quando fondammo Past and Present sentimmo il bisogno di rifarci alle Annales». E' straordinario rilevare, nella lettura comparata dei due libri, come questi due uomini, tanto diversi anche fisicamente - alto, magro, ieratico Hobsbawm, robusto, ingombrante, magnetico Le Goff - abbiano in comune un punto fondamentale: la nozione di sistema, come forma che assume la storia, soprattutto quando fuoriesce dai suoi confini tradizionali. Il problema dello storico, scrive Hobsbawm, è «trovare una connessione logica fra le varie forme di comportamento, di pensiero e di sentimenti, vederli come qualcosa di mutualmente coerente». Per esempio è capire perché la gente «creda che certi famosi briganti siano invisibili e invulnerabili, anche se ovviamente non lo sono». La stessa cosa scrive Le Goff: «Dobbiamo cercare di ritrovare il sapore del passato, la vita, i sentimenti, la mentalità degli individui, ma all'interno dei sistemi di esposizione e di spiegazione propri degli storici di oggi. L'evocazione deve servire a far capire». Alberto Papuzzi CABRERÀ INFANTE : E' CUBA LA MIA MASSIMA COLPA MEA CUBA Guillermo Cabrerà Infante // Saggiatore pp. 466 L 39.000 MEA CUBA Guillermo Cabrerà Infante // Saggiatore pp. 466 L 39.000 HIS is the saddest story», «Questa è la storia più triste», la famosa frase del romanziere inglese Ford Maddox Ford, in apertura al suo capolavoro The Good Soldier, è l'unica che ci venga in mente a proposito di Mea Cuba, sintesi di ricordi, polemiche e dolore dello scrittore cubano Guillermo Cabrerà Infante. Mea Cuba, scrito nel 1992 e ora pubblicato in italiano (traduzione di Glauco Febei) è davvero storia vissuta su pelle e con rabbia irrefrenabile: «Non credo di fare una rivelazione inattesa se dico che il titolo viene da Cuba e da Mea culpa - scrive Cabrerà Infante -. Cuba è, naturalmente, mea maxima culpa. Ma quale colpa?... Mea Cuba può voler dire "La mia Cuba", ma suggerisce anche la colpa di Cuba... La colpa è grande e sottile: aver lasciato la mia terra per essere un senza terra e, allo stesso tempo, aver lasciato dietro di me quelli che stavano sulla stessa nave, che io ho aiutato a gettare nel mare senza sapere che significava nel male». b f i l gCabrerà Infante, e sta qui la chiave del titolo e del libro, è stato infatti comunista convinto, figlio di genitori che si annoveravano tra i fondatori del partito comunista cubano. Nato nel 1929, ha compiuto i primi passi della sua carriera sotto l'egida del regime castrista, entrato nel 1950 nella scuola nazionale di giornalismo, e divenuto poi direttore del settimanale di cultura Lunes de Revolution nel 1959. E' del 1961 la prima delusione quando Lunes viene chiuso per ordine del governo in seguito alla polemica suscitata da un cortometraggio di cui è autore il fratello. Ma la vera rottura ha luogo nel 1965, quando tornato in patria dal Belgio, dove ricopriva la carica di attaché culturale, per assistere ai funerali della madre, lo scrittore si accorge, di colpo, che Cuba non è più Cuba: «A Cuba, la luna brillava come prima della Rivoluzione, il sole era lo stesso, la Natura dava a ogni cosa la propria vertiginosa bellezza. La geografia era la stessa, era viva, ma la Storia era morta». I saggi e una o due interviste raccolti in Mea Cuba vanno più o meno dal 1968 ai primi Anni Novanta e rappresentano quasi venticinque anni di esilio (prima in Spagna, poi in Inghilterra), punteggiati, però, da un'incessante attività letteraria e da notevoli riconoscimenti inter- Ricordi, polemiche e More dello scrittore già vicino a Castro: «Poi un giorno capii che la Storia era morta» nazionali; fra l'altro, nel 1995, Cabrerà Infante ha ricevuto, a Roma, il Premio dell'Istituto italo latinoamericano per il suo romanzo L'Avana per un infante defunto (anch'esso tradotto per i tipi del Saggiatore). In un certo senso, però, questi pezzi sembrano scritti tutti al presente, quasi che il tempo non sia passato e i personaggi rappresentati, Castro, i suoi seguaci, gli amici e i nemici, continuino tutti la loro triste performance di carnefici e vittime sul palcoscenico di un'isola bellissima, martoriata, lordata, e, come dice lui, cariata e distrutta. E passano perciò davanti agli occhi del lettore come una pellicola sempre uguale, che ricomincia sempre da capo e si arresta in alcuni punti ormai rovinati dall'uso. Così a parte qualche grande saggio solare e fondamentale su Jose Marti e Garda Lorca a Cuba o sulla stessa entità dell'A¬ merica Latina, il libro è una lunga requisitoria, zeppa di nomi e circostanze più familiari all'autore che al pubblico, sulla vita degli intellettuali morti e vivi, esuli e non esuli, di coloro che hanno cavalcato la Rivoluzione e di quelli che la Rivoluzione ha ucciso o spinto al suicidio. Lasciate da parte le rivelazioni, più o meno importanti, su personaggi notissimi quali Lezama Lima e Alejo Carpentier, nella polemica e anche nei pettegolezzi vengono travolti scrittori come Virgilio Pinera e Calvert Casey, ambedue omosessuali, che di Cabrerà Infante erano grandi amici. Curioso, infatti, come, proprio per difendere la libertà di essere diversi, quella libertà che il regime castrista non ha mai tollerato, Cabrerà Infante finisca per dare di questi amici omosessuali ritratti ridicoli e privi di pietà umana. Particolarmente penoso il caso di Calvert Casey, scrittore sensibile e squisito, che si suicidò, per nostalgia di Cuba, a Roma, nel 1972. Di tutto il soggiorno in Italia, dove Casey era stato tradotto e anche amato, e contava molti amici, in Mea Cuba rimane soltanto il ricordo di un indegno «amante a noleggio». d ò h ri gNon è detto, però, che ricordare impietosamente non sia soprattutto un metodo per sopravvivere. E poi, per fortuna, il brio e la cultura di Cabrerà Infante trovano spesso altre strade. Basta leggere un benissimo pezzo scritto di recente sul bolero: «Il bolero, questa canzone con ritmo, nacque, nel secolo passato, a Cuba, dalla contraddanza, gustosa figlia meticcia di inglesi e francesi, educata da servi negri ad Haiti quando era Santo Domingo e trasformata nella nostra grande madre ritmica a Santiago de Cuba, da dove viaggiò fino all'Avana per trasfermarsi, si capisce, in habanera.,.*. Angela Bianchini La vita di Tina Modotti, fotografa, modella e rivoluzionaria nel Messico di Siqueiros è raccontata dalla scrittrice Elena Poniatowska in «Tinissima», edito da Frassinelli Tina, una modella per la rivoluzione OSI' scriveva un tale Perez cronista del quotidiano l'Universal di Città del Messico, nel gennaio 1929, a proposito della donna accusata di aver assassinato lo studente comunista Julio Antonio Mella: «Indossava una gonna nera corta, un maglione grigio con una cintura nera, calze color fumo e un cappellino di velluto nero or¬ d ilii ppnato di due ciliegie d'argento». E' Tinissima Assunta Adelaide Luigia Modotti, nata nella Udine povera del 1896 e trascinata dall'ondata migratoria di quegli anni. Seguendo molti artisti ed intellettuali nordamericani che emigravano in Messico, la Modotti arriva nel Messico postrivoluzionario con Edward Weston. Accusata dell'omicidio dell'amante, l'esiliato cubano Mella, viene espulsa e comincia un drammatico pellegrinaggio dalla Germania di Hitler alla Unione Sovietica di Stalin alla Spagna della guerra civile, come figura di spicco del Soccorso Rosso Internazionale. Rientra in Messico e muore di un attacco cardiaco, nella solitudine di un sedile posteriore di un taxi nel gennaio 1942. Elena Poniatowska, in una biografia dal taglio giornali stico-narrativo (Tinissima, Frassinelli, pp. 415, L. 29.000) ancora una volta ha fatto rivivere un personaggio femminile (pare che del libro si voglia fare un film con Madonna protagonista). Poniatowska vive a Città del Messico, a Coyoacan. E' considerata la più grande scrittrice messicana, non ha mai trascurato il giornalismo, ha tre figli, di cui il più grande è nato a Roma, ricorda che nella nostra Firenze della famiglia Poniatowska vi sono molti ritratti. Figlia minore di due esiliati del gran mondo, il principe Jean E. Poniatowska erede della corona della Polonia, e Dolores Amor, rampolla di una delle grandi famiglie messicane è nata a Parigi nel 1933. Per sfuggire agli orrori della guerra, nel 1941 la famiglia si rifugia in Messico. Le origini aristocratiche non le hanno impedito di porsi dalla parte degli oppressi. Qual è la novità del suo libro? «La visione più intima di una donna, la vera Tina. Perché si tratta della vita interiore di Tina Modotti che io deduco dai fatti stessi della sua esistenza che sono già un romanzo». Che cosa l'ha attirata di più in Tina Modotti? «La sua integrità, il suo coraggio. Oggi non ci sono donne che vivono per un ideale, vivono sempre per un ansia individualista. Questa donna si offre totalmente ad una causa. Ciò la rende interessante. Le circostanze in cui la Modotti si è trovata sono eccezionali. Nella vita non tutti possono avere l'opportunità di trovarsi in una guerra come quella di Spagna e vivere in un Paese immediatamente dopo la rivoluzione, come lei fece in Messico e nel contempo essere modella di grandi pittori come Diego Rivera e anche di uno dei più grandi fotografi nordamericani, Weston. E poi era di umili origini, semplice, una contadina di Udine molto povera, il padre dovette andare in Austria per mantenere la famiglia. Una muchacha cresciuta a polenta che d'improvviso si trasforma in una diva di Hollywood». Come definirebbe oggi Tina? «Come una eroina del XX secolo, una donna che partecipa in tutto e per tutto a ciò che la circonda. Non è affatto una santa. E' un mito europeo. Non è una Madre Teresa di Calcutta. Non è religiosa, non è cattolica, non crede nei valori della buona società. E' sempre motivo di scandalo». Sulla sua morte alcuni hanno parlato di mistero... «E' morta d'infarto. Aveva problemi cardiaci, anche le sue sorelle ne avevano. Una notte, dopo una cena con Pablo Neruda e altri amici, si precipita a prendere un taxi, perché si sente male e non vuole dimostrarlo. Non riesce a raggiungere la misera casa che divide con Vidali. Il tassista, quando la scopre morta, se la dà a gambe. Il finale del libro me lo ha suggerito Vittorio Vidali: Tina aveva perduto la voglia di vivere». Elisabetta Pintor