QUELL'ORLO NERO STRINGE ROSETTA LOY di Sergio Pent

..5 ..5 SAGGISTICA TASCABILI VARIA E RAGAZZI 1 IL Faraone parte seconda (dalle 5 an- ©DECRESCENZO 25.000 Mondadori ©SCHOPENHAUER 10.000 Adelphi ©GRISHAM 6900 Mondadori ©SEPULVEDA 16.000 Salani Jie^^^'SjiS^^^i Nessuno 17 [3] L'arte di essere felici 7 [1] Lagiuria 8 [5] Storia di una gabbianella... 8 [36] punte^ di tutti altri titoli che, pur non ©BIAGI 28.000WZZOI ©BOBBIO 28.000 Baldini & Castddi ©LEVI 15.000 Einaudi ©DISNEY 6900 Mondadori ^AIS^JT" aogni perduti IS [4J Dal fascismo alia democrazia 6 [3] Se questo e un uomo - La tregua 7 [19] Topolino e Papenno 7 [8] Rjcordiamo die la dassifica e realizzata ©BOBBIO 24.000 Laterza ©GALEANO 24.000 Sperling& Kupfer ©FOLSON 6500 Superpocket ©TARENTINITROIANI 1000 Newton Compton J^l^^^SoESjSteTri Autobiografia IS [3] Le vene aperte deH'America Latina 6 [3] II giorno dopodomani 7 [6] Torte 7 [6] tazione in uncampionedi 120. Siassegna- ©ALBERONI 25.000Rizzoli ©SACKS , 34.000 Adelphi ©MARAIN. 6500 Superpocket © FORATTINI 18.000 Mondadori ^J^^*^^ llprimoamore 12 [1] L isola dei senza colore S [6] Baghena 7 [1] loeilbruco 5 [8] porzione. La cifra a destra fra parentesi ©DE FELICE 100.000 Einaudi ©GULEMAN 26.000 Rizzoli ©LEVI 10.000 Einaudi QVARI 49.000 Electa qu^reindlcadaquantesettmaneuntitoWMussolini ralleato 8 [1] WUforzadellameditazione 4 [2] ^Latregua 7 [17] W La pitturaitaliana 5 [6] SJjSSS^rt^ QUELL'ORLO NERO STRINGE ROSETTA LOY «La parola ebreo», il rovello di una, memoria LA PAROLA EBREO Rosetta Loy Einaudi pp. 158 L 16.000 LA PAROLA EBREO Rosetta Loy Einaudi pp. 158 L 16.000 RUCIA dirlo ma un orlo nero segna i nostri giorni incolpevoli, senza memoria e senza storia». A quasi sessantanni di distanza dalle leggi antisemite del regime fascista e dagli eventi che colpirono drammaticamente anche gli ebrei italiani, e in particolare quelli di Roma, Rosetta Loy, allora bambina di una famiglia della borghesia cattolica romana, ripercorre quegli eventi con l'amara consapevolezza di chi queir «orlo nero» l'ha percorso, riconoscendolo solo a posteriori, e con la lucida volontà di tener desta la memoria e di far tesoro della storia. Ne nasce, come la chiama l'autrice stessa, una «memoria autobiografica» in cui costantemente si intrecciano ricordi personali e documenti storici, vicende quotidiane ed eventi di portata mondiale, squarci di vita familiare e frammenti, accuratamente documentati, di destini universali. In una prosa sobria, in una narrazione sostenuta e pacata si intersecano e si contrappongono scene che toccano ancora oggi il cuore di chi è disposto ad aver occhi per l'altro, per le sue sofferenze, per il lento, inavvertito precipitare in un pozzo di tragedia della quotidianità di una vita di affetti e di legami. «Cosa si aspettavano da noi i Della Seta? L'ingegnere Levi e quel ragazzo che amava suonare Chopin? Non avevano capito che l'inconcepibile poteva diventare realtà perché riguardava, oscuramente, fatalmente, solo loro. I colpevoli senza colpa». A volte il contrasto risulta insopportabile - come insopportabili sono gli eventi che lo provocano —dal-semplice accostamento in una stessa pagina di eventi «pubblici» e vicende private. Così, nel breve volgere di poche righe, leggiamo che mentre i gerarchi nazisti in Olanda «si sentono obbligati a considerare gli ebrei cattolici come i loro peggiori nemici, e si devono preoccupare di trasferirli subito all'Est», Rosetta annota «dopo le fatiche del trasloco, come tutti gli anni, siamo andati in villeggiatura». Oppure il nostro cuore è oppresso dall'angoscia nel sentire che nessuno ha saputo opporsi al rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma e così «i vagoni sono stati piombati e quel treno è partito senza incidenti... Pio XII è rimasto chiuso dietro le finestre della sua stanza dove si alzavano in brevi voli i canarini Hansel e Gretschen»! La sapienza e l'arte narrativa dell'autrice, ma direi ancor più il suo spessore di umanità, ci descrivono senza pudori il percorso della «parola» ebreo nella vita di una A quasi sessantanni dalle leggi antisemite l'imperatwo di far tesoro della Storia fanciulla cattolica. L'intero libro, costruito attorno a questa «parola», appare davvero intessuto di una tragica trama di parole e silenzi. E così, mentre da un lato le audaci parole di Pio XI vengono smorzate, soffocate da un ambiente curiale più reticente che evangelico, mentre le parole scrit te di una dura enciclica contro il nazismo restano «lettera morta» per l'improvvisa scomparsa del pontefice, Rosetta Loy ci parteci pa il suo sdegno per un silenzio pesante come un macigno, quello di chi poteva e doveva gridare e non l'ha fatto. E non credo sia un caso se le immagini che più sono restate impresse nel cuore e nella mente della Loy, quelle che con più efficacia ci sa trasmettere, sono dominate da un'afasia, da un'assenza di parole, da un'incapacità di dar suono composto a un sentimento lacerante. E' il padre di famiglia che ignora deliberatamente la moglie che lo attende festosa alla stazione con accanto il figlio fiero della sua nuova divisa da balilla. E' la silenziosa, nobile figura della vicina ebrea che si staglia con umile solennità: «In quell'afa e in quella polvere la signora Della Seta in piedi regge un piatto di metallo su cui è adagiata una spigola lessa. Per noi ragazzi in questa giornata di confusione. Un pesce che non si sa con quanta fatica lei è riuscita a procurarsi e noi mangeremo nella nuova casa». E' ancora il silenzio sgomento del tassista che ha preso a bordo una donna ebrea con i suoi tre figli la sera del rastrellamento: «Quando il tassista si voltò a chiederle dove doveva portarla "Che ne so - rispose - So' giudìa e i tedeschi ce stanno a venni a prenne". Il tassinarp impallidì: "Madonna Santa, mò che ce faccio con questi?... Ma dopo un attimo di sgomento durante il quale rimasero a fissarsi uno più spaventato dell'altra, l'uomo rimise in moto e li portò tutti e quattro a casa sua dove c'erano la moglie e due bambini. E là sono rimasti anche loro per otto mesi, uno sull'altro in due stanze, nutriti con quel poco che la moglie di Ermete, il tassista, riusciva a rimediare». Non so se Ermete ha avuto il suo albero nel giardino dei «giusti dei gojin (delle genti)» in Israele, in segno di grato memoriale per il suo gesto, so che anche per lui come per tanti altri semplici uomini e donne fedeli alla loro umanità - è vero uno stupendo versetto del Corano, ripreso anche dalla tradizione monastica: «chi salverà anche un solo uomo sarà considerato come uno che avrà salvato la vita a tutta l'umanità». Enzo Bianchi Torino, palcoscenico di Rossana Ombres LE AMICHE FAN FAVILLE IPITAN COOK ! DIO HAWAIANO vissuto rancore contro l'imperialismo dell'Uomo Bianco. In verità non è solo Obeyesekere - autore nel 1992 di un libro di larga risonanza, The Apotheosis of Captain Coók, a denunciare i modelli speculativi degù" antropologi extraterritoriali e a indignarsi all'idea che gli hawaiani sarebbero stati così beoti da scorgere nel capitano britannico il dio Lono. Troppo «realistici» ed empirici i polinesiani per concedersi simili fantasticherie! E lui, Obeyesekere, proprio perché appartiene all'universo delle culture subalterne, proprio perché ha patito le umiliazioni dei «senza voce», si ritiene abilitato a demolire le griglie concettuali dei «colonizzatori» di ogni tempo. Critiche analoghe a quelle di Obeyesekere muovono alcuni studiosi danesi, citati dallo stesso Sahlins, i quali rileggono le sequenze dello sbarco dei marinai britannici nei giorni del Makahiki (e cioè dei festeggiamenti in onore di Lono che coincidevano con l'Anno Nuovo), dell'equivoca trasmutazione dello straniero, dovuta a pregiudizi etnocentrici, a sospette testimonianze, a framtendimenti di linguaggio, e parlano di una favola di ispirazione europea diffusa dai missionari cristiani (gli haole). Ma L'antropologo Martin Sahlins in polemica col cingalese Obeyesekere sull'indebito ingresso del Navigatore Bianco nel pantheon polinesiano Obeyesekere non si contenta di mettere il dito sulla distorsione del racconto; chiama in causa le responsabilità intellettuali e morali dell'intero Occidente, il credo utilitaristico e capitalistico con il quale l'Uomo Bianco corrompe nature e culture altre, nonché il retorico impiego di mytos e logos. La risposta di Sahlins, professore emerito all'Università di Chicago, potrebbe essere tranquillamente inclusa in un'antologia di alta dialettica moderna e postmoderna. Distaccato, quasi didascalico nel tono, e micidiale nella sostanza, Capitan Coók, per esempio mette alle corde l'avversario sul terréno a lui più caro, ovvero la pretesa di capire meglio dell'Uomo Bianco consuetudini e misteri della regione di appartenenza, in nome di un'autarchica conterraneità (e posto che essere nativi dello Sri Lanka, ossia Capitan Cook è il protagonista del saggio antropologico di Martin Sahlins edito da Donzellii lontani molto più dalla Polinesia che dagli aborriti scenari europei, assicuri un diritto di prelazione). E giù, colpo su colpo, lo sbriciolamento della «razionalità alternativa» avanzata da Obeyesekere, le sue incongruenze di metodo, l'uso antistorico delle fonti, il problema linguistico - argomento principe del cingalese - che si rovescia a suo danno («sebbene Obeyesekere si ponga dei dubbi circa la competenza linguistica dei compilatori dei diari di bordo, in altre circostanze dà per scontato che essi comprendessero esattamente che cosa gli hawaiani stavano facendo o dicendo...»), e poi il disprezzo di quelle scienze umane e sociali di cui il contestatore è perlomeno figlio adottivo. Sicché la tragica vicenda di Capitan Cook (con i discussi attributi di dio involontario, le processioni del Trieste, inferno di Mauro Covacich UOmbres di «Baiadera » IN AUTOBUS AGLI INFERI La Trieste di Covacich BAIADERA Rossana Ombres Mondadori pp. 272 L. 28.000 Makahiki, i furti commessi dagli indigeni, il comportamento irriguardoso degli stranieri che abbattono la palizzata del tempio per procacciarsi legna da ardere, le cerimonie cultuali, gli erotici canti hula, le danze, gli amori travolgenti con i marinai della Resolution e della Discovery) finisce per diventare exemplumfìctum di un più vasto dibattito. «In questo momento di transizione - avverte Sahlins - la nozione medesima di cultura è a rischio: condannata per la sua eccessiva coerenza e sistematicità, per i suoi confini delimitati o per il suo carattere totalizzante...». Tuttavia, nel duro confronto col cingalese, che vede quest'ultimo oggettivamente sconfitto sul piano scientifico, qualcosa impedisce al lettore nostrano di far sue fino in fondo le ragioni di un successo dottrinario. Le tesi di Obeyesekere su Capitan Cook, ancorché passionali e contraddittorie, hanno il merito di segnalare un passaggio strettissimo nei processi geopolitici e geoculturali contemporanei: l'illusoria interazione di conoscenze, di popoli e civiltà, in tempi brevi e all'insegna del «basta volerlo». Giuseppe Cassieri BAIADERA Rossana Ombres Mondadori pp. 272 L. 28.000 r\ I UAL è il punto in cui la trasgressione, la più I fi generosa e vitale, si ritorce contro se stessa e 1 | prende i tratti funesti dell'autodistruzione? 1 I Quale cedimento improvviso del corpo o delY I l'anima trasforma in perdita quella che apV pariva una ardimentosa vittoria? Mentre chi guarda sente la primitiva ammirazione slabbrarsi in pietà? Sono gli interrogativi che ci propone Baiadera, questo romanzo di Rossana Ombres. E' il racconto di una amicizia tra Angela e Maia, due valve di una conchiglia che, fortemente unite, non riescono a chiudersi insieme, sembrano destinate a divaricarsi. Angela è affascinata dalla compagna di scuola, dal suo coraggio che si esibisce in sregolatezze e stravaganze. Maia ha dovuto superare le ristrettezze e i pregiudizi dei suoi, meridionali immigrati a Torino (siamo negli Anni Cinquanta), bidelli al ginnasio-liceo Porta Palatina, per continuare gli studi fino all'università e intraprendere una promettente carriera di avvocato. Si è scontrata anche ai suoi primi passi con un mondo borghese gretto e volgare. Ma esce spossata dalla lotta, incapace di cogliere i frutti della sua caparbietà. Comincia per tempo a bere, diventa una alcolizzata e muore sola, forse suicida, forse vittima di balordi che ha assistito professionalmente e che si è illusa di riscattare. Angela, che ha inclinazioni artistiche ma finisce per dirigere una agenzia di viaggi a Roma, non la perde di vista, ubbidendo all'antica fascinazione che si tramuta via via in affettuosa sollecitudine. Lei così timida e riservata, inadatta a forzare la sorte, si tratti di arte o di amore. Mi sembra significativo, a caratterizzarle ulteriormente, il linguaggio a cui indulgono: Maia si è inventato un gergo bislacco e gaglioffo, fatto per stupire e scandalizzare, mentre Angela è rimasta fedele al dialetto piemontese della sua infanzia, come se fosse un alvo protettivo e materno (ci ragiona, nell'appendice con glossario, la stessa Ombres, consapevole che «non esistono nascondigli sicuri al di fuori della memoria», in cui anche la lingua sa mandare faville). La storia di Maia, dove il gusto della beffa e della millanteria contendono fino all'ultimo con l'avvilimento e la disperazione, è scandita e propiziata da alcune morti «innocenti» (due ragazze inermi, un cagnette) e sembra risentire l'influenza maligna della scuola in cui la ragazza è cresciuta: un edificio nato da secoli di stratificazioni e usi diversi. «Nero» come un castellacelo di Walpole, esala un sentore di muffe e di vite soffocate. Le due adolescenti hanno visitato più volte, di notte, le aule deserte, gli angoli nascosti, con incantato tremore (e questo gran corpo contraffatto e scempio, deputato alla luce della conoscenza, è la vera invenzione del romanzo). Adesso, ripensando a Maia, al vestito che amava (un capo a vivide strisce orizzontali chiamato baiadera) Angela vede con immaginoso trasporto nelle sue cupe libagioni un atteggiamento sacrificale, una nichilistica offerta agli inferi. Romanzo di sortilegi, di magherie, che Rossana Ombres appoggia alla sua cultura telmudica e diventano qualche volta un poco invadenti. Ma romanzo anche di solido e incorrotto recupero memoriale. Aldilà del fosco, risentito ritratto di Maia, si fa apprezzare per i saporosi imprestiti dialettali e, più in generale, per certa scrittura spavalda. Una Lingua che fa tutt'uno con la riscoperta di Torino da parte della transfuga (ma prima ancora urgono nel ricordo la natia Casale e il Monferrato). Piazza San Carlo catturata e quasi eternizzata da una bolla di ambra giallina. L'esercito di «portici combattenti» che riparano dalla calura. I cavalieri dei monumenti che conducono nella nebbia «una battaglia insensata senza nemico». L'olezzo «ecclesiale», «triste e appassito», del Po a primavera. Sono definizioni che si inscrivono con finezza nel mito di una città razionale e visionaria, che arricchiscono la straordinaria presenza di Torino nella narrativa del Novecento. Una città dalla doppia anima, doppia come le donne del romanzo, come quella che le racconta. Lorenzo Mondo MAL D'AUTOBUS Mauro Covacich Marco Tropea Editore pp. 181 L. 25.000 MAL D'AUTOBUS Mauro Covacich Marco Tropea Editore pp. 181 L. 25.000 s\ IUANTO appare scostante, estranea, gelidaI ! mente metaforica pur nei contorni afosi dell'e| I state, la Trieste percorsa e subita da Andrea Pa■ I hor nell'incubo edipico-sentimentale cesellatoY ' gli attorno dal perfido Covacich. La nostra meV moria riposava beata sui profili marini di Saba, seguiva le scie degli incrociatori di Quarantotti Gambini, s'intristiva sulle amicizie e gli amori perduti di Tomizza... Città di frontiera, centro vitale di solide tempre creative, Trieste è sempre stato un piccolo mito, la nicchia in cui riposano e si rinnovano, con l'eleganza della terra di confine intrisa di Storia, molti nostri sogni letterari. E' comunque Trieste il fondale scenico del romanzo di Covacich, vera e propria discesa agli inferi dell'animo umano, sospeso tra delirio e realtà, tra fughe di fantasia e atroci risvegli nel dolore e nella perdita di identità. Andrea Pahor consuma la sua breve odissea tra l'ufficio di consulenze aziendali e l'ospedale in cui il padre Furio sta lottando con gli assalti finali di un male devastante. L'ex compagna di Andrea - la biologa Elena Benco - assiste l'infermo come se fosse l'ultimo dei suoi doveri, quasi che un vincolo sovrumano la tenga legata a quell'involucro prossimo alla fine. Intanto Andrea, in lotta con se stesso e in conflitto con la figura paterna che 10 ha sempre dominato, riceve oscuri messaggi - inviati dalla stessa Elena - in cui vengono descritte, con oscena precisione, vivisezioni di animali in laboratorio a scopo scientifico. Anche per il lettore è un susseguirsi di immagini deliranti, assurde, a tratti esasperanti. L'accumulo di tensione, la crudeltà di questi segnali spediti dalla donna, portano Andrea a percorrere la città senza riferimenti, in cerca di spiegazioni che anche l'autore rifiuta di fornire. Tra profughi slavi e periferie anonime, scaglie di mare tra i palazzi e incontri onirici, all'alba, dopo una notte trascorsa nel letto lercio di una cartomante puttana, Andrea ritorna a casa e in ufficio, verso il suo destino. La discesa in città tra le ombre dei modesti lavoranti che popolano l'autobus della prima corsa, è un lucido delirio dei sensi in cui Covacich lascia emergere le più oscure fobìe dell'animo umano, tra mutazioni mostruose, desideri sotterranei e soffocanti allucinazioni. La morte di un suo dipendente - Ianesich, licenziatosi 11 giorno prima - precede di poche ore quella del padre e, subito dopo, il suicidio di Elena completa la triade degli orrori in cui Andrea si ritrova a invocare una via d'uscita. Qui, però, Covacich mischia le carte, confonde le idee al personaggio e al lettore, imbroglia la matassa degli avvenimenti al punto da non sapere più se di incubi si tratta, o se la follia abbia fatto dare l'addio a quel lembo di realtà a cui tutti quanti - anche noi lettori - ci eravamo finora aggrappati. Andrea deve scontare delle colpe - il rapporto conflittuale col padre che ha sostituito in ufficio, l'addio a Elena, lo sfruttamento della disoccupazione - e il distacco dalla spina della realtà sembra essere il suo vero castigo. E' infatti bruciata davvero nel rogo della sua casa Elena Benco, o non si sarà tramutata nella vedova Elena Ianesich che corre a cercare vendetta in ufficio per la morte del marito? E il taccuino rosso sottratto dal comodino del padre morto, non potrebbe essere la trama intessuta dal defunto per portare con sé la vitalità esuberante del figlio? O non sarà piuttosto tutto un sogno delittuoso, percorso da Furio e da Elena, per vendicarsi di Andrea e condurlo là dove la ragione cessa di esistere e regna il caos della pazzia? Fa star male, questa serie di interrogativi che concludono a porta aperta il romanzo. Non c'è nulla di certo, se non che abbiamo attraversato tutte le stanze degli incubi di Andrea per poi abbandonarlo nel vuoto di un destino malato, delirante. E proprio qui, in questa claustrofobica incognita, viene spontaneo cercar rifugio nella luce di una Trieste memoriale, perché da questo vaneggiamento cattivo, ancorché assai intrigante, voghamo uscire in fretta. Si sente, forte, il bisogno di un soffio di brezza marina e di respiri aperti, dopo la discesa negli umori più insopportabili della malattia, nell'oscenità incontrollabile che può essere, talvolta, l'addio alla vita. Da ricordare, ma da non rileggere se si è depressi. Sergio Pent