IL CLASSICO

IL CLASSICO IL CLASSICO di Alessandro Fo UNO «straniero», un fenicio, spinto da un sogno ha intrapreso un viaggio che l'ha condotto sulla piccola penisola che sta di fronte alle coste della Troade. Incontra qui uno strano vignaiolo, che una sorta di conversione sui generis ha sottratto agli affari di un tempo e consacrato al culto della memoria dei grandi eroi periti una volta nella guerra di Troia: uno in particolare, il primo caduto fra i Greci, Protesilao. «Non credo ai miti» asserisce scettico il fenicio. «Ascolta, allora» gli risponde il vignaiolo. E gli spiega come talvolta ancora la piana sia di notte percorsa dagli spettri di quei guerrieri giganteschi. E gli racconta come Protesilao «viva» davvero, nuovamente, al suo fianco, venga talvolta a consigliarlo, s'intrattenga con lui, gli illustri come andarono veramente le cose a quel tempo. E anche in seguito: dopo la morte, ad esempio, Achille vive felice con Elena e passa il tempo a cantare brani di Omero, anche per compensarlo della gloria che ne ha ricevuto. Questi, e molti altri spunti di poesia delle antiche cose, reperirà il lettore curioso nel dialogo Eroico, attribuito al «secondo» dei Filostrati, un esponente della Seconda Sofistica vissuto fra II e III secolo d. C., egregiamente curato con testo a fronte e note da Valeria Rossi, prefazione di Marcello Massenzio, edito da Marsilio (pp. 244, L. 25.000). anni, medico e analista, vive da vent'anni un solido rapporto coniugale che si è sublimato in tenerezza, solidarietà, complicità, ma è minacciato dalla noia che nasce proprio dalla disponibilità totale, dalla dedizione materna della moglie Silvia, che figli non ha avuto. Professionista appagato e senza più traguardi da inseguire, l'uomo vive in un tedio leopardiano che lo spinge sempre verso un altrove che naturalmente non lo accontenta. Non lo guarisce nemmeno l'eros, mai così intensamente sperimentato, che scopre in una ragazza di campagna che potrebbe essere sua figlia, ed è semplice, sana e prevedibile come una mela. Tuttavia il dialogo con la moglie non si interrompe, diventa semmai più necessario. I due coniugi si inseguono, si trovano e si amano in campo neutro, da Venezia a Capri, come se soltanto la lontananza e il reciproco ferirsi sapessero accendere il furore agonistico del sesso. Poi la tensione cala, l'uomo torna ad annoiarsi, riprende la sua routine di pendolare che non sa stare da nessuna parte. Ma ecco riaffiorare un giorno in Filippo l'emozione dimenticata del sapore del sangue. E' la scoperta, improvvisa e perturbante, che la sua bella e colta moglie borghese frequenta un ragazzo di venticinque anni che più lontano non potrebbe esserle: un pariolino travestito da borgataro, con l'eterno giubbotto di cuoio anche quando fa l'amore, un fascistello con la mania delle palestre, violento, ignorante, prepotente (ma in fondo inconsistente, confuso). E' insomma il pendant odioso della ragazza di campagna, e si può capire che Silvia lo frequenti come per un'ulti¬ ma, pur consapevole, illusione di gioventù. Quella che Filippo prova non è tanto la gelosia (da che pulpito, infatti) quanto la curiosità, «anch'essa passione terribile, ma di pochi e molto moderna». L'uomo vuol sapere, interroga cautamente o goffamente, intuisce dove non sa, «vede» con allucinata esattezza, cerca di vincere la reticenza della moglie. Il suo è orgoglio ferito, disappunto per l'imprevisto che viene a scombinare la sua irrequieta bigamia, ma anche l'intuizione che la mo¬ glie-sorella, la sentimentale che non aveva mai dato troppa importanza al sesso, sta sprofondando in un'esperienza estrema, affascinata da quel fallo eretto del ragazzo che sembra un cobra pronto a colpire. H coraggio di mettersi in gioco, di conoscersi fino in fondo attraverso le potenzialità anche distruttive dell'eros, è tutto di Silvia, la sacerdotessa della dedizione. La vera protagonista è lei, che promuove a sorpresa una inversione di ruoli: la donna ha il coraggio maschile di sfidare la morte, l'uomo ha la rassegnazione femminile di accettare la vita come una resa. Parise scrisse dunque di furia il romanzo per necessità auto-analitica, poi lo sigillò in un cassetto e lo rilesse due mesi prima di morire, senza modificarlo. Cosa ne avrebbe fatto non possiamo sapere, ma è stato giusto renderlo pubblico così com'è, nelle sue ripetizioni, nell'ossessivo ritorno musicale dei suoi temi. Giacomo Magrini lo ha editato con scrupolo, ma senza schiacciare il lettore sotto la filologia; e Cesare Garboli lo introduce da quel sontuoso saggista che è. Un romanzo-ossimoro: pacato e impetuoso, sentenzioso e carnale, maschilista e fallocentrico e tuttavia capace di far sue le più sottili ragioni del femminile. Un romanzo che lotta con l'inadeguatezza di ogni scrittura a cogliere il mistero degli istinti che decidono le esistenze, ma intanto si abbandona alle dolcezze del piacere di raccontare. Le sue pagine felici hanno la rapidità, la leggerezza, la perentorietà struggente dei Sillabari, il capolavoro di Parise. Sullo sfondo, due grandi modelli: l'estro narrativo del trattatello di Stendhal sull'amore; e la capacità di analisi di un classico del disamore, l'Adolphe di Benjamin Constant. Tra l'urgenza del dire e la calma disperata dei vinti, Parise si avventura in quello spazio speciale, l'epsilon del linguaggio matematico, in cui la ragione si arresta impotente, e comincia il destino. Perché si convince che solo il destino conta. Perché tutto diventa chiaro e dicibile, quando non serve più. Ernesto Ferrerò GIOSETTA FIORONI

Persone citate: Alessandro Fo, Benjamin Constant, Cesare Garboli, Ernesto Ferrerò, Giacomo Magrini, Greci, Parise, Valeria Rossi

Luoghi citati: Capri, Venezia